mercoledì 31 ottobre 2018

La Medea di Seneca. 1027 versi. PARTE 2

John William Waterhouse, Giasone e Medea

Terzo atto 381-579

Nutrice Medea 381-430
p. 68 Il furor della donna offesa nel letto supera quello degli elementi della natura scatenati: “sternam et evertam omnia” 414, stenderò e rovescerò tutto. amor timere neminem verus potest (416). L'incoercibile istinto erotico della donna. Ghismunda di Boccaccio (IV, 1 p. 69 del percorso) dice al padre Tancredi principe di Salerno : “esserti ti dové manifesto essendo tu di carne aver generato figliola di carne e non di pietra o ferro”).
Joyce e Weininger. La tempesta emotiva come quella degli elementi naturali tende a negare l'individuazione: "mecum omnia abeant" (v. 428, p. 70 del percorso), tutto venga in malora con me! Alla fine del Prometeo incatenato il Titano vede il mondo confuso che rischia di regredire nel caos: "xuntetavraktai d j aijqh;r povntw/"(v.1088), sono sconvolti insieme il cielo e il mare".

Medea Giasone 431-559
Giasone invoca la sancta Iustitia (439-440). Il letto per Medea è più importante dei figli. Il Giasone di Seneca non è un miserabile come quello di Euripide, comunque Medea lo accusa di ingratitudine: ingratum caput (v. 466) e di averla colonizzata: quascumque aperui tibi vias, clausi mihi! (458). La donna deve andare in esilio e non sa dove.
Colpevolezza e ignobiltà dell'ingratitudine: Senofonte: Ciropedia: Euripide, Eracle: Sofocle: Aiace, Filottete, Teognide, Shakespeare: Giulio Cesare, Tito Andronico ( p. 74 del percorso)
L'esilio di Medea secondo la donna è una poena, non un munus come vorrebbe darle da intendere Giasone il quale si fa un merito di avere sottratto la moglie all'ira del re: “poenam putabam: munus ut video est fuga” ( 492). L'ira è il tratto distintivo del tiranno e non ha niente di grande né di nobile. Il potere forte non subisce controlli. Medea rinfaccia a Giasone di essere il mandante dei delitti da lei compiuti: :"cui prodest scelus is fecit" vv. 501-502), quasi un principio giuridico.
Quindi la donna rifiuta la maternità di bambini che, discendenti dal Sole, diventerebbero fratelli dei nipoti di Sisifo. Giasone teme due re, quello di Corinto, Creonte, e quello di Iolco, Acasto.
Medea però afferma di essere più forte di loro: “Est et his maior metus:/ Medea (vv. 516-517): si sente più forte della Fortuna: :"Fortuna semper omnis infra me stetit " (v. 520), ogni tipo di sorte è sempre stata al di sotto di me. Medea ha in comune con Achille il non cedere eroico, e con Aiace l’orrore della derisione.
Quindi decide di colpire Giasone nel punto debole che ha scoperto: “ Sic natos amat? /bene est, tenetur, vulneri patuit locus (550): ama i figli dice la donna tra sé, è aperto e si vede lo spazio per la ferita
Per questo finge sottomissione. Giasone approva per il proprio utile.

Medea da sola 560-578
Poi l'uomo si allontana e Medea palesa i suoi intenti e il suo stato d'animo:" Fructus est scelerum tibi/nullum scelus putare" (vv. 563-564, frutto dei delitti e non considerare nulla un delitto).
Ella colpirà i nemici con doni letali: un mantello, una collana e una corona d'oro. L’oro letale.
Maledizioni dell'oro. Ovidio nelle Metamorfosi (I, 141) sostiene che l'oro è più funesto del ferro. La brama del metallo prezioso infatti scatena la guerra e inaugura l'era della compiuta peccaminosità, come, negli ultimi tempi, il petrolio. La Medea di Christa Wolf è protettiva verso la nuova moglie di Giasone.
Medea invoca Ecate, la vindice delle donne abbandonate: Simeta di Le incantatrici di Teocrito, Didone.

Il terzo coro in strofe saffiche (580-670).
Il furor di Medea e il castigo. La rabbia di una moglie abbandonata è devastante più di quella dei grandi fiumi usciti dagli argini. La madre furente. La donna offesa da un uomo adulto può diventare una belva con i bambini: Medea, Idotea1 in Sofocle, Procne in Ovidio.
Il terzo coro chiede venia per Giasone, ma Nettuno è furioso perché sono stati spezzati i sacrosanti vincoli del mondo.
Il consiglio è: "vade, quā tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " (vv. 605-607), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
"Se… l' aijtiva e l' ai[tion della vicenda euripidea è la rottura, da parte di Giasone, del foedus con la sposa, in Seneca l' aijtiva è la rottura non del foedus con Medea (cosa di cui non è responsabile e che comunque è fatto recentior ) ma dei foedera mundi " 2.
Infatti i profanatori del mare sono morti male, come Fetonte che ha cercato di violentare il cielo. Gli Argonauti hanno prima devastato i boschi del Pelio: chi ha costruito la nave “Pelion densā spoliavit umbrā". Motivo ecologico.
Poi hanno solcato il pelago per impossessarsi dell'oro, ma : exigit poenas mare provocatum (v. 617) p. 91. L'exitus dirus la morte orribile (cfr. v. 615) è l'espiazione della rottura dei sacrosancta foedera mundi.
Il coro chiede agli dèi di graziare Giasone che è partito iussus (v. 670). E' la mancanza di entusiasmo per l'impresa, l' ajmhcaniva delle Argonautiche.

