sabato 30 aprile 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte III

Bruto

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Il falso sciocco
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato: “Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto. “Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[1].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

Eppure il sovrano non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.

Invece invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toĩsi kakivstoisi tw̃n astw̃n) ed è ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto, III, 80, 4).


Il tiranno nella storia romana e nella tragedia greca

 Cfr. Tiberio e Domiziano in Tacito.

Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio (14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80).
Tiberio: crudeltà e libidine.
La libidine sfrenata di Tiberio. Già negli anni trascorsi a Rodi (6 a.C-2 d. C.) non aveva meditato altro quam iram et simulationem et secretas libidines (Annales, I, 4). Fece morire Cremuzio Cordo il quale aveva scritto che Bruto e Cassio erano gli ultimi dei Romani. Applicò con rigore la lex maiestatis.
Alla morte di Augusto fece assassinare subito Agrippa Postumo, nipote del primo imperatore. “Primus facinus novi principatus fuit Postumi Agrippae caedes (Annales, I, 6). Quindi ammonì la madre che non venissero rivelati gli arcana domus: “ eam condicionem esse imperandi ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur
Altro imperii arcanum: “posse principem alibi quam Romae fieri ” (Historiae, I, 4). Questo si svelò alla morte di Nerone.
Il suo maestro Teodoro di Gadara (maestro anche dell’Anonimo del Peri; u{you~) lo definiva phlo;n ai{mati pefurmevnon, fango impastato con sangue (Svetonio, Vita di Tiberio, 57).
Giravano epigrammi contro Tiberio:
Aurea mutasti Saturni saecula, Caesar
Incolumi nam te ferrea semper erunt

Fastidit vinum, quia iam sitit iste cruorem
Tam bibit hunc avide, quam bibit ante merum”.

A Capri un pescatore gli offrì una triglia (mulla) e Tiberio gliela fece spiaccicare in faccia. L’uomo gli disse: “meno male che non ti ho offerto un’aragosta (locusta). Allora l’imperatore gli fece straziare la faccia con questa. Riempiva di vino i torturati poi gli faceva legare stretto il pene e li faceva gonfiare nel tormento della cordicella e dell’urina. Diceva: “oderint, dum probent”. Sempre a Capri, da vecchio, addestrava i fanciulli quos pisciculos vocabat. Erano pueri primae teneritudinis Li stuzzicava con la lingua e con i morsi, poi offriva il suo membro come un capezzolo. Alcuni bambini non erano ancora stati svezzati dalla nutrice. (Svenonio, Vita, 43). Leggeva i libri infami di Elefantide


 e Domiziano (81-96) invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia: “Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli " ( Agricola[2], 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Poi l’ipocrisia di Tiberio il quale si serviva di formule antiche per nascondere scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper reperta priscis verbis obtegere” (4, 19).

La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr. 348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;" ajnh;r.
 Costui, nella Repubblica (573c) è definito uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov", melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).

La paura del tiranno. Metus tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo

Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea ( Medea, 119-121 deina; turavnnwn lhvmata kaiv pw~-ojlivg j ajrcovmenoi, polla; kratou`nte~- calepw`~ ojrga;~ metabavllousin ), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507 la paura tiene le bocche chiuse a chiave ) , La paura del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo" : fa paura e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca: “ Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ". (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute chi lo dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis[3]: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio di Siracusa (405-367) e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.

 Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (vvv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato-zio più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n fovboisi", v. 585).
“In realtà il tiranno è circospetto perché teme. La sua paura accompagna il suo potere: a[rcein xu;n fovboisi governare in mezzo alle paure, questa è la condizione del tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585).

Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
 "La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[4].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che per lui è il potere
Per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per essa può essere bellissimo anche commettere ingiustizia: “ ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn", Fenicie vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis , III, 82).
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio: “Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[5], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
.
L’ argomento del timore del principe viene ripreso da Machiavelli . L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1517) verte sulla religione dei Romani
Introdotta beneficamente da Numa, il secondo dei re.
Quindi il segretario fiorentino nomina nomina Licurgo e Solone tra i legislatori che "ricorrono a Dio".
Infine tira le somme: “Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

Nel Principe (XVII), Machiavelli menziona la “disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto”
Ebbene: “rispondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”
E, poco più avanti: “Debbe, non di manco, el principe, farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi e dalle donne loro…ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”.

