domenica 30 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 4


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“La via indicata da Tacito per servire bene la patria sotto i tiranni ed evitare nello stesso tempo l’abrupta contumacia e il deforme obsequium doveva apparire l’unica giusta a molti intellettuali di rilievo, convinti ormai della necessità della monarchia, anche quando conservavano qualche traccia del repubblicanesimo umanista… Come grandi esempi di vita operosa e gloriosa sotto la tirannia sono richiamati Germanico e Seneca; il richiamo di Seneca va notato, perché il filosofo si ritroverà poi altre volte accanto a Tacito come ispiratore della medesima scelta morale e politica”[1].

La tendenza all’incesto e la zoppia del tiranno
Il despota teme chi gli sta sopra[2] anche solo fisicamente: "Edipo uccide il padre che, dall'alto del suo carro, precipita allo stesso suo livello (...) Come Edipo che colpendo Laio con il suo bastone lo fa cadere dall'alto del suo carro a terra, ai suoi piedi, Periandro falcia e abbatte tutti coloro la cui testa supera di poco quella degli altri. E in secondo luogo le donne. La tradizione greca fa di Periandro, modello del tiranno, un nuovo Edipo. Egli avrebbe, in segreto, consumato l'unione sessuale con la madre Krateia[3] (...) Ma la tirannide, sovranità claudicante, non può procedere a lungo nel suo successo. L'oracolo, che aveva dato via libera a Cipselo per aprirgli la porta del potere, aveva fissato, fin dall'inizio, il termine al di là del quale la discendenza di Labda, non diversamente da quella di Laio, non avrebbe avuto il diritto di perpetuarsi. "Cipselo, figlio di Eezione, re dell'illustre Corinto" aveva proclamato il dio; ma per aggiungere subito:"lui e i suoi figli, ma non più i figli dei suoi figli"[4]. Alla terza generazione, l'effetto della "pietra rotolante" uscita dal ventre di Labda non si fa più sentire [5]. Per la stirpe dei claudicanti, istallati sul trono di Corinto, è venuto il momento in cui il destino vacilla, precipita, sprofonda nella sventura e nella morte"[6].
Nei Sette a Tebe di Eschilo, il Coro ricorda gli antichi mali, ossia l’antica trasgressione dalla rapida pena che perdura fino alla terza generazione palaigenh' ga;r levgw - parbasivan wjkuvpoinon- aijw'na d j ej" trivton mevnei (742-744)

A proposito della zoppìa del tiranno, Periandro era figlio di Cipselo, nato da una Bacchiade zoppa (cwlhv, V, 92 b), Labda[7], che nessun membro di questa oligarchia dominante Corinto voleva sposare. La sposò invece uno di origine Lapita, Eezione il quale, siccome non nascevano figli, andò a interrogare l'oracolo di Delfi. La Pizia rispose che Labda era già incinta e avrebbe partorito un masso rotondo[8] che si sarebbe abbattuto sui governanti punendo Corinto.
Zoppicante è anche the bloody king (IV, 3), il re sanguinario di Shakespeare, Riccardo III il quale si presenta dicendo di essere:"so lamely and unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them "(I, 1), così claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando.
E' questa una zoppia che rende malata tutta la sua terra secondo il tovpo" che risale a Omero ed Esiodo: un cittadino dice che il Duca di Gloucester è pericolosissimo, come i figli e i fratelli della regina, e se costoro non governassero ma fossero governati "this sickly land might solace as before " (II, 3), questa terra malata[9] potrebbe avere ristoro come prima.
Anche il cielo viene ammorbato dal capo malato
Così l'Oedipus di Seneca: “fecimus caelum nocens” (36).
Altrettanto pensa lo zio di Amleto, Claudio che ha assassinato il fratello : “Oh, my offence is rank-rancidus-, it smells to heaven” (Hamlet, III, 3), oh, il mio crimine è fetido, manda il puzzo fino al cielo.