Quarto atto. 670-867
Monologo della nutrice 670-739
I preparativi della madre furente che medita un maius monstrum (v. 676) spaventano la nutrice.

La sposa tradita con una ragazza più giovane e bella diventa la belva peggiore:"nulla non melior fera est" afferma, nell' Hercules Oetaeus (vv. 233 sgg.), la nutrice di Deianira che ha visto Iole risplendere qualis innubis dies . La moglie di Ercole accusa il tempo che passa e i parti quali cause della decadenza della forma: "Quidquid in nobis fuit/olim petītum, cecidit et partu labat (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era desiderato, è caduto e con il parto vacilla. p. 94 del percorso
E' questo secondo motivo che porta la madre a odiare i figli? Si pensi al caso di Cogne e a quello più recente di Ragusa.
Nell’Elettra di Sofocle, Clitennestra ricorda che Agamennone sacrificò Ifigenia dopo averla seminata e senza avere sofferto i travagli del parto (532-533). Cfr. la Medea di Euripide ai vv. 248-251. Nell’Ifigenia in Aulide la corifea dice deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga ( comporta una grande magia, 917)
Nelle Fenicie di Euripide la corifea commenta la pena di Giocasta dicendo che è deino;n per le donne il parto con le doglie e tutta la razza femminile è amante dei figli (355-356)

Intanto Medea, racconta la nutrice, chiede i veleni al cielo poiché quelli terreni non le bastano: coelo petam venena (v. 694). In Medea c'è, come in Oedipus e in Otello il darsi animo:"Iam iam tempus est/aliquid movere fraude vulgari altius " (vv. 693-694), oramai è già tempo di scuotere qualche cosa di più alto che un artificio volgare.
Quindi la maga ammucchia le erbe più velenose per farne un impasto letale. La scelerum artifex (734) mescola alle erbe mortali, bava di serpenti e pezzi di uccelli di cattivo augurio.
:"Mortifera carpit gramina ac serpentium/saniem exprĭmit miscetque et obscenas aves/maestique cor bubonis et raucae strigis/exsecta vivae viscera (…) Addit venenis verba non illis minus/ metuenda. Sonuit ecce vesano gradu/canitque. Mundus vocibus primis tremit " ( Medea, vv. 731-734 e 737-739), sminuzza le erbe micidiali e spreme la bava dei serpenti e mescola anche uccelli di cattivo augurio, il cuore di un lugubre gufo e le viscere strappate da stridula strige ancora viva (…) Ai veleni aggiunge parole non meno tremende di quelle. Eccola che ha fatto risuonare il suo passo furioso e canta. Il mondo trema solo a udirne la voce.

Cfr. le streghe del Macbeth.
"In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth "3.
"In verità è difficile leggere il resoconto dei preparativi di Medea (670-739) senza riandare con la mente agli incantesimi del Macbeth "4.
Si tratta della prima scena del quarto atto. Le streghe mettono vari ingredienti in una caldaia bollente. Vediamone alcuni: filetto di una biscia di pantano (Fillet of a fenny snake), pelo di pipistrello e lingua di cane (wool of bat, and tongue of dog), zampa di lucertola e ala d’allocco (lizard’s leg, and howlet’s wing), fegato di giudeo bestemmiatore (liver of blaspheming jew), dita di un bambino strangolato al suo nascere, appena messo al mondo in una fossa da una sgualdrina (finger of birth-strangled babe-ditch-delivered by a drab), viscere di una tigre (a tiger’s chaudron), tutto da raffreddare con il sangue di un babbuino (with a baboon’s blood).
Il tragico e il macabro qui confinano con il comico.
Gusto per l’orribile che anticipa un aspetto del decadentismo. Si pensi a Il trionfo della morte di D’Annunzio (1894). Binni (La poetica del decadentismo) afferma che D’Annunzio vuole suscitare sensazioni attraverso le parole.
"Il testo senecano è in qualche modo autosufficiente, perché la parola è il centro dello spettacolo, anzi la parola è essa stessa spettacolo"5.
Secondo Nietzsche la parola nella decadenza letteraria diviene autonoma perfino dalla frase: "La vita non risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori dalla frase, la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto, - il tutto non è più tutto"6.
Vediamo allora qualche parola di D’Annunzio che descrive “un tragico viluppo di ossessi” ( Il trionfo della Morte, libro IV cap. VII, p. 287), una moltitudine che “tumultuava intorno al Santuario” (p. 290). Un accattone “agitava rabbiosamente una mano ritorta come una radice, per cacciare le mosche che lo assalivano a nugoli” (p. 292). “Uno dalle mani mozze agitava i moncherini sanguigni come se la troncatura fosse ancor fresca o mal cicatrizzata” “Un altro, per una crescenza del labbro, pareva tenesse fra i denti un brano di fegato crudo” (p. 294). “Vi si vedevano femmine seminude, sfiancate come cagne dopo il parto, e fanciulli verdi come ramarri, macilenti, con gli occhi rapaci…Ciascuna comunità aveva il suo mostro: un monco, uno storpio, un gobbo, un cieco, un epilettico, un lebbroso. Ciascuno aveva in patrimonio la sua ulcera da coltivare perché rendesse” (p. 296). “Un cieco, in ginocchio, con le palme rivolte al cielo, nell’attitudine di un estatico, aveva sotto una vasta fronte calva due piccoli fòri sanguinosi” (p. 297)


CONTINUA


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1 Accecò per gelosia Ornito e Crambi figli di Cleopatra e di Fineo.
2 G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 440
3 Bradley, op. cit., p. 418.
4 Bradley, op. cit., p. 418.
5 D. Lanza D. Lanza, Lo spettacolo della parola, "Dioniso", 52, p. 465.