Tuttavia Tacito ammette che dopo 100 anni di guerre civili iniziate con i Gracchi “omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit (Hist. I, 1). Comunque: “veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantis (Hist., I, 1)
E negli Annales (I, 7): “At Romae ruere in servitium consules, patres, eques. Quanto quis inlustrior, tanto magis falsi et festinantes


continua



[1] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[2] Del 98 d. C.
[3] Del 44 a. C.
[4]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico., p. 47.
[5]De Catilinae coniuratione , 7.

venerdì 29 aprile 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte II

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Erodoto

Il discorso tripolitico del dibattito costituzionale ( Storie, III, 80 ss.) forse deriva dalle Antilogie di Protagora che parte da premesse relativistiche ma non fu anarchico: venne chiamato a preparare le leggi per la città di Turi alla cui fondazione partecipò Erodoto. Nelle Antilogie si trovano i dissoi; lovgoi.
Questi di Erodoto sono trissoiv.

Erodoto scrive che vennero pronunciati alcuni discorsi incredibili per alcuni Greci: lovgoi a[pistoi me;n ejnivoisi JEllhvnwn (III, 80, 1).
In VI, 43, 3, Erodoto racconta che nella primavera del 492 Mardonio, genero di Dario depose tutti i tiranni degli Ioni e istituì governi democratici. Lo dico per quanti non accettano che Otane abbia esposto ai sette[1] Persiani il parere che era necessario che i Persiani venissero retti a democrazia (wJ~ creo;n ei[h dhmokratevesqai Pevrsa~).
Secondo Diodoro (X, 25) questo provvedimento di Mardonio sarebbe stato suggerito da Ecateo come mezzo di pacificazione.

Dunque questi lovgoi a[pistoi vennero effettivamente pronunciati da Otane, Megabizo e Dario, tre nobili persiani possibili successori di Cambise .
Erodoto scrive che dopo la magofoniva, la strage che aveva soppresso i Magi, a partire dal Mago Medo senza orecchi[2] il falso Smerdi, il quale si spacciava per Smerdi figlio di Ciro, i Sette[3] nobili persiani che si erano ribellati all’ usurpazione, tennero un consiglio dove vennero pronunciati alcuni discorsi incredibili per alcuni Greci: lovgoi a[pistoi me;n ejnivoisi JEllhvnwn (III, 80, 1). Tuttavia questi discorsi furono pronunciati.
Otane disse che non è cosa piacevole né buona (ou[te ga;r hJdu; ou[te ajgaqovn, 80, 2) che uno di loro sette diventasse re.
La magofoniva aveva soppresso il falso Smerdi e altri magi.
Il vero Smerdi lo aveva ucciso Pressaspe per ordine di suo fratello Cambise che aveva fatto un sogno ingannevole. Smerdi era stato ammazzato da Pressaspe che poi si era ucciso. Cambise era morto dopo essersi ferito, involontariamente, da solo.
-Avete visto l’ybris di Cambise- continua Otane- poi quella del Mago.

Nel racconto precedente di Erodoto, Cambise era un pazzo che fece uccidere suo fratello Smerdi da Pressaspe cui aveva ammazzato il figlio.
 Non solo: " pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh""( III 38) da ogni punto di vista dunque per me è evidente che molto matto era Cambise; altrimenti non si sarebbe messo a schernire religioni e costumi. Questo despota “lunatico” arrivava perfino a bruciare le immagini dei santuari (III, 37, 3).
Educazione e Politica sono associate: Cambise e Smerdi ricevettero una trofh;n gunaikeivan, una cura di donne da parte di femmine appena arrivate al potere e di eunuchi e crebbero in questo tipo di allevamento licenzioso trofh̃/ ajnepiplhvktw/ (ejpiplhvssw, colpisco, punisco).
Sicché ereditarono il regno trufh̃ς mestoi; kai; ajnepiplhxivaς, gonfi di lussuria e di sregolatezza (Platone Leggi, 695a)