La terra contaminata e desolata diventa tutta una tomba come la Scozia nel Macbeth :"poor country… it cannot be called our mother, but our grave; where nothing, but who knows nothing, is once seen to smile - meidiavw - ; where sighs, and groans, and shrĭeks that rend the air, are made, not marked " ( Macbeth, IV, 3), povera terra!…non può essere chiamata nostra madre ma nostra tomba; dove niente, se non chi non conosce niente, si vede sorridere, dove sospiri e gemiti e grida che lacerano l'aria, sono emessi, ma nessuno ci fa caso.
E' il nobile Ross che parla.

Nel Riccardo III Lady Ann dice a Riccardo che si appresta a corteggiarla: “Foul devil-diabolus. - diavbolo" the slanderer, for God’s sake hence, and trouble-turbula dimin. of L. turba a crowd. us not;-For thou hast made the happy earth thy hell,-Fill’d with cursing cries-quiritare, literally to implore the aid of the Quirites or Roman citizens (Varro) and deep exclaims” (I, 2), sconcio demonio, per amor di Dio, via di qui e non darci pena; perché tu hai fatto della terra felice il tuo inferno, riempito con urla di maledizione e profondi gemiti.
Dopo una battuta corteggiante di Riccardo, Anne rincara la dose chiamandolo “diffus’d infection of a man”, infezione di uomo diffusa.

Macbeth inciampa nel meccanismo del potere che è una scala i cui gradini sono vite umane da calpestare:"That is a step/On which I must fall down, or else o'erleap (over-super- uJpevr-) For in my way it lies " (I, 4), questo è un gradino sul quale devo cadere oppure scavalcarlo poiché si trova sulla mia strada.
Diversi tiranni in conclusione hanno qualche cosa di zoppo: Cipselo e Periandro in quanto discendenti da Labda, Edipo poiché ha avuto i piedi perforati[10].
Anzi, se consideriamo con attenzione la prima antistrofe del secondo stasimo dell'Edipo re di Sofocle vediamo che tutte le tirannidi sono zoppe: "la prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli/ che non sono opportuni e non convengono (mhde; sumfevronta)[11]/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede" e[nq j ouj podi; crhsivmw/-crh'tai "(vv. 873-879). Non solo il tiranno è zoppo e scivola, ma anche i suoi decreti.
Antigone non obbedisce ai khruvgmata di Creonte, ma alle leggi della coscienza e degli dèi che, viceversa, sono a[grapta kajsfalh' (Antigone, v. 454), non scritti e non vacillanti.

Il tiranno è ignobile, servile e impotente
 La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr. 348 L P) dal padre ignobile;
 a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;" ajnh;r. Costui, nella Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov".. melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e), della massima servilità e schiavitù e adulatore degli uomini più malvagi.
 Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).

Metus tyranni: genitivo soggettivo e oggettivo
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea (119 sgg.), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507) , ma il metus tyranni è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo" : fa paura e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.

In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio di Siracusa e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infino lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.

La paura che il tiranno ha dei migliori è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[12], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
 Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.

 Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (vv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[13].


CONTINUA



[1]  La Penna,Aspetti del pensiero storico latino, p.  231 e 232.
[2]  Cfr. " formidolosum… supra principem attolli "  di Tacito, citato sopra.
[3]  Diogene Laerzio, I, 96. “Aristippo nel primo libro Sulla lussuria degli antichi dice che sua madre Crateia era innamorata di lui e a lui si univa di nascosto e che egli se ne compiaceva. Divulgatasi la notizia, si addolorò per essere stato scoperto e divenne severissimo con tutti”. L’opera del III sec. a. C. è falsamente attribuita ad Aristippo. Si intitolava   jArivstippo~ peri; palaia`~ trufh`~, ed era un pamphlet scandalistico scritto per  dimostrare che i filosofi, soprattutto gli Academici, erano altrettanti Aristippi.  Per la tendenza all’incesto del tiranno si ricordino anche i rapporti  tra Nerone e Agrippina. Ndr.
[4] Erodoto, V, 92, e 8-9.
[5]  Erodoto, V, 92, e 2. Così le streghe del Macbeth  promettono il regno al signore di Glamis, ma la successione ai figli di Banquo (I, 3).
[6] Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due , pp. 39,  48 e 49.
[7]  Cfr. Edipo nipote di Labdaco
[8]  Erodoto, V, 92 b 2
[9] Cfr la scheda “Dalla salute del re dipende quella del suo popolo e della sua terra”, in Medea, a cura di Giovanni Ghiselli, Cappelli,  pp.  135ss  
[10] Edipo re , 1034, e Rane , 1192.
[11] Queste parole possono smontare l’utile perseguito da Giasone.
[12] De Catilinae coniuratione , 7.
[13] D. Lanza, op. cit., p. 47.