6 F. Nietzsche, Il caso Wagner, p. 19.

martedì 30 ottobre 2018

Seneca, "Lettere a Lucilio", da 1 a 54. PARTE 2

Peter Paul Rubens, Busto di Seneca


12 I vantaggi della vecchiezza e la morte volontaria
Quocumque me verti, argumenta senectutis meae video. Segni della vecchiaia.
E’ andato in suburbanum meum e ha visto la villa cadente, i platani in cattivo stato. Era tutto vecchio e malandato.
Quod intra nos sit, ego illas (platanos) posueram, ego illarum primum videram folium.Poi vede un decrepitus merito ad ostium admotus, che a ragione hanno messo davanti alla porta come un cadavere.
Seneca domanda al vilicus, il fattore perché abbia portato in casa alienum mortuum un morto estraneo. Allora il decrepito si fa riconoscere come il figlio del fattore precedente, da bambino era stato l’amichetto di Seneca deliciŏlum tuum. Seneca prova a dire che il vecchio delira dentes illi cum maxime cadunt (3). Ma poi debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque verteram apparuit (5)
Ebbene complectamur illam (senectutem) et amemus; plena est voluptatis, si illa scias uti (4). Gratissima sunt poma cum fugiunt, deditos vino potio estrema delectat, iucundissima est aetas devexa iam, non tamen praeceps, inclinata verso il tramonto ma non a precipizio, e pure quella in extrema tegula stans ha le sue voluptates, o, se non le ha, non ne ha bisogno (5)
Unus autem dies gradus vitae est (12, 6) un solo giorno poi è come un gradino della vita.
Crastinum si adiecerit deus, laeti recipiamus ( 9)

13 La fortezza propria del saggio e l’inutile preoccupazione per l’avvenire
Non quid audias sed quid sentias coge (6), rifletti non su quello che senti dire, ma su quello che tu senti.
Cito accedimus opinioni, crediamo presto alla voce pubblica, soprattutto a quelle che vogliono metterci paura. Quid iuvat dolori suo occurrere? Satis cito dolebis cum venerit, interim tibi meliora promitte. Quid facies lucri? Tempus, ci guadagnerai del tempo.
Aliquis carnefici suo superstes fuit.
Habet etiam mala fortuna levitatem, volubilità. Fortasse erit, fortasse non erit : interim non est (11). Quotiens incerta erunt omnia, tibi fave. Crede quod mavis (13), propendi per ciò che preferisci
Può accadere che la morte onori la vita: cicuta magnum Socratem fecit (14)

14 La cura del corpo. Come il saggio sfugga ai pericoli
Multis serviet qui corpori servit (1).
Sapiens nocituram potentiam vitat (8) evita i potenti che possono nuocergli
Inoltre circuspiciendum nobis est quomodo a vulgo tuti esse possimus. Non dobbiamo desiderare le cose cui aspira la feccia. Inoltre bisogna evitare odium, invidia, contemptus.
Catone morì per non perdere la libertà ma iam non agitur de libertate: olim pessum data est (12) oramai non si tratta più di libertà, già da un pezzo è andata in malora.
Del resto già Catone quid aliud quam vociferatus est Cato et misit inrĭtas voces, frasi inutili.
Gli Stoici a re publica exclusi secesserunt ad colendam vitam et humano generi iura condenda sine ulla potentioris offensa (14) si ritirarono per vivere e dare leggi agli uomini
Non conturbabit sapiens publicos mores nec populum in se vitae novitate convertet, non attirerà l’attenzione con la stravaganza della vita.
Nunc ad cotidianam stipem manum porrigis (17) ora tendi la mano all’offerta giornaliera: is maxime divitiis fruitur qui minime divitiis indiget, chi non ne sente la mancanza
Una sentenza di Epicuro o del suo allievo Metrodoro o di un altro filosofo della stessa scuola: “et quid interest quis dixerit? Omnibus dixit” (18)