Al monarca-continua Otane- è lecito (e[xesti) fare quello che vuole senza renderne conto (ajneuquvnw[4] poievein ta; bouvletai III, 80, 3)
Nell’Antigone di Sofocle, Creonte domanda al figlio: “ouj ga;r tou` kratou`nto~ hJ povli~ nomivzetai; (v. 738), la città non è di fatto considerata di quello che la domina?
Emone risponde: “kalw`~ ejrhvmh~ g’ a[n su; gh`~ a[rcoi~ movno~” (739), pensa che bello se comandassi da solo su una terra deserta!
Tra l’altro la città comandata da un capo malato, da un despota claudicante, si ammala: “th`~ sh`~ ejk freno;~ nosei` povli~” (Antigone 1015), dice Tiresia a Creone.
Tebe è la città malata, l’anticittà nelle tragedie greche. Nell’Edipo re è alta la frequenza della parola povli~. Nel secondo emistichi del v. 130 dell’Edipo re, il protagonista la commisera ripetutamente: w\ povli~, w\ poli~”.
Lo stesso fa Diceopoli negli Acarnesi di Aristofane commiserando Atene tormentata dalla guerra: “w\ povli~ povli~ (26)

Aristofane nelle Vespe fa dire a Filocleone che i giudici parziali dell’Eliea non dovevano rendere conto del male che facevano.
(ajnupeuvqunoi drw̃men, 587).
Anzi, davanti ai giudici dell’Eliea se la fanno sotto i ricchi e i potenti ( ejgkecovdasiv[5] m j oiJ ploutoũnteς (627).
Schifacleone viene accusato di aspirare alla tirannide dal padre.
Il giovane ribatte che per loro tutto è tirannide e congiura.
La tirannide è assai più a buon mercato del pesce salato (pollw̃/ toũ tarivcouς ejstin ajxiwtevra , 491) tanto che il suo nome gira per tutta la piazza (w{ste kai; dh; tou[nomj aujth̃ς ejn ajgorã/ kulivndetai, 492)
Se uno che va a comprare il pesce chiede scorfani (ojrfwvς) e non vuole sardelle (membravdaς, 493), quello che vende sardelle dice: “quest’uomo ha l’aria di fare provviste per la tirannide” 495)
Se uno chiede della cipolla (ghvteion) per condire le alici, l’ortolana lo guarda di traverso e fa: “ di’ un po’: chiedi della cipolla per la tirannide?
Il secondo servo dice che il giorno prima una puttana gli aveva chiesto se voleva ristabilire la tirannide di Ippia dopo che lui le aveva chiesto di cavalcarlo. La città dunque è piena di delatori e Bdelicleone non vuole che il padre si alzi all’alba per frequentare sicofanti e tribunali.

Nei Persiani di Eschilo, Serse conduce uomini privi di libertà e non deve rendere conto dei propri atti, nemmeno degli insuccessi.
Il grande re pur se sconfitto, non è tenuto a rendere conto alla città " oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), come lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene quando la regina madre Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell'esercito greco. Allora il corifeo risponde: “ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi" (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.

Essere cittadino, polivthς, dunque, e avere un ruolo direttivo, significa renderne conto alla povliς.

Otane dunque dice che al monarca viene l’u{briς dai beni presenti, mentre l’invidia gli è connaturata dall’origine: fqovnoς de; ajrch̃qen ejmfuvetai ajnqrwvpw/ (Erodoto, III, 80, 3)

 Il re ha ogni malvagità (e[cei pãsan kakovthta, 80, 4) che compie per arroganza e invidia

 Cfr. la storia di Trasibulo di Mileto, Periandro di Corinto e Policrate di Samo. Periandro dopo la lezione di Trasibulo: “pãsan kakovthta ejxevfane ejς tou;ς polivtaς (V; 92, h).

Periandro secondo Diogene Laerzio praticava anche l’incesto con la madre Crateia (Vite dei filosofi, I, 7). Cfr. Labda la nonna zoppa di Periandr,, Labdaco il nonno di Edipo, Edipo stesso e la zoppia del tiranno.
Cfr. anche Tarquinio il Superbo in Tito Livio.

La prima caratteristica del despota, lo abbiamo visto, è l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale: “oiJ uJpetivqeto..tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h) . Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").

Su questa linea si trova anche Platone il quale chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou""( Repubblica, 525e), puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" (526a) quelli malvagi assai.