sabato 29 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 3

Tacito
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Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini

Torniamo a Erodoto
Tiranno per lo storiografo è anche il mouvnarco" raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri" , mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno" . Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[1].
 Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte dell'Antigone di Sofocle, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, " oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo. Anche se il grande re perderà la guerra, si consola la madre Atossa, dopo avere raccontato il sogno premonitore della sconfitta e il brutto segno dato dagli uccelli "swqei;~ d j oJmoivw~ th'sde koiranei' cqonov~" (v. 214), basta che si salvi e continuerà comunque a comandare su questa terra.
Un personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?-lat. ad and computare" (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?

Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato :"tracu;" movnarco" oujd j uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo: " :"a{pa" de; tracu;" o{sti" a}n nevon[2] krath'/", ogni potere che comanda da poco tempo è duro" dice Efesto (v. 35). E' uno dei tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani:"Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri" (Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata "alle genti"[3] pure da Machiavelli:"Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli" (Il Principe, XVII).

La logica del tiranno non può permettergli alcuna “opra pietosa”[4]. Lo dichiara Agamennone nell’Aiace di Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide e pietà sono incompatibili.

Nelle Supplici[5] di Euripide, Teseo[6], il paradigma mitico di Pericle, elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte autocrate di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).

Anche Plutarco attribuisce a Teseo la promessa, mantenuta, ai potenti, di un governo democratico, nel quale egli si sarebbe riservato solo il comando dell’esercito e la custodia delle leggi, mentre avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 2). Poco più avanti (25, 3). Plutarco aggiunge che di questa rinuncia alla monarchia dà una testimonianza Omero quando nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).

 L'araldo tebano delle Supplici di Euripide ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là secondo la loro convenienza. Del resto come potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un discorso? Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (Euripide, Supplici, v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne:"ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946) Il potere dunque può essere funzionale al soddisfacimento di varie brame, compresa quella sessuale inclusiva del libertinaggio.

Una delle passioni fondamentali del tiranno è l’invidia associata alla paura di chi può prevalere su di lui
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: Erodoto chiarisce che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto (…) tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h).
Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
 Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh, è conseguenza dell' u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).

Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "( Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
 Il tiranno è invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Dante individua la presenza del vizio dell'invidia soprattutto nei luoghi del potere:""La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio"[7].

L'invidia del tiranno. Tacito[8].
Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l' invidia ai suoi Cesari: Tiberio temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli" (Agricola[9] , 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Quale deve essere la posizione dell'intellettuale e dell'uomo libero in genere nei confronti del tiranno?
 Tacito Suggerisce una via di mezzo insomma tra il ruere in servitium (Annales , I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1) e l'ambitiosa mors (Agricola , 42), la morte spettacolare degli oppositori estremi. Quella seguita da Agricola e da lui stesso.
Il suocero di Tacito sapeva frenare l’indole di Domiziano, praeceps in iram, con la moderazione e la prudenza. Infatti Agricola “non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat” (Agricola, 42), non provocava la fama e il fato con l’arroganza né con una vuota ostentazione di indipendenza. Dunque è possibile, lo sappiano chi ammirano inlicita gli atti di ribellione, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, e che l’obbedienza e la moderazione, se ci sono operosità e vigore (si industria ac vigor adsint) possono arrivare a quel livello di lode dove i più divennero famosi per abrupta, attraverso vie dirupate, con una morte spettacolare ambitiosa morte, per niente utile allo stato, in nullum rei publicae usum ( 42).