15 Gli esercizi fisici
Non bisogna mangiare troppo. La valetudo non magno tibi constabit, si volueris bene valere Non c’è bisogno della palestra: minime conveniens litterato viro occupatio exercendi lacertos et dilatandi cervicem ac latera firmandi. cum tibi tori creverint nec vires umquam opimi bovis nec pondus aequabis. Inoltre il corpo appesantito infiacchisce l’anima.
 Dunque poco cibo et exercitationes faciles et breves, quae corpus et sine mora lassent, che stancano presto il corpo et tempori parcant: cursus, et cum aliquo pondere manus motae et saltus vel ille qui corpus in altum levat vel ille qui in longum mittit, vel ille, ut ita dicam, saliaris aut, ut contumeliosus dicam, fullonius (4). Quidquid facies, cito redi a corpore ad animum; illum noctibus ac diebus exerce
 Neque ego te iubeo semper imminere libro aut pugillaribus (tavolette): dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen non ut resolvatur, sed remittatur (15, 6), in modo però che non si infiacchisca ma si distragga.
Stulta vita ingrata est, trepida; tota in futurum fertur” (15, 9)
Si vis gratus esse adversus deos et adversus vitam tuam, cogita quam multos antecesseris. Quid tibi cum ceteris? Te ipse antecessisti (10), hai superato te stesso.
Ecce hic dies ultimus est; ut non sit, prope ab ultimo est (15, 11) posto che non sia, gli è molto vicino

16 L’utilità della filosofia
Excute te et varie scrutare et observa (16, 2)
Philosophia non in verbis sed in rebus est (16, 3)
Haec (philosophia) adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter sprezzantemente; haec docebit ut deum sequaris, feras casum. Istuc quoque ab Epicuro dictum est: si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opiniones numquam eris dives. Exiguum natura desiderat, opinio immensum (16, 7-8).

17 Bisogna senza indugio darsi alla filosofia. La povertà non è un male.
 Multis ad philosophiam obstitēre divitiae: paupertas expedita est, secura est (17, 3)
Frugalitas autem paupertas voluntaria est (17, 4)
Quod promittitur: perpetua libertas, nullius nec hominis nec dei timor (6)
Ab Epicuro mutuum sumam: “multis-per molti- parasse divitias non finis miseriarum fuit sed mutatio. Nec hoc miror; non est enim in rebus vitium sed in ipso animo”” (11)

18 I diletti del saggio
Dal 14 al 23 dicembre a Roma c’erano i Saturnali con allegria sfrenata e libertà per gli schiavi
Ius luxuriae publice datum est. Ma non c’è grande differenza inter Saturnalia et dies rerum agendarum, infatti uno disse che una volta dicembre era un mese, ora è un anno. Una volta la toga era smessa per il sagum il mantello militare. Saga sumere era segno di guerra.
Si deponeva la toga e si indossava un tessuto più fine
E’ un segno di forza ebrio ac vomitante populo siccum ac sobrium esse: licet enim sine luxuria agere festum diem (4)
Bisogna esercitarsi alla povertà per tre o quattro giorni o anche di più ut non lusus sit sed experimentum: grabattus ille verus sit et sagum et panis durus ac sordidus (7), deve essere non un gioco ma una prova ci sia un vero lettuccio, un saio e un pezzo di pane duro e grossolano.
Nemo alius est deo dignus quam qui opes contempsit (18, 13)
 Infine cita ancora una volta Epicuro: Immodica ira gignit insaniam (18, 14)

19 L’utilità del riposo
La quies non toglie niente allo splendore dell’uomo buono e capace.
I clientes sono persone quorum nemo te ipsum sequitur , sed aliquid ex te; amicitia olim petebatur, nunc praeda; mutabunt testamenta destituiti senes, migrabit ad aliud limen salutator (4) i vecchi senza prole cambieranno testamento, il visitatore migrerà verso un’altra soglia.
Qualem dicimus seriem esse causarum ex quibus nectitur fatum, talem cupiditatum: altera ex fine alterius nascitur (6)
Ipsa enim altitudo attǒnat summa (19, 9) la stessa altitudine espone la sommità al fulmine.
Epicuro consiglia di mangiare in buona compagnia: nam sine amico visceratio leonis ac lupi vita est (19, 10).
Cfr. Leopardi monofavgo~
Oppure la monofagia compiaciuta, ma non per questo sana, come quella di Leopardi che la difende dalla cattiva reputazione:"Il mangiar soli, to; monofagei'n, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo monofavgo" , si dava ad alcuno p. vituperio, come quello di toicwruvco" , cioè di ladro…Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perché essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione[1], ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco cibo p. destare la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esterni della favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può essere buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforisma medico), abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacché molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro p. qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano, e non fanno altro che imboccare e ingoiare!"[2].
Nel mangiare solo tuttavia c'è qualche cosa di poco umano. Leopardi, come tutti i frustrati sessuali, doveva avere un rapporto malsano con il cibo. Ce ne dà testimonianza il sodale Antonio Ranieri il quale racconta che i medici gli vietavano " le cose dolci, ed assolutamente, i gelati". Ma il poeta, "bramosissimo delle une e degli altri, lasciata dall'un dei lati ogni apprensione, perseverava i più incredibili eccessi: il caffè, sciroppo di caffè; la limonea, sciroppo di limone; il cioccolatte, sciroppo di cioccolatte (e non senza le vainiglie, rigorosamente vietategli); e così via. E quanto ai gelati, era un furore: forse che il morbo stesso lo spingeva! Più i medici minacciavano sputi sanguigni, bronchiti e vomiche, e più il furore cresceva…"[3]. Non c'è bisogno di andare oltre: si vede un mangiare solitario e malsano, quasi suicida.

Molti odiano chi li benefica: leve aes alienum debitorem facit, grave inimicum (11). Bisogna scegliere le persone da beneficare per non dare le perle ai porci. Cfr. Timone di Atene, Plutarco e Shakespeare.