Dai capitoli erodotei (III, 80-82) ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia (Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. E non solo la storiografia greca. Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole: “ rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "(I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[6].


continua



[1] Erodoto conta anche Otane.
[2] Fu scoperto da Fedime, figlia di Otane. Ciro aveva fatto mozzare gli orecchi del Mago Smerdi per una grave colpa  (III, 69) e Fedime che il falso Smerdi aveva ereditato come moglie da Cambise una notte si accorse di questa mutilazione, quindi lo riferì al padre che le aveva ordinato di scoprirla. Il vero Smerdi, figlio di Ciro e fratello di Cambise, lo aveva ucciso Pressaspe per ordine dello stesso Cambise che aveva fatto un sogno ingannevole.  Cambise era morto dopo essersi ferito, involontariamente, da solo. Pressaspe dopo morte di Cambise si era ucciso e il Mago Medo  Smerdi aveva usurpato il potere persiano.  I Sette nobili persiani conosciuta l’usurpazione, si riunirono per congiurare contro l’usurpatore (III, 70)- Dario è il più deciso dei Sette e vuole agire subito. Otane vorrebbe prendere tempo ma Gobria appoggia  la proposta di Dario: siamo comandati da un Medo, dice kai; touvtou w\ta oujk e[contoς (III, 73) e uno senza orecchi. Per giunta Cambise morendo aveva lanciato una maledizione di sterilità se avessero lasciato che i Medi riprendessero il potere ( cfr. III, 65). Allora tutti approvarono Gobria. I Magi cercarono di far dichiarare a Pressaspe, il quale aveva ucciso il vero Smerdi per ordine di Cambise, che la Persia era governata dal figlio di Ciro, il vero Smerdi da lui asssassinato. Speravano che lo facesse perché Cambise aveva ucciso il figlio di Pressaspe con un colpo di freccia e quindi il padre doveva odiare gli Achemenidi. Ma Pressaspe disse la verità: che lui per ordine di Cambise aveva ucciso Smerdi e che i Magi avevano preso il regno. Poi si uccise. I Sette andarono alla reggia dove poterono entrare dato il loro rango. Poi ci fu una battaglia: Intafrene perse un occhio. Dario uccise il Mago.
[3] Otane, Intafrene, Gobria, Megabizo, Aspatine, Idarne, Dario
[4] eu[quna, correzione; eujquvnw, raddrizzo, eujquvς, dritto.
[5] ejgcevzw-ejgkevcoda.
[6] Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri. 

giovedì 28 aprile 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte I

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Giovanni Ghiselli, membro del direttivo del Centrum Latinitatis Europae
Conferenza tenuta a Merano il 23 aprile 2016 nell’ambito del convegno Polis Europa


Sommario

Essere cittadino (polivth~) significa avere una cultura politica, vuole dire essere educato alla vita democratica della polis.
 La tirannide è associata alla prepotenza e all’ignoranza del bene comune.
Il dibattito costituzionale nelle Storie di Erodoto.
Il tiranno non deve rendere conto ai suoi sudditi dei propri atti spesso criminosi.
Il tuvranno~ nella storiografia greca, in quella latina, nella tragedia greca e in Platone.
Critiche alla dhmokrativa. Anche il popolo può gestire il potere con prepotenza, ossia non sottostando alle leggi (Senofonte, Polibio, Platone, Aristotele).
I discorsi di Pericle nelle Storie di Tucidide. La politeiva ateniese e la nostra costituzione: analogie e differenze.

Paideia si può identificare, in un certo senso, con formazione politica: “Uso questo termine non nel suo senso contemporaneo di istruzione scolastica formale ma nel senso antiquato, nell’antico senso greco: per paideia i greci intendevano l’educazione, la “formazione” (la Bildung tedesca),
lo sviluppo delle virtù morali, il senso della responsabilità civica, della cosciente identificazione con la comunità, i suoi valori e le sue tradizioni”[1].
Già l’Odisseo dell’Iliade possiede l’arte politica[2] che “consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio”[3].

Povliς e a[stu
Odissea VI, vv. 178-179: Odisseo parla a Nausicaa"Fammi vedere la rocca (a[stu dev moi deĩxon), e dammi uno straccio da buttarmi addosso/se mai venendo qui avevi un telo dei panni".
-a[stu: secondo Hainsworth (op. cit., p. 205) questo vocabolo in Omero è sinonimo di povli"; secondo Valgimigli (op. cit., p. 41) "a[stu è la città propriamente detta, la città nel suo centro, con reggia templi fortificazioni; povli" è il complesso dell'abitato, fino nei sobborghi, gai'a, e più specificamente dh'mo" (cfr. 3) è il territorio". In effetti con la radice ajstu- si forma ajstei'o", "cittadino" che, contrapposto ad a[groiko", "rozzo", viene a significare anche "urbano, elegante, cortese".