CONTINUA




[1]  C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca  , p. 170.
[2]  Di nuovo la difficoltà del nevon.
[3]   Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[4]   Cfr. Alfieri, Antigone, V, 2, v. 76.
[5]   Data probabile: 422 a. C.
[6]  Il re di Atene che del resto, nel carme 64 di Catullo e nella Fedra di Seneca è presentato come perfidus, sleale, dalle due sorelle figlie di Pasife e di Minosse, Arianna e Fedra appunto.
[7]  Inferno , XIII, vv. 64-66.
[8]   “Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo ebbe con Tiberio”. F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[9]  Del 98 d. C.

giovedì 27 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 2

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Aristofane denuncia ridendo la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~ (le Vespe, del 422). Un vecchio giudice dell’Eliea, Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino-dice- schioccano con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e nobili (vv. 626-628). E anche tu –rivolto al figlio Bdelicleone- mi temi. Ma il giovane, che ha schifo di Cleone, lo convincerà che il demagogo usa lui e altri stupidi vecchi fanatici compensandoli con una misera paga rispetto ai propri colossali profitti.

“l’istanza fatta valere dalla demoktratia ateniese (“ il popolo sia al di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo della circolarità masse-capi. E’ Teramene il grande regista del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”… Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”1.
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

Luogo simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
“E appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i poveri-noi oggi diremmo il proletariato- hanno il potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella democrazia è che il popolo-cioè, ripeto, il proletariato-vi tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele condanna la demokratìa perché è un regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta di governo quella-la politèia- in cui governa la maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia liberale”2.
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce solo alla democrazia ma pure un ordinamento oligarchico estremo: quando poi coloro che detengono la sovranità nei corpi deliberativi si scelgono gli uni con gli altri, quando il figlio succede al padre nel posto che wuwsti ha lasciato libero, quando costoro pretendono di essere padroni delle leggi, allora è necessario che questo sia un ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavthn tavxin).

Il potere delle leggi
Nella Politica, Aristotele afferma che dove le leggi non sono sovrane appaiono i demagoghi, in quanto allora diventa sovrano il popolo. Un popolo del genere diventa dispotico in quanto non è governato dalla legge. In questa situazione sono reputati gli adulatori, e una democrazia di tale fatta corrisponde alla tirannide. Infatti le decisioni dell’assemblea corrispondono agli editti del tiranno e il demagogo corrisponde all’adulatore. Il popolo è sovrano di tutto, il demagogo lo è dei sentimenti del popolo. Dunque ha ragione chi dice che tale democrazia non è una vera costituzione, poiché non c’è costituzione dove non comandano le leggi ( o[pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva, 1292a).
Nella democrazia radicale c’è l’oppressione sui migliori attraverso i decreti (yhfivsmata) che prevalgono sulle leggi (novmoi). Così nella tirannide gli editti ejpitavgmata prevalgono sulle leggi.
Si può pensare al khvrugma di Creonte nell’Antigone di Sofocle (v. 8)

Nella Costituzione degli Ateniesi , scritta negli ultimi anni di vita, il filosofo di Stagira (384-322 a. C.) passa in rassegna gli 11 regimi che si sono succeduti ad Atene e nota gli errori seguiti alla riforma di Efialte che abbatté il potere dell’Areopago: da allora il governo commise più errori a causa dei demagoghi dia; th;n th'~ qalavssh~ ajrchvn (41, 2), per il potere sul mare. Dopo la spedzione in Sicilia ci fu la costituzione oligarchica dei Quattrocento e la tirannide dei Trenta, quindi, con la restaurazione democratica, il popolo si è reso padrone assoluto di ogni cosa: “aJpavntwn ga;r aujto;~ auJto;n pepoivhken oJ dh'mo~ kuvrion” (41, 2). Aristotele preferisce un governo affidato al ceto dei possidenti.

Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il potere e ha reso forte la città in quanto è il popolo che fa andare le navi o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2).

Vanità delle leggi, loro impotenza nei confonti dei ricchi
Nella Vita di Solone di Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte attribuita ad Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera del legislatore che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le leggi dunque colpirebbero solo i deboli.
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”3.
Sofocle nell’Antigone e nell’Edipo re pospone le leggi scritte a quelle divine, di Delfi, del Parnaso e dell’Olimpo ma nell’Antigone esse colpiscono la nipote del re e conseguentemente il figlio e la moglie di Creonte, quindi il re stesso.

Difesa delle leggi scritte
Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t j ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti.

Nella storia romana "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis del 451/450 agirono in favore della plebe:
" Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"4.

Le leggi valgono meno dei mores
Tacito nella Germania nota:"paucissima in tam numerosa gente adulteria ", quindi aggiunge:"nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude polemicamente il capitolo:"plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges ".
La sua conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges" (Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano se già le non son mosse da uno che con estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi buona; il che non so se si è mai intervenuto o se fosse possibile ch’egli intervenisse”5.

Critica al piacere e alla dissolutezza delle donne legata a uno Stato di guerrieri. La propaganda antispartana
Nelle Leggi di Platone, l’Ateniese ricorda allo Spartano che l’ideale guerriero della sua città non si cura abbastanza di esercitare la capacità di resistenza al piacere, e aggiunge che non sarebbe difficile per chi volesse difendere le leggi di Atene criticare le norme spartane indicando la licenza delle loro donne: “deiknu;~ th;n tw`n gunaikw`n parj uJmi`n a[nesin “(637c).
Nell’Andromaca di Euripide, Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta6 ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"", v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili " ( vv.595-600).
L’Andromaca, scritta nei primi anni della guerra del Peloponneso, mostra un disgusto per l’arroganza, la crudeltà e la tortuosità degli Spartani.
La stessa protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~ :" o i più odiosi (e[cqistoi) tra i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali,che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per la Grecia (vv.445-449).

Nel dialogo tucididèo tra Melii e Ateniesi questi biasimano i loro nemici con minore virulenza: “ I Lacedemoni fanno uso della virtù soprattutto verso se stessi e le istituzioni del loro paese. Ma verso gli altri, pur potendo uno dire molte cose su come si comportano, riassumendo al massimo, si potrebbe dimostrare che essi nel modo più evidente tra quelli che conosciamo, considerano il piacevole bello e il conveniente giusto" (Storie, V, 105, 4).

Nella Repubblica di Platone il sofista Trasimaco contrapponendosi a Socrate sostiene che il giusto non è altro che l’utile del più forte: “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”, 338c.


CONTINUA

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1 Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
2 G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11.
3 Frammenti postumi, 1876, 14
4 G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46-48.
5 Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.

6 Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che Erodoto (I, 8) viceversa fa dire a Gige il V antenato di Creso re di Lidia:"la donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore".  

mercoledì 26 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 1

un esempio di tiranno: Dionigi di Siracusa

La passione del potere. La vanità del potere
18 dicembre 2018

I lezione sintesi:
Il Potere. La figura del tiranno. Il persiano Otane, la teoria antitirannica, e l’isonomia che è altra cosa dalla democrazia ateniese la quale, secondo alcuni critici, sarebbe stata una specie di dittatura del proletariato. Platone e la critica della democrazia. Senofonte, Tucidide e Polibio. Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere assoluto. Tirannide e antitirannide in Eschilo. Nelle Supplici di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche. Tebe è il paese guasto, mentre Atene è la polis sana che è retta con giustizia e protegge i supplici (Supplici, Eraclidi di Euripide; Edipo a Colono di Sofocle). Difetti della paideia spartana secondo Euripide (Andromaca). Il potere incontrollato. Ancora il mouvnarco~ di Erodoto. Euripide, Platone. Tito Livio e Bruto, il falso sciocco, l’ossimoro vivente, come Amleto. L’invidia del tiranno: Tacito. Intellettuali e potere: Pasolini, Augusto e gli storiografi martiri. La zoppia del tiranno. Il tiranno è ignobile, servile e impotente. La paura del tiranno, genitivo soggettivo e oggettivo. Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide

Seneca maledice il potere tirannico. Il potere è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi. L’ira del tiranno. Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che è un valore solo per le persone oneste. L’uguaglianza. Le obiezioni di Giocasta a Eteocle nelle Fenicie. Precarietà del possesso delle ricchezze. Euripide, Menandro e Seneca. Il senso della misura e la teoria della classe media.

“Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo ebbe con Tiberio”[1].

Nella Medea di Seneca la protagonista prova a chiedere giustizia con un processo equo ma Creonte afferma il valore assoluto del suo ordine:"aequum atque iniquum regis imperium feras" (v. 195), giusto o non giusto, rassegnati all'ordine del re. Infatti esso è insindacabile.
Medea prova a obiettare che l'iniquità è una base instabile per un regno:"iniqua numquam regna perpetuo manent" (v. 196), i regni iniqui non durano mai a lungo.
 L'iniquità consiste nel non ascoltare la parte avversa:"qui statuit aliquid parte inaudita altera,/aequum licet statuerit, haud aequus fuit" (vv. 199-200), chi ha emesso una sentenza senza avere ascoltato l'altra parte, anche se ha decretato il giusto, non è stato giusto.
Del resto il tiranno che fa, e pure ha paura, non lascia parlare, abolisce la parrhsiva che è la cellula della democrazia.
 Nell'Antigone la protagonista rinfaccia a Creonte che il suo gesto sarebbe approvato dal popolo se non fosse per la paura del tiranno:" Si potrebbe dire che a tutti questi questo/piace, se la paura non serrasse la lingua" (eij mh; glw'ssan ejgklh/voi fovbo" , vv. 504-505).
Il tiranno inceppa le lingue anche nel Macbeth: “This tyrant, whose sole name blisters our tongues-old latin dingua” (IV, 2), questo tiranno, il cui solo nome, fa venire vesciche sulla lingua, afferma Malcom, uno dei figli del re Duncan ucciso da Macbeth.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: "ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti il dh'mo" esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo: "uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80, 6).
Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide.
 Tra i sette nobili Persiani parlò anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori. Prevalse Dario con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[2].
Il tiranno ha la passione del potere, Otane quella del non-potere

Una forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una tendenza altrettanto forte al rifiuto di dominare e di comandare”[3] .
Sentiamo Bertolt Brecht:
“Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto, e mi hanno educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né essere servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
Con la gente del basso ceto”[4].

Credo di avere riconosciuto un’eco di questa splendida affermazione che condivodo nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore, deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should like to help everyone(…) greed has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane.
Il film di Chaplin può essere commentato con un verso delle Baccanti di Euripide: mh; to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein (310) non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini. Lo dice Tiresia a Penteo.
Il potere dunque non è potenza come “il sapere non è sapienza” “to; sofo;n d j ouj sofiva” (v. 395). Questo verso invece fa parte del I stasimo cantato dalle Menadi

Del resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per designare plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo.

Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[5].
Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).

 Platone mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane-è il potere delle passioni-, poi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti (yeudei'" dh; kai; ajlazovne" (…) lovgoi te kai; dovxai 560c) le quali chiamando il pudore stoltezza (th;n me;n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [6] de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai; ajneleuqerivan 560d).
E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me;n eujpaideusivan kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e-561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).

Anche il popolo può essere tirannico: dopo la battaglia delle Arginuse (406 a. C.) il dh'mo" ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[7]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia in Aulide[8] di Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e la licenza prevale sulle leggi “ajnomiva de; novmwn kratei'” (v. 1095),

“Nulla era più strano di questo popolo sovrano di Atene. Sempre geloso della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si abbandonava ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso irragionevole dei demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza valevano al di sopra di ogni cosa, il demos stesso esercitava malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e sui nobili, ai quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze d’ogni sorta; anzi il massimo piacere dei giurati era comminare condanne severe, perfino ingiuste, agli imputati più illustri, nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli ottimati ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano: associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i loro membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane, p. 114).


CONTINUA



[1] F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[2] Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze. 
[3] Hannah  Arendt, Sulla violenza, p. 41.
[4] Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.
[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[6] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte dei disso;i lovgoi ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione antica (vv. 961 sgg.). Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
[7]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[8] Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.

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