CONTINUA



[1] Latinismo: comissatio significa propriamente "baldoria dopo il banchetto".
[2] G. Leopardi, Zibaldone, 4183-4184.
[3] A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, p. 69.

lunedì 29 ottobre 2018

La Medea di Seneca. 1027 versi. PARTE 1



Sommario della Medea di Seneca presentata, commentata e ampliata a Cento il 27 ottobre 2018, sala Artecento


I atto vv. 1-55
Medea da sola. Monologo.
La preghiera nera. Medea invoca le divinità della mitologia inferiore Ecate e caos, ombre empie. Gli eterni nemici dell’ordine e della cultura: “voce non fausta precor” (v. 12). Chiede la presenza delle Erinni (adeste vv-13 e 15) con fiaccola fumosa nelle mani insanguinate ( atram cruentis manibus amplexae facem, v. 15). La negazione della luce.
La preghiera nera di Ortrud, congiurata con gli dèi pagani Wodan e Freia nel Lohengrin di Wagner (p. 22).
Wotan e Freia sono stati “profanati” dall’avvento del cristianesimo. Le Erinni e Atena.
 C'è una connessione tra le forme della terra e quelle dell'esperienza umana: pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue (vv. 42-43, p. 18). Il determinismo geografico: i Fenni di Tacito. Tasso. I Marchigiani di Leopardi (p. 20 del percorso, un assaggio qui sotto).

Seneca nel De ira afferma che per governare è necessaria una natura equilibrata, non intrattabile e questa ha bisogno di un clima mite:"nemo autem regere potest nisi qui et regi. Fere itaque imperia penes eos fuere populos qui mitiore caelo utuntur. In frigora septentrionemque vergentibus immansueta ingenia sunt, ut ait poeta "suoque simillima caelo" (II, 15), nessuno del resto può governare se non può anche essere governato. Perciò gli imperi in generale si sono trovati presso quei popoli che fruiscono di un clima più mite. Sono feroci le indoli esposte al freddo e al settentrione, e, come dice il poeta[1], "molto somiglianti al loro cielo".
Il poeta è ignoto ma Tacito nella Germania[2] conferma questo giudizio:"Fennis mira feritas, foeda paupertas: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubili humus; solae in sagittis opes, quas inopia ferri ossibus asperant. Idemque venatus viros pariter ac feminas alit: passim enim comitantur partemque praedae petunt" (46), incredibile è la ferocia dei Fenni, squallida la loro miseria: non armi, non cavalli, non abitazioni; per vitto hanno l'erba, per vestito le pelli, per letto la terra; le sole ricchezze le frecce, che per mancanza di ferro rendono aguzze con le ossa. La medesima caccia nutre ugualmente gli uomini e le donne: infatti li accompagnano nel loro girovagare e pretendono una parte della preda. Questo è l'ultimo capitolo della monografia e i Fenni si trovano nell'estremo nord est.

La negazione della femminilità: Medea e Lady Macbeth unsex me here (Macbeth I, 1, p. 21 del percorso). Argia nella Tebaide di Stazio vuole seppellire Polinice con coraggio virile (sexuque relicto, XII, 78). Poi anche nell’Antigone di Alfieri: “me del mio sesso io sento/fatta maggiore” (vv. 42-45). La maternità e la spietatezza compiuta: maiora iam me scelera post partus decent (Medea, v. 50)
Le Argonautiche mostrano l'antefatto della tragedia nel diverso investimento erotico dei due amanti.
Il sogno infantile della Medea di Apollonio Rodio (p. 23 del percorso).

I Coro vv. 56-115
Nel primo coro i Corinzi cantano le nuove nozze di Giasone con Creusa augurando ogni bene agli sposi. E’ una preghiera pia. L’ambientazione greca diventa italica con la menzione della rara, iusta licentia in dominos (109) consentita al dicax fescenninus (113) il fescennino mordace (p. 25).

Il secondo atto 116-380
Medea-Nutrice 116-178.
La coazione a ripetere i delitti: “scelera te hortentur tua/ et cuncta redeant” (129-130), ti tornino tutti alla mente, e li rievoca. Ricorda anche i torti: Creonte coniugia solvit (144), scioglie le nozze, fidem/ dirĭmit (145-146) rompe la fede.
Fides ( di nuovo al v. 164) e foedus. ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn ( Euripide, Medea, 21-22), Medea reclama il sommo impegno della mano destra. Fides è fundamentum iustitiae[3]. Foedus è l'accordo stipulato secondo le regole della fides. Ma un rapporto di fiducia è anche una relazione di potere. Il foedus in origine legava contraenti di potenza diseguale. Il caso dei Falisci fide provocati[4] , sollecitati dalla lealtà di Camillo. La slealtà greca dichiarata da Lisandro. L'amicitia amorosa di Catullo. Rompere la fede non porta bene[5] (p. 34 del percorso). Inaffidabilità dei giuramenti amorosi. Etimologia di femina. La transvalutazione lessicale:"scelus virtus vocatur[6].
 L'identità di Medea: Medea superest (v. 166).
La Nutrice le fa: “abiēre Colchi, coniugis nulla est fides/nihilque superest opibus e tantis tibi” ( 164-165). Medea risponde: “Medea superest, hic mare et terras vides/ferrumque et ignes et deos et fulmina”( 166-167).
 L'autopossesso è l'unico punto fermo nei momenti critici. Diventare se stessi prima di morire: le Memorie di Adriano.
 La Medea di Anouilh. Nella rapina rerum omnium (Seneca ad Marciam 10, 4) rimane soltanto il suum esse (De brevitate vitae, 2, 4)