Benveniste in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee afferma che povli~ significa “cittadella”. Ricorda che Tucidide afferma che l’attuale acropoli era una volta la città insieme con la parte sottostante rivolta a sud. Kai; hJ ajkrovpoli~ mevcri tou`de e[ti kalei`tai uJp j j Aqhnaivwn poli~ (Storie, II, 15, 6) e l’acropoli fino a ora è chiamata polis dagli Ateniesi.
Dunque polis è il nucleo, e la parte istituzionale, il luogo del potere dello Stato.

Ad a[stu invece corrisponde il latino urbs e urbanus ad ajstei`o~, rusticus corrisponde ad a[groiko~.

“In greco povli~ denuncia ancora in epoca storica il senso di ‘fortezza, cittadella’, come nota Tucidide: “L’akrópolis (‘cittadella’) è ancora chiamata fino ad oggi dagli Ateniesi pólis” (II 15)[4]. Questo era il senso preistorico della parola, secondo i suoi corrispondenti ved. pūr ‘cittadella’ e lit. pilìs ‘fortezza’. Si tratta quindi di un antico termine indoeuropeo, che ha assunto in greco-e solo in greco-il senso di ‘città’ poi di ‘Stato’. Le cose sono diverse in latino. Il nome della ‘città’, urbs, è di origine sconosciuta; si è congetturato-senza prove comunque- che derivasse dall’etrusco. Il fatto è in ogni caso che urbs, designando la ‘città’ non è correlativo del gr. pólis, ma di ástu, di cui ricalca le sfumature di senso nei suoi derivati: urbanus ‘della città’ (opposto a rusticus ‘della campagna’, da cui ‘fine, raffinato’ sul modello del gr. asteîos. Per corrispondere al gr. pólis, il latino ha il termine secondario ciuitas, che indica alla lettera l’insieme dei ciues ‘concittadini’. Ne segue che il rapporto che il latino stabilisce tra ciuis e ciuitas è l’inverso di quello che ci mostra il greco tra pólis ‘città’ e polítēs ‘cittadini’ “[5].

Nel Protagora di Platone (321D), il personaggio del sofista racconta che a Prometeo non era consentito ancora (oujkevti ejnecwvrei) di entrare nell’acropoli abitazione di Zeus (ei~ me;n th;n ajkrovpolin th;n tou` Dio;~ oi[khsin), mentre potè entrare a rubare la tecnica del fuoco nell’officina comune di Efesto e Atena.

A Povliς si associa politeuvw “vivo da cittadino”, polivthς, “cittadino”, politeiva, “cittadinanza e costituzione”, politikhv (tevcnh) arte politica.
In latino a polis corrisponde civitas, l’insieme dei cives. Civitas è la comunità dei cittadini organizzata politicamente.

Nel De repubblica di Cicerone, Scipione Emiliano dice a Lelio che terrà un discorso de optimo civitatis statu, sulla migliore costituzione di uno Stato che è poi una constitutio iuncta moderateque permixta, complessa e moderatamente mista (I, 69 e 70)
Civitas dunque è la comunità dei cittadini organizzata politicamente.
Marsilio Ficino traduce i dialoghi di Platone dal 1464. Rende il politikov~ del Politico con civilis vir.
Nel De civitate Dei di Agostino, la civitas è una moltitudine di uomini collegata da vincoli sociali e dall’amore: amor sui nella città terrena, amor Dei in quella celeste-
Il vescovo Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae (VII sec.), un repertorio enciclopedico cui si attinse per secoli anche per il lessico politico, fa derivare la parola civis dal fatto che i cittadini convergevano nella civitas per fondare la vita comune. La civitas nasce dal rapporto tra i cives.

Dunque povli~ è la città come istituzione e come comunanza di cittadini.
In Tucidide VII, 77, lo stratego Nicia dopo avere perso la flotta a Siracusa dice all’esercito, per rincuorarlo: “a[ndre~ ga;r povli~ kai; ouj teivch oujde; nhve~ ajndrw`n kenaiv”, gli uomini sono la polis, non le mura né le navi vuote di uomini.

