sabato 27 giugno 2015

L'inizio del lavoro di insegnante. VIII parte

il Castello Superiore di Marostica
La “buona” scuola va avanti nonostante le proteste del paese. Io procedo nel racconto dell’accoglienza che ricevetti dal mio primo preside, non il peggiore del resto tra tutti i presidi della mia vita. Nemmeno il migliore a dire il vero, ma certamente un personaggio esemplare del fatto che molti dirigenti scolastici, quasi tutti credo, non hanno gli strumenti per giudicare la preparazione e l’efficienza degli insegnanti, in particolare di quelli che impiegano la maggior parte del loro tempo studiando.

“Mi dia un’aula qua dentro - gli dissi - una stanza un po’ soleggiata. La scuola sta per finire ma i ragazzi vogliono continuare a studiare con me fino all’esame. ”
“Non voglio che lei qui faccia un club”, rispose. “ Lei, le ragazze può vederle solo di mattina durante il suo orario. Altrimenti si aspetti una censura. La sto preparando”
“Ho capito” conclusi. “Ho sentito”.
Poi mi sottrassi al suo occhio cattivo che mi aveva fissato con una luce di sinistro bagliore.
Continuai a fare lezione alle ragazzine e ai ragazzini non solo dentro la scuola media Ugo Foscolo, ma anche nel prato di Marostica e nel piazzale davanti alla scuola dove c’erano i tavolini del “bar ristorante albergo Centrale”.
Lui non mandò la censura, non a me almeno, però mi punì con la qualifica: mi diede “valente” invece dell’ovvio “ottimo” riscosso da tutti gli altri. Un giudizio politico, del tutto iniquo.
Io non gli permisi di cambiarmi strutturalmente né di domarmi, però mi lasciai fuorviare dal disgusto che mi diede, e per un paio di anni studiai poco facendo lezioni mediocri, ripetendo i luoghi comuni dei manuali e annoiando sia me stesso sia gli allievi.
Allora il preside, credendo che mi fossi normalizzato e inquadrato, mi diede “ottimo” come a tutti gli altri.
Solo nel 1974, quando avevo già fatto un paio di abilitazioni e avuto l’incarico per la superiori, sei mesi prima di trasferirmi a Bologna, ricominciai a studiare e a fare lezioni egregie per gli scolari di Carmignano. Negli anni dell’imbarbarimento culturale ero stato infelice, accoppiato male con una donna adatta al mio ozio e alla mia degradazione. Trascorrevo quei giorni sciagurati tra micrologiche ciance, mangiate, bevute, e indifferenza per tutto il creato e le belle creature.