Antonio dice "Sono ancora Antonio [7]" e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[8]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?"[9].
Giulio Cesare di Shakespeare dice ad Antonio: Non temo Cassio, pur pericoloso: for always I am Caesar (I, 2, 211)
Poi a Calpurnia: “the things that threatened me never looked but at my back; when they shall see the face of Caesar, they are vanished-cfr. Vanesco- (II, 2, 10-12)
Quindi al servo: “Danger knows full well that Caesar is more dangerous than he (II, 2, 44-45).

Creonte Medea- 179-300
 La paura di Creonte: liberet fines metu (185) vade veloci via ( 190).

La fobia delle donne dichiarata da Catone il Censore in Tito Livio ( Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt ", ( Livio, Storie XXXIV, 3, 2) p. 45 del percorso

Creonte cerca di cacciare Medea. Il tiranno non vorrebbe ascoltare, ma Medea si impone. La solitudine della Medea di Seneca (vv. 207-210) e di quella di Euripide (vv. 252-258) p.47 del percorso un assaggio qui sotto

Medea pur se abbandonata non perde l’orgoglio della propria razza e identità ella è nata da un re e cresciuta nella sua reggia. La solitudine non la umilia :"Quamvis enim sim clade miseranda obruta,/expulsa, supplex, sola, deserta, undique/adflicta, quondam nobili fulsi patre,/avoque clarum sole deduxi genus" (vv. 207-210), sebbene infatti io sia annientata da una miseranda rovina, cacciata, supplice, sola, abbandonata, vessata da tutte le parti, una volta brillai per il nobile padre e ho tratto l'origine illustra dal Sole che è mio nonno.

Valutazioni diverse della solitudine. Imprevedibilità della vita umana: “petebant tunc meos thalamos proci qui nunc petuntur” (219-220) p. 51.
 La parte buona, vera o simulata, di Medea: "hoc reges habent/magnificum et ingens, nulla quod rapiat dies:/prodesse miseris" (vv. 222- 224). Il credito di Medea nei confronti dei Greci. Dice di avere salvato il fior fiore della loro gioventù: “vobis revexi ceteros, unum mihi” (v. 235) La borsa di studio di Medea è Giasone come Tess[10] è my fellowship di Angel. Creonte teme Medea quale mivasma della sua terra. La maga denuncia la correità di Giasone, p. 57 del percorso. Una sentenza senecana sovvertita in malam partem da Creonte che teme Medea:" Nullum ad nocendum tempus angustum est malis" (v. 292), nessuna frazione di tempo è ristretta per i malvagi intenzionati a nuocere.

Il secondo coro (301-379), in dimetri anapestici, maledice la navigazione p. 58 del percorso.
Prometeo, Orazio (Odi, I, 3) e Leopardi.
La cultura pragmatica, senza carità, strumentalizza tutto. L'audacia dei navigatori è eccessiva e colpevole: audax nimium (301)ausus Tiphis (318). L'uomo deinovteron dell'Antigone. La navigazione ha unito quello che doveva restare separato guastando i candida…specula (329) dei padri. E' la stessa u{bri" di Serse il quale, secondo Eschilo, tentò di trattenere con vincoli la sacra corrente dell'Ellesponto e di unificare ciò che deve restare diviso[11].
 Bene dissaepti foedera mundi/ traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum/partemque metus fieri nostri/mare sepositum ( Medea, vv. 335-339), la nave tessala unificò le parti del cosmo separate bene da un recinto di leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il mare lontano divenisse parte della nostra paura.
Erodoto racconta che Serse fece frustare e incatenare il mare (VIII, 109). Il rischio è quello del ritorno al magma indifferenziato del caos. Infatti il pretium huius cursus (cfr. vv. 360- 361) è Medea "emblema del caos etico". Il mondo pervius ha aperto la via alla "confusion delle persone". “Venient annis saecula seris,/quibus Oceanus vincula rerum/laxet (v. 375-377), verranno secoli in anni lontani nei quali l'Oceano sleghi le catene del mondo .
 L'Oceano in diversi autori p. 66 del percorso. Erodoto nega ci sia questo grande fiume che secondo Ecateo circondava il disco della terra. Oceano che circonda e abbraccia le terre corrisponde a un’ idea universalistica della storia e della politica.
Prometeo, l'inventore delle navi, ne conferma l'esistenza. Con Erodoto scompare l'idea universalista di Oceano che stringe in cerchio la terra. "L'Oceano è 'garante' ed emblema, insieme, dell'ordine cosmico in Oedipus, vv. 503-508".[12]


CONTINUA


[1] Ignoto.
[2] Del 98 d. C.
[3] Cfr. Cicerone, De officiis, I, 23.
[4] Livio, 5, 28, 13.
[5] Catullo 64. La slealtà di Teseo si ritorcerà contro di lui.
[6] Hercules furens, vv. 251-252.
[7] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13, 93
[8]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580-1625).
[9]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , p. 800..
[10] La proganista eponima del romanzo Di T. Hardy.
[11] Eschilo, Persiani, vv. 745-750.
[12] G. B. Conte, op. cit., p. 353.

venerdì 26 ottobre 2018

Seneca, "Lettere a Lucilio", da 1 a 54. PARTE 1

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Frasi che presenterò e commenterò il prossimo 27 ottobre 2018 a Cento, ore 17.15, sala Artecento

Frasi chiave di Seneca, Epistulae 1-54

1 L’impiego del tempo
Vindica te tibi et tempus (…) collige et serva (1 , 1) Omnes horas complectĕre (1, 2) Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est (1, 4) sera parsimonia in fundo est. (1, 5). Cfr. il De brevitate vitae.

2 I viaggi e la lettura
Primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari (2, 1) il primo indizio di una mente ordinata è il potere star fermo e raccolto in sé.
Nusquam est qui ubīque est. Chi è dappertutto non è in nessun luogo.
Probatos semper lege, leggi sempre autori di provato valore (2, 4)
Ex pluribus quae legi aliquid adprehendo, dalle parecchie pagine che leggo, mi impadronisco di qualche perla (2, 5)
Ho trovato un pensiero in Epicuro soleo enim in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator: “honesta res est laeta paupertas” (2, 5) è decorosa una povertà lieta. Illa vero non est paupertas, si laeta est. Non qui parum habet, sed qui plus cupit pauper est (2, 6)

3 La scelta degli amici
Post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum (2)
Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum illo loquere quam tecum (2)
Fidelem si putaveris, facies;-lo renderai tale- nam quidam fallere docuerunt dum timent falli (3)
Utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli (4)
Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem. Vale. (3, 6)

Cfr. le Fenicie di Euripide sull’eguaglianza come legge del cosmo dove luce e tenebra sono equamente divise
 Giocasta strappa a Eteocle l’aura eschilea del re preoccupato del bene comune. La madre contrappone all’ambizione l’ jisovthς, l’uguaglianza, una norma del cosmo come si vede nella distribuzione di ore di luce e di buio durante l’anno. Il più è invece il principio della discordia. Contro le trame oligarchiche. Tucidide ricorda che nello stesso governo dei Quattrocento prevalevano invidie e rancori poiché nessuno voleva l’uguaglianza ma ciascuno pretendeva di essere il primo. Tali sforzi portarono alla rovina di una oligarchia nata da una democrazia (VIII, 89, 3).
Giocasta dunque professa un atto di fede nella democrazia e nell’uguaglianza.
Il più ha soltanto un nome: tiv d’ ejsti; to; plevon ; o[nomj e[cei movnon ( 553) , poiché ai saggi basta il necessario (ejpei; tav g j ajrkounqj iJkana; toi'ς ge swvfrwsin 554), le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j , au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).
Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando Callippide dice a Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il figlio, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Orazio:“Linquenda tellus et domus et placens-uxor neque harum, quas colis arborum-te praeter invisas cupressos-ulla brevem dominum sequetur” (Orazio, Odi, II, 14, vv. 21-24), devi lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e di questi alberi che coltivi, nessuno ti seguirà, padrone istantaneo, tranne gli odiosi cipressi.
Altrettanto in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.

4                    Il timore della morte
Plerique inter mortis metum et vitae tormenta miseri fluctuantur (notare la metafora nautica)
Pompeo fu ucciso da un ragazzo, Tolomeo XIII, sotto tutela di un eunuco (Fotino), Crasso dai Parti, Caligola dal tribuno dei pretoriani Cherea.
Noli huic tranquillitati confidere: momento mare evertitur (7), in un momento il mare si sconvolge.
Ex quo natus es ducĕris (9), sei condotto verso la morte.
Et hoc quoque ex alienis hortulis sumptum est, ossia da Epicuro: “magnae divitiae sunt lege naturae composita paupertas”, grande ricchezza è la povertà conforme alla legge di natura.
 (Divitiae grandes sunt vivere parce, De rerum natura V 1117).
Lex autem naturae scis quae nobis terminos statuat: non esurire, non sitire, non algere. Cfr. Epicuro: mh; peinh'n, mh; diyh'n mh; rigou''n (fr. 200 Usener)
Parabile est quod natura desiderat et adpositum. Ad supervacua sudatur (4 ,10). Ad manum est quod sat est (4, 11)

5                    La millanteria dei filosofi e la vera filosofia
Non splendeat toga, ne sordeat quidem (5, 4)
Hoc primum philosophia promittit: sensum communem, humanitatem et congregationem, il buon senso, l’umanità e la socievolezza, a qua professione dissimilitudo nos separabit (4) e da questa funzione i costumi troppo diversi ci separeranno.
Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquēre corpus suum et facile odisse munditias et squalorem adpetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis (5, 4)
Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas (5, 5)
Qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostrum (5, 6)

6                    La vera amicizia
Aliquid gaudeo discere ut doceam (…) nullius boni sine socio iucunda possessio est (4)
Longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla (6, 5)
Platon et Aristoteles plus ex moribus quam ex verbis Socratis traxit (6)
Citazione da Ecatone: quaeris inquit quid profecerim? Amicus esse mihi coepi (6, 7)
Nato a Rodi, fu discepolo di Panezio (II secolo) e, al di fuori di questo, nient'altro ci è noto della sua vita. È chiaro che fu un personaggio di spicco tra gli stoici del periodo. I suoi scritti non ci sono pervenuti; Diogene Laerzio attribuisce sei trattati al filosofo
·                     Περ γαθν (Sui beni), in almeno diciannove libri
·                     Περ ρετν (Sulle virtù)
·                     Περ παθν (Sulle passioni)
·                     Περ τελν (Sui fini)
·                     Περ παραδόξων (Sui paradossi), in almeno tredici libri
·                     Χρεαι (Massime)

7 Bisogna fuggire la folla
Quid tibi vitandum praecipue existimem quaeris? Turbam (7, 1) cfr. turbo metto in disordine, o[clo", folla, massa; ojclevw, disturbo.
Nihil vero tam damnosum bonis quam in aliquo spectaculo desidēre (…) avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui (…) nugis omissis mera homicidia sunt (7, 3) exitus pugnantium mors est (7, 4)
Quid ergo? Quia occīdit, ille meruit ut hoc pateretur:tu quid meruisti miser ut hoc spectes? (7, 5).
Facile transītur ad plures (7, 6)
Recēde in te ipse quantum potes: cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent, discunt (7, 8)

8 Quale deve essere l’occupazione del saggio
Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago (Ep. 8, 2)
Vitate quaecumque vulgo placent, quae casus adtribuit (…) munera ista fortunae putatis? Insidiae sunt. Quisquis vestrum tutam agere vitam volet, quantum plurimum potest ista viscata beneficia devītet in quibus hoc quoque miserrimi fallimur: habere nos putamus, haeremus (8, 3) rimaniamo invischiati. Cogitate nihil prater animum esse mirabile, considerate che nulla tranne l’animo è degno di ammirazione (5)
Quanto al corpo : corpori tantum indulgeatis quantum bonae valetudini satis est. Durius tractandum est ne animo male pareat (5)
  
9 Il saggio e l’amicizia
 Si vis amari, ama (9, 6)
Qui amicus esse copepit quia expedit, et desinet quia expedit (9, 9) ista quam tu descrībis negotiatio est, non amicitia (9, 10)
Se contentus est sapiens ( 13)
Stulto nulla re opus est (nulla enim re uti[1] scit) sed omnibus eget (14) allo stolto non occorre nulla, infatti non sa servirsi di nulla, ma sente la mancanza di tutte. Il saggio eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est (14), sentire la mancanza è una questione di necessità, ma al saggio nulla è necessario.
 Il saggio in se reconditur secum est ( 16).
Il saggio ama gli amici ma ripone ogni bene in se stesso come Stilbon ille che a Demetrio Poliorcete il quale gli aveva domandato num aliquid perdidisset, rispose: nihil perdidi, omnia mea mecum sunt, iustitia, virtus, prudentia, hoc ipsum, nihil bonum putare quod eripi posset (19)
Se enim ipse contentus est; hōc felicitatem suam fine designat, con questo confine segna la sua felicità.
Omnis stultitia laborat fastidio sui. Vale (9, 22)

10 L’utilità della solitudine
Fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum (Ep. 10. 1)
Iste homo non est unus e populo, ad salutem spectat (3)
Sic vive cum hominibus tamquam deus videat

11 Può la saggezza correggere i difetti?
Quidquid infixum et ingenitum est lenītur arte, non vincitur (1)
Possiamo trovare difficoltà per il sudor, quibusdam tremunt genua dicturis, quorundam dentes colliduntur, lingua titŭbat, labra concurrunt (…) inter haec esse et ruborem scio, qui gravissimis quoque viris subitus adfunditur. Gli attori artifices scaenici qui imitantur adfectus qui metum et trepidationem exprĭmunt, qui tristitiam repraesentant hoc indicio imitantur verecundiam: deiciunt vultum, verba summittunt, figunt in terram oculos et deprĭmunt, li socchiudono. Ma ruborem sibi exprimere non possunt; nec prohibetur hic nec adducitur. Nihil adversus haec sapientia promittit, nihil proficit: sui iuris sunt, iniussa veniunt, iniussa discedunt (7), vengono scagliati dentro, vanno via lanciati fuori .
Epicuro consiglia di avere un modello sotto gli occhi
Elige Catonem, si tibi hic videtur nimis rigidus, elige remissioris animi Laelium. Ci vuole un modello: nisi ad regulam, prava non corriges, Vale.


CONTINUA


[1] Cfr. crh'ma e kth'ma in Senofonte che distingue la capacità di uso (cravomai) dal possesso (ktavomai). Il Socrate di Senofonte dice a Critobulo: le medesime cose per chi sa servirsene sono averi utili, per chi invece non sa servirsene non sono averi utili:"jtaujta; a{ra o[nta tw'/ me;n ejpistamevnw/ crh'sqai aujtw'n eJkavstoi" crhvmatav ejsti, tw'/ de; mh; ejpistamevnw/ ouj crhvmata" (Economico, I, 10); così i flauti sono utili per chi li sa suonare bene; per chi non lo sa, non sono niente più che sassi inservibili ( "oujde;n ma'llon h} a[crhstoi livqoi"). Non basta quindi possedere (kekth'sqai) il denaro; bisogna anche sapersene servire (crh'sqai).

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...