Non molto diverse sono le parole che Cassio Dione (II-III sec. d. C.) fa dire ad Augusto preoccupato per il calo demografico della classe dirigente.
L’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi degli ammogliati. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta: “a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini.

Nel secondo stasimo dell’ Edipo re di Sofocle, il Coro prega gli dèi di conservare “la nobile gara benefica per la città” (to; kalw`~ d j e[con- povlei pavlaisma, 866-867). Credo che alluda alla competizione politica.
All’inizio del dramma la povli~ è flagellata dalla peste e dalla sterilità, e ondeggia come una nave sul mare in tempesta (povli~ saleuvei, 22), e il mare è cruento: la città non è più capace di sollevare la testa dai gorghi del vortice insanguinato.(vv. 23-24).
Al v. 50 il sacerdote chiede al re: “ajnovrqwson povlin”, raddrizza la città.
Tebe infatti si consuma (povli~ ga;r fqivnousa) nella sterilità della terra e delle femmine.

Polivth~ è dunque“cittadino” politeuvw “vivo da cittadino” e “governo” , politeiva è “costituzione”, “governo”, “cittadinanza”.
Politikh; tevcnh è “arte politica”, indispensabile se si vuole vivere da uomini.

 Nel dialogo Protagora di Platone, il personaggio del sofista racconta che gli uomini ricevettero da Prometeo i mezzi per vivere ma non avendo l’arte politica commettevano ingiustizie reciproche (oujk e[conte~ th;n politikh;n tevcnhn hjdivkoun ajllhvlou~, 322B). Senza l’arte politica infatti non c’era rispetto né giustizia e gli uomini si uccidevano a vicenda. Allora Zeus mandò Ermes a imporre aijdw` te kai; divkhn i{n j ei\en povlewn kovsmoi (322D) “rispetto e giustizia, perché costituissero gli ordini delle città”.
L’arte politica dunque è presupposto e fondamento di rispetto e giustizia.


continua




[1] M.Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 30.
[2] Nel secondo canto del poema più antico, Odisseo, simile a Zeus per intelligenza (Διὶ μῆτιν ἀτάλαντον, v. 169) riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell’esercito acheo da Troia con blande parole (ἀγανοῖς ἐπέεσσιν, v. 180). La dea per rivolgersi all’eroe utilizza un epiteto formulare (πολυμήχανος, v. 173, ricco di risorse) il quale lo caratterizza come uomo intelligente e capace.
[3] J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, p. 48.
[4] Kalei`tai  de; dia; th;n palaia;n tauvth/ katoivkhsin kai; hj ajkrovpoli~ tou`de e[ti uJp j  jAqhnaivwn povl~ (II, 15, 6), l’acropoli è chiamata ancora dagli Ateniesi “città” per l’antico abitato in questa zona. Ndr.
[5] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 281.

mercoledì 27 aprile 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte XI

Alessandro

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Arriano. Eracle (sono tre) e Dioniso (due)
A Tiro venerano un Eracle più antico di quello argivo figlio di Alcmena, fin da molte generazioni prima di Cadmo (2, 16, 1). L’Eracle argivo invece è dell’età di Edipo figlio di Laio, di Labdaco, di Polidoro, di Cadmo, di Agenore[1]. L’Eracle di Tiro è quello venerato a Tartesso sulle colonne d’Eracle perché Tartesso è una colonia fenicia (Arriano, 2, 16, 4).
Quanto a Gerione custode delle vacche, era un re dell’Epiro come afferma Ecateo (2, 16, 6).
 C’è pure un terzo Eracle egiziano (2, 16, 2). Arriano menziona Erodoto il quale sostiene che gli Egiziani venerano Eracle tra i dodici dèi (2, 16, 3). In II, 43 Erodoto considera Anfitrione e Alcmena originari dell’Egitto, ed Eracle una divinità antica cui giustamente i Greci dedicano culti diversi (II, 44). In effetti le funzioni di Eracle differiscono in diverse letture del mito.

Allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro Dioniso, figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano (Arriano, 2, 16, 3). Può essere che Euripide abbia voluto sconsacrare quello tebano appunto.
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero, un dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è quello ridicolo delle Rane di Aristofane. Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che fugge terrorizzato da Empusa tra le braccia del suo sacerdote (v. 297) e che viene apostrofato dal servo Xantia con:" w\ deilovtate qew`n su; kajnqrwvpwn"(v. 486), oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini. Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479).
“Dioniso viene rappresentato nelle Rane come un vilissimo poltrone che il suo stesso schiavo minaccia di prendere a botte. La città fondata dagli uccelli blocca la via alle avventure amorose degli dèi e intercetta il fumo delle vittime offerte dagli uomini, così che alla fine quelli, costretti dalla fame, devono capitolare. Da quando Pluto, dio della ricchezza, che Zeus per invidia aveva fatto cieco, ha riacquistato la vista, nessuno fa più sacrifici. Aristofane fa strazio dei sofisti, ma era anche lui figlio del suo tempo e sapeva quel che poteva offrire al uo pubblico, e quando con le sue caricature alla Offenbach[2] si attaccò agli dèi, non s’accorse che egli dava all’antica pietà il colpo di grazia”[3].
Il mito infatti può avere sottolineature diverse ed essere usato con significati vari, come una parola del vocabolario.

Eratostene di Cirene[4] sostiene che tutto quanto collegava la loro impresa al divino fu gonfiato all’eccesso dai Macedoni pro;~ cavrin th;n jAlexavdrou, per compiacere Alessandro (Anabasi, 5, 3, 1). Avendo trovato una grotta nel Parapamiso, dissero che era proprio Promhqevw~ to; a[ntron i{na ejdedeto (5, 3, 2), la grotta di Prometeo, dove era stato legato con tanto di aquila e di Eracle che la uccise. Dunque spostarono il Caucaso dal Ponto all’Indo. Eratostene non ci crede.
 Per me, conclude Arriano, restino pure nell’incertezza i discorsi su questi fatti ( ejn mevsw/ keivsqwn oiJ uJpe;r touvtwn lovgoi, 5, 3, 4).

Curzio Rufo racconta che l’esercito di Alessandro tra grandi sofferenze valicò il Caucaso (Parapamiso - Hindu Kush), una catena che taglia tutta l’Asia e si congiunge al Tauro. Nel Caucaso c’è una rupe dalla circonferenza di 10 stadi e alta più di quattro in qua vinctum Promethea fuisse traditur (7, 3, 22). Alle falde del monte venne fondata un’altra Alessandria.
Nel film Alexander (2004) Tolomeo, che da vecchio racconta, assimila Alessandro a Prometeo: entrambi hanno cambiato il mondo.
Alessandro stesso più avanti dice: liberare i popoli del mondo è un’impresa da Prometeo che è sempre stato un amico degli uomini.

Sulla confusione
Callistene disapprovò la confusione tra uomini e dèi e le timaiv, gli onori, devono restare ajpokekrimevnai, distinti (4, 11, 4).
Alessandro per rappresaglia convocò l’assemblea dei soldati non Macedoni e li elogiò. Ricordò di avere sposato la figlia di Oxiarte e quella di Dario ut hoc sacro foedere omne discrimen victi et victoris excluderem (10, 3, 12).
Asiae et Europae unum atque idem regnum est (13). In fondo ha realizzato il progetto di Serse. Oramai Persiani e Macedoni non si distinguono più: “omnia eundem ducunt colorem” (10, 3, 14). Devono avere la stessa legge quelli che vivranno sotto lo stesso re. E’ però la confusione.
Ode I 3[5] di Orazio: "nil mortalibus ardui est;/caelum ipsum petimus stultitiā".
Dario mandò ad Alessandro un’altra lettera: gli offriva la figlia Statira e la Lidia in dote. La fortuna è mutevole e attira l’invidia, scriveva. Temeva che Alessandro facesse avium modo (4, 5, 3) e salisse troppo in alto.
I soldati si lamentavano anche molto realisticamente e razionalmente invero: “in unius hominis iactationem tot milium sanguinem impendi” (4, 10, 3) per la vanagloria di un solo uomo si spendeva il sangue di tante migliaia. Uno che rinnegava il padre, la patria e caelum vanis cogitationibus petere, mirava al cielo con vane fantasie.

A proposito di cieche speranze: “La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non son dominati dalle illusioni… Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione” (Leopardi, Zibaldone, 14).