Ma torniamo alla prima mattina di Carmignano. Dopo il telegramma kafkiano, salii nella mia Mini Minor e la misi in movimento per andare a vedere i dintorni del borgo dove senza saperlo ero destinato a rimanere per cinque anni. Fermai l’automobile al ponte di Tezze sul Brenta attirato dall’acqua del fiume che rifletteva la santa faccia del sole e il campanile della chiesa di quel paese. Mi fermai a fissare lo scorrere dell’acqua come facevo a Moena da bambino. Era più lenta di quella dell’Avisio ma non meno limpida. “Forse anche questa - pensai - scende dalle mie montagne di forma umana”. Sul greto sassoso andavano e venivano due cacciatori con cani che correvano freneticamente su e giù. Erano due animali snelli, muscolosi, vitali. Cercavano qualcosa. Anche io. Dovevo trovare la mia parte di uomo nella vita perché quella di ragazzo l’avevo già recitata tutta.
“La parte la dà il regista, Dio stesso” pensai, “ma io devo recitarla bene”
Entrare nel ruolo nuovo e interpretarlo con arte. Non dovevo lasciarmi scoraggiare e debilitare dai tangheri. L’acqua era trasparente. Si potevano contare le pietre sommerse. “Come un sasso che l’acqua tira giù”[1]. La contemplavo pregando in silenzio: che mi aiutasse a purificarmi dalle debolezze, a liberarmi dai terrori, e trascinasse via le persone ottuse, disoneste, che, al pari di fango informe, di mota e liquame osceno cercavano di imbruttire la mia intelligenza, di ottundere e ammorbare la mia vitalità, di inquinare la mia naturale schiettezza.
Il sole galleggiava nel fiume come un canotto purpureo e rosseggiava in cima al campanile come quella famosa mela o ragazza di Saffo, troppo elevata per essere còlta.
Poi ripartii e salii al castello di Marostica che avevo notato dal ponte. Era circondato da voli di rondini ritardatarie. All’epoca in certi campi ero in ritardo anche io. Però potevo rifarmi. Le foglie dei tanti ciliegi erano vizze ma verdi, si pure di un verde ormai spento; i pampini delle viti erano arancioni o purpurei come il sole riflesso dall’acqua del Brenta. Aleggiava una malinconia dolce. Finiva un’era per me. Il giorno dopo avrei iniziato quella del professore. Il preside mi aveva assegnato una prima e una terza. Dovevo essere una guida per i ragazzi. Io non potevo più essere soltanto un ragazzo.
“La morte non esiste”, pensai. “L’acqua dei fiumi scorre su questa terra da milioni di anni. Se sarò bravo con i miei allievi, se sarò una buona guida, continuerò a vivere nelle loro azioni, nei loro pensieri e in quelli dei loro figli e dei figli dei loro figli, nei secoli dei secoli e così sia. Continuerò ad aleggiare qui sulla terra, anche dopo che mi avranno messo sotto la terra”.
Sei mesi più tardi, in quel castello di nuovo incoronato da voli di rondini, su quel prato dal verde vivacizzato, screziato da fiori bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come in una notte d’estate cadono in scivolata le stelle nei golfi sacri dell’Ellade e invece di inabissarsi spente nell’imo, galleggiano trasformate in luccicanti barche da pesca[2], su quel prato verdissimo e rifiorito dunque, avrei portato i miei allievi contenti, contento anche io di parlare, di correre, di giocare con loro nel sole vivo e nell’aria brillante della nuova stagione, felice di comunicare la mia gioia di vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti.
Mi vedo in una fotografia dell’ultimo giorno di scuola, il 12 o il 13 giugno del 1970.
Io, Peppino Graziani e i nostri allievi siamo allineati di fianco alla mastodontica chiesa di Carmignano, davanti a una grande quercia frondosa, profetica, alata. Come quelle che avrei sentito stormire a Dodona. Tutto nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce abbronzate, i grembiuli neri delle ragazzine e anche l’ombra dell’albero gigante, dalle ampie ali. Ho l’aria soddisfatta. Sono elegante, armonioso. Ho i lineamenti marcati ma fini, come la mamma etrusca, come le zie. Sono bello. Sentivo di avercela fatta a diventare un educatore piuttosto che un impiegato alla Zanini.
Però mi mancava qualcosa: il vivido pathos degli occhi pieni di luce di una splendidissima femmina umana.
In quel motel mi era mancata molto una donna, un’amante.
Ma nessuna delle colleghe mi era piaciuta. Non che sognassi attrici e principesse, ma trovavo del tutto antieroica e antierotica la loro bramosia di accasarsi prima che fosse troppo tardi per loro. Anni dopo avrei considerato molto più interessanti le colleghe sposate ansiose di trovare un amante occulto e clandestino.
Avrei trovato erotica, se non eroica, la complicità con quelle mogli infedeli. Voglio dire che la stoffa idealistica e missionaria l’ho indossata sempre studiando e insegnando, ma in altri campi non ho disdegnato altre maschere per recitare altri ruoli. Criterio non eludibile è stato sempre quello di non danneggiare la vita: la mia e quella degli altri.
Finita la scuola e gli esami, partii per l’Università estiva di Debrecen, con la volontà risoluta di fare del gran sesso, una scorpacciata di sesso, roba ghiotta e possibilmente non indigesta. Durante il viaggio cantavo: “Come un sasso che l’acqua tira giù. /La mia libertà non finisce qua”[3]. Non è ancora finita e non credo che finirà prima di questa mia vita meravigliosa di cui sono grato a chi me l’ha data. Così concludo il capitolo Carmignano di Brenta ringraziando la mamma, il babbo e il buon Dio.


giovanni ghiselli

il blog giovanni ghiselli blog ha superato i 250 mila contatti in 877 giorni alla media di 285 lettori al giorno. Ringrazio anche loro. Saremo 300 mila entro l’anno 2015. Lo spero.



[1] Era una canzone dell’epoca.
[2] Me lo avrebbe fatto notare Ifigenia nella notte fatata di Galaxidion, molti anni più tardi.
[3] La canzone invece faceva: “la mia libertà non la voglio più”. 

2 commenti:

  1. Bella conclusione, approvo.
    Complimenti per il blog!
    alessandro

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  2. Concordo con Alessandro. Giovanna Tocco

    RispondiElimina

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