venerdì 7 dicembre 2018

Debrecen. Capitolo 6

Bosch, I sette peccati capitali

La cena porcina. Il risveglio con il sole

All’Hungaria mangiai molto, carne e tante patate in umido, sebbene già durante il giorno, viaggiando, avessi inghiottito pane e cioccolata.
Dalla mia bocca usciva d’ogni parte una zanna come a un porco[1].
Altra gente intorno a me ingoiava con ingordigia.
Unti entravano nelle fauci i bocconi. Per la fretta frenetica alcuni cadevano dalle labbra nel pavimento[2].
Ogni tanto qualcuno entrava in bagno con la pancia gonfia del maiale crudo, non digerito. Uno di loro non ne uscì più con le sue gambe[3]. Vennero a prenderlo degli infermieri e lo portarono via disteso, poi lo caricarono sull’ambulanza. Ci fu un applauso scrosciante. Molti avevano le lacrime agli occhi. Lo vedevamo già nella bara.
A un certo punto i miei intestini cominciarono a fare rumore e dovetti correre nella latrina. Nemo nostrum solide natus est [4], pensai liberando le budella dall’aria fetida. Sebbene degradato a condizione bestiale non avevo osato avvalermi dell’editto preparato dall’imperatore Claudio, quo veniam daret flatum crepitumque ventris in convivio emittendi [5].
Tornai nella sala da pranzo, ructabundus e mezzo ubriaco.

Osservavo le facce attonite e rubiconde dei miei vicini.
Le loro vite e la mia avevano lo scopo di fare da filtro a cibi e bevande, per divenire ogni volta infermieri del corpo infarcito.
Il motivo di quel rimpinzarsi era l’infelicità esistenziale, in particolare quella sessuale. I felici non sono ghiotti. “Per me è impossibile chiamare vorace uno dei beati: me ne tengo lontano”, avevo letto nell’Olimpica I di Pindaro[6]. Lo ricordai e lo riferii a me stesso, con pena.
Facendo così, mangiando da vero animale, rendevo sempre più difficile la soluzione del problema di fondo: il buon esito della ricerca di una femmina umana. Non ne avevo chiara coscienza, ma ne sentivo l’angoscia mentre mi ingozzavo senza fame. Non riuscivo a tenermi lontano da quel vizio che faceva parte della generale perversione e contorsione-diastrofhv- della mia natura: finito il liceo aveva perduto l’ojrqo;" lovgo" la ragione che deve mantenersi diritta di fronte a qualsiasi lusinga e pure a ogni dolore. Mi ero snaturato quasi del tutto. Il cibo funzionava come un anestetico pessimo che toglie ogni sensibilità tranne quella del dolore. Forse attraverso quel mangiare smodato volevo raggiungere il peso e l’insensibilità di un bove: "semibovemque virum semivirumque bovem[7], mormorai.

Ci voleva una diovrqwsi", un raddrizzamento, una correzione e questa poteva venire solo dall’amore di persone buone. Il seguito della storia di Debrecen ce le farà conoscere.
Quando quel cibo pesante mi ebbe riempito fino alla gola, con fatica mi alzai e uscii.
 Tornai all’Aranybika e andai a letto con l’angoscia di non farcela il giorno dopo a trovare l’università, o, se pure l’avessi trovata, a inserirmi tra le ragazze e i ragazzi: tutti certamente più belli, meno infelici, meno grassi, meno miopi, meno cariati e sconciati, meno colpevoli e soprattutto meno insicuri di me.
La mattina mi alzai e uscii dall’albergo per tempo. C’era il sole e il corso brulicava di gente.
 Con l’automobile mi avviai nella direzione indicata seguendo i binari del tram numero uno, l’unico invero dell’unica linea tranviaria, che, girando ellitticamente, collega la stazione all’università e viceversa: Egyetem - Pályaudvar[8] - Egyetem: i due fuochi dell’ellisse di ferro. La luce mi confortò. ajnovrqwoson seautovn, mi sussurrai, “raddrizza te stesso, ‘adesso mi chiama il destino’, direbbe un personaggio della tue tragedie”.

CONTINUA

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it

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[1] Cfr. Dante Inferno XXII, 35.
[2] Cfr. Persio, Satira III, 102 “Uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris” 
[3] Cfr. Giovenale, Satira I, 142-144
Poena tamen praesens, cum tu deponis amictus,
turgidus et crudum pavonem in balnea portas:
hinc subitae mortes, però la punizione è presente, quando deponi le vesti gonfio e porti nel bagno il pavone non digerito: di qui morti improvvise
[4] Satyricon 47. Sono parole di Trimalchione
[5]  Svetonio Vita di Claudio, 32
[6] ejmoi; d j a[pora gastrivmagon makavrwn tinj eijpei'n: ajfivstamai (52-55)
[7] Ovidio Ars amatoria (II,24).
[8] Stazione, come ho detto sopra.

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