Fine


Bibliografia su Prometeo
F. Bacone, Sapienza degli antichi, trad. it. Bompiani, Milano, 2000.
M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983.
G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981.
 M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994.
 B. Croce, Storia d'Europa nel secolo XIX, Laterza, Bari, 1965.
 I. Dionigi ( testo e commento a cura di) Lucrezio, La natura delle cose, introduzione di G. B. Conte, traduzione di L. Canali, Rizzoli, Milano, 1999.
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , trad. it. Bietti, Milano, 1968.
G. Ghiselli (a cura di) Antigone, Loffredo, Napoli, 2001.
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica , trad. it. Mursia, Milano, 1990.
H.Hesse Il giuoco delle perle di vetro, trad. it. Mondadori, Milano, 1981.
J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore, trad. it. Adelphi, Milano, 2002.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia , trad. it. Adelphi, Milano, 1977.
 G. Orwell, 1984 , trad. it., Mondadori, Milano, 1989.
 P. P. Pasolini, Scritti corsari , Garzanti, Milano, 1975.
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione , trad. it., Laterza, Bari, 1979.
E. Severino, Dall’Islam a Prometeo, Rizzolo, Milano, 2003.
M. Shelley, Frankestein , trad. it. Rizzoli, 1994.
P. B. Shelley, Prometeo slegato, trad. it. Einaudi, Torino, 1997.
B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , trad. it. Lampugnani Nigri, Milano 1969.
I. Svevo, La Coscienza di Zeno , Dall'Oglio, Milano, 1938.
Tirso de Molina, L’ingannatore di Siviglia, trad. it. Garzanti, Milano, 1991.
G. Verga, I Malavoglia, Mondadori, Milano, 1969



[1] Cfr. Edipo re vv. 266 - 268:"cercando di prendere l'autore manuale della strage/per il figlio di Labdaco, di Polidoro e anche/ di Cadmo che li precedeva e dell'antico Agenore".
[2] Compositore di operette quali Orfeo all’inferno (1858), La bella Elena (1864) e altre. Ndr
[3] Nilsson, Religiosità greca, p. 105.
[4] Geografo e cartografo che nel III sec. A. C. misurò la circonferenza della terra sbagliando solo di 300 km.
[5] In sistema asclepiadeo IV.

lunedì 25 aprile 2016

Incontri linguistici del lunedì. Parte VI

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Il giovane Törless di Musil e Hanno Buddenbrook di T. Mann.
Il significato dei nostri studi deve restare impresso persino nell'aspetto di noi insegnanti se non vogliamo essere rifiutati, quindi rimanere inascoltati e disprezzati  dagli studenti. A tale proposito sentiamo  ancora Musil il cui Törless spinto “da una curiosità un po’ diffidente” va a trovare il giovane professore di matemaica. Il suo “scopo principale non era tanto di ottenere chiarimenti-segretamente già ne dubitava- quanto i poter gettare uno sguardo, per così dire, al di là del maestro e del suo quotidiano concubinato con la matematica…Senza volerlo Törless si sentì ancora più ributtato dalle proprie osservazioni; non riusciva più a sperare che quell'uomo fosse davvero in possesso di una conoscenza significativa, giacché non se ne vedeva traccia nella sua persona né nel suo ambiente. Ben diversa si era figurata la stanza di un matematico, in qualche modo espressiva dei pensieri terribili che vi prendevano forma. Il triviale lo offendeva: lo estese alla matematica e il suo rispetto cedette il posto a una diffidenza riluttante[1]".
Sentiamo anche le impressioni del giovinetto Hanno Buddenbrook di T. Mann: "i maestri supplenti o tirocinanti che lo istruivano in quelle prime classi, dei quali sentiva l'inferiorità sociale, la depressione spirituale e la poca cura dell'esteriorità fisica, gli ispiravano, oltre il timore della punizione, un segreto disprezzo"[2].
Tonio Kröger si sentiva diverso dai bravi scolari e di solida mediocrità, (Die guten Schüler und die von solider Mittelmäbigkeit) , quelli che non trovano ridicoli gli insegnanti “(Sie finden die Lehrer nicht komisch)”[3], (p. 74).

Voglio dire che il greco e il latino vanno collegati non solo alla successiva letteratura europea ma anche alla vita, alla vita in generale, a quella dei nostri studenti e ala nostra. .
Dice bene Marziale in uno dei suoi epigrammi: "Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit "(X, 4, 9-10), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo.

Torno al tradurre e concludo.
Credo che tradurre gli ottimