domenica 2 dicembre 2018

Lucano, "Pharsalia". Parte II


Lucano, Pharsalia I libro
Lucano dunque canta bella plus quam civilia e ius datum sceleri e populum potentem conversum victrici dextrā in sua viscera, cognatasque acies; poi, rotto il patto del potere rupto foedere regni tra i triumviri, certatum si combattè totis viribus concussi orbis con tutte le forze del mondo sconquassato, in commune nefas per la comune scelleratezza.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri? (8) Furore, licenza della guerra.
Intanto l’ombra di Crasso vagabat inulta (12).
 Crasso console nel 70, triumviro nel 60, console di nuovo nel 55, morì a Carre nel 53.
Se invece di rivolgere le armi contro se stessa, i Romani le avessero impiegate contro i popoli esterni ci sarebbero state grandi conquiste: nondum tibi defuit hostis, non ancora i nemici ti sono mancati: “totum sub Latias reges cum misĕris orbem” (22) solo dopo che avrai messo il mondo intero sotto le leggi latine in te verte manus (23).
 L’Italia del resto è in rovina: moenia pendent semirutis tectis le mura pencolano su case diroccate, rarus habitator errat antiquis in urbibusHesperia est horrida dumis, irta di macchie selvatiche multosque inarata per annosdesuntque manus poscentibus arvis (29). Ma questo non è colpa tua Pyrre feroxnec tantis cladibus auctor Poenus eritalta sedent vulnera civilis dextrae (32) profonde si stendono le ferite della destra armata per la guerra civile.
Per quanto riguarda l’ Hesperia multosque inarata per annos Cfr. Tacito Annali, XII, 43, meritatamente celebre”[1]: "at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemusnavibusque et casibus vita populi Romani permissa est ", eppure, per Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della navigazione. Sono parole di una riflessione dell’autore.
Lo storico si riferisce all’ultimo periodo del principato di Claudio (41-54), ma già Ottaviano Augusto temeva che le campagne rimanessero non coltivate a causa dell'ozio della plebe, e decise di abolire le distribuzioni frumentarie:"quod earum fiduciā cultură agrorum cessaret[2], poiché, confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia l'imperatore non perseverò nel proponimento. Poi "Una grande crisi scoppiò nel 33 d. C.: i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori fosse proibita l'usura… Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i quali svendevano i campi per pagare i debiti"[3].

Elogio di Nerone nel proemio della Pharsalia
Ma le guerre civili hanno portato a Nerone e scelera ipsa nefasque hāc mercede placent. C’è stata Farsalo, Munda, Perugia, Modena, “multum Roma tamen debet civilibus armis-quod tibi res acta est” (I, 45-46), poiché è stata fatta per te. Verrai accolto tra le stelle, tardi-serus-, e il cielo ne gioirà, ogni divinità ti cederà il passo tibi numine ab omni cedetur (50)
Dopo l’apoteosi di Nerone ci sarà la pax per orbem inque vicem gens omnis amet e ogni popolo si ami reciprocamente, e “ferrea belligeri compescat limina Iani” (62), si chiuda la porta di ferro di Giano bellicoso.
Sed mihi iam numen, ma per me tu sei già un dio, e prenderò ispirazione da te per scrivere il poema, non invocherò Apollo né Dioniso “tu satis ad vires Romana in carmina dandas” (66).
Cfr. l’elogio di Domiziano nell’Achilleide di Stazio. L’eroe celebrato nel poema, il Pelide, sarebbe stato un preludio dell’ultimo dei Flavi: “magnusque tibi praeludit Achilles (I, 19)

Le cause della guerra civile
 Spinse il popolo romano invida fatorum series summisque negatum- stare diu e il fatto che è negato a chi è giunto in cima di restarvi, nec se Roma ferens (70-71) e Roma che non reggeva se stessa (72).
Nello stesso modo riportando il caos tutte le costellazioni si scontreranno con le costellazioni mescolate tra loro: “antiquum repĕtens iterum chaos, omnia mixtis-sidera sideribus concurrent, ignea pontum-astra petent, tellus extendere litora nolet” (74-76) gli astri si dirigeranno sul mare, la terra non vorrà estendere le coste.
 E tutta macchina discorde confonderà i patti del mondo lacerato
totaque discors- machina divulsi turbabit foedera mundi” (79-80)
In se magna ruunt: laetis hunc numina rebus-crescendi posuere modum” (81-82) le cose grandi crollano su se stesse, i numi hanno posto questo limite di crescita alle situazioni prospere.
Cfr. Orazio: “suis et ipsa Roma viribus ruit” (Epodi, 16, 2)

Ci fu il primo triumvirato (60) omnisque potestas- impatiens consortis erit (Pharsalia I, 91-92).
In Tacito questo fa parte degli arcana domus: “eam condicionem esse imperandi ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur” (Annales, I, 6)
Non c’è bisogno di cercare altrove gli esempi del destino: di Roma sono maledette le origini “fraterno primi maduerunt sanguine muri” Pharsalia, 95).
Orazio: “sic est: acerba fata Romanos agunt-scelusque fraternae necis,-ut inmerentis fluxit in terram Remi-sacer nepotibus cruor” (Epodi, 7, 17-20)
Crasso posto tra gli altri due era di indugio alla loro guerra. Li teneva separati come fa la sottile striscia di terra dell’Istmo di Corinto dividendo lo Ionio (golfo di Corinto) dall’Egeo (golfo Saronico).
Ma poi Crasso venne ucciso a Carre (53) e questi Parthica damna solverunt Romanos furores (106) sciolsero i lacci ai furori romani.
Con la morte di Giulia, la figlia di Cesare, sposata a Pompeo, le fiaccole matrimoniali divennero funerarie.
Solo Giulia avrebbe potuto trattenere le furie del padre e del marito“ut generos soceris mediae iunxere Sabinae ” (118). La fortuna di Cesare è impatiens loci secundi (124) . Cesare non sopporta chi gli stia davanti, Pompeo chi gli sia pari
E’ difficile stabilire chi è il meno peggio: il migliore è Catone cui victa causa placuit (128) mentre victrix causa deis placuit.
Pompeo va verso la vecchiaia (106-48) e oramai abituato alla toga dedidicit iam pace ducem (131), nella pace ha disimparato a fare il comandante; concede molto al volgo per acquisire popolarità, e gode dell’applauso del teatro suo[4].
Si erge come ombra del suo grande nome stat magni nominis umbra (135).
Vengono in mente le teste svigorite della Nevkuia omerica (" ajmenhna; kavrhna", XI, 29)
 E’ quale una quercia che oramai secca e dalle radici deboli, rimane tuttavia conficcata per il suo peso nec iam validis radicibus haerens- pondere fixa suo est, e fa ombra con il tronco, non con le fronde: trunco, non frondibus efficit umbram (140) sola tamen colitur, però è la sola a essere venerata.

Cesare (100-44)
Sed non in Caesare tantum- nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus-stare loco, solusque pudor: non vincere bello”. (143-145), si vergognava solo di non vincere in guerra.
 Incalza i successi, incalza il favore della divinità e gode nel farsi strada provocando macerie-gaudens viam fecisse ruinā (150). Viene paragonato al fulmine che atterrisce e distrugge. Queste le cause per i duci hae ducibus causae, ma c’erano anche publica belli semina (159).
Infatti mundo subacto, opes nimias Fortuna intulit et mores cessēre rebus secundis, i buoni costumi si ritrassero di fronte alla prosperità, “predaque et hostiles luxum suasēre rapinae” (162, il bottino e le rapine di guerra consiglirono il lusso.
E’ la fine del pericolo esterno e della conseguente cessazione della paura a questo connessa che fa cambiare il costume e promuove vizi, rapine delitti

Polibio afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn”(6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle. 

Cfr. il metus hostilis di Sallustio
 Bellum Iugurthinum[5] di Sallustio: "Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.

Non c’era più limite per l’oro e le case - non auro tectisve modus - l’appetito disprezzò le parche mense di prima mensasque priores- aspernata fames (163-164); i maschi si impossessarono di eleganze appena decorose da portare per giovani donne-cultus decōros vix nuribus (165), l’avere poco, cosa feconda di uomini veri, viene schivato paupertas fecunda virorum fugitur (166).
Cfr. Sallustio paupertas probro haberi coepitCat. 12, 1.
Viene importato da tutto il mondo quello per cui tutti i popoli muoiono-totoque arcessĭtur orbe-quo gens quaeque perit- 166-167.
I latifondi longa rura vengono coltivati da coloni senza nome.
Latifundia perdidere Italiam" scrive Plinio il Vecchio[6].
 La violenza crebbe con l’avidità e divenne la misura del diritto mensuraque iuris- vis erat, hinc leges et plebis scita coactae (175-176) leggi e decreti del popolo forzato, et cum consulibus turbantes iura tribuni (177) tribuni con i consoli scompaginavano il diritto; hinc rapti fasces pretio, fasci estorti pagando, il popolo che vende i voti, letalisque ambitus urbi e i brogli elettorali mortali per l’Urbe. Di qui anche usura vorax, l’usura vorace et multis utile bellum (182) la guerra utile a molti.

Cesare giunge sul Rubicone (gennaio del 49) e gli parla la ingens visa duci patriae trepidantis imago (185). Roma è vultu maestissima, canos effundens vertice crines, caesarie lacera, nudisque lacertis con le chiome scompigliate
Roma parlava gemitu permixta. Dice: “ Si iure venitis, si cives, huc usque licet “(192), è lecito solo fin qui. Non dovete procedere.
Ma Cesare prega gli dèi, e Roma in particolar modo: Roma, fave coeptis (200) asseconda l’impresa. Non vengo furialibus armis, con le armi delle furie ma quale victor terraque marique, ubique tuus (…) miles (202), dappertutto soldato tuo. “ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem” (203). Poi si ferma un momento come un leone totam dum colligit iram, quindi si avventa con un balzo.
Il Rubicone è il certus limes che separa le terre galliche da quelle coltivate ab Ausoniis colonis (216). Era inverno e il fiume era gonfio. Cesare, giunto sui campi d’Esperia, dice: i patti precedenti siano lontani “te, Fortuna sequor procul hinc iam foedera sunto-credidimus fatis, utendum est iudice bellum” (226-227). I patti del triumvirato (60) sono lontani. Ci siamo affidati al destino e come giudice bisogna servirsi della guerra.


CONTINUA

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[1] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[2] Svetonio, Vita di Augusto, 42.
[3] S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 148.
[4] Costruito nel 54-52, il primo in pietra a Roma
[5] Del 40 ca.
[6] Naturalis historia, XVIII, 7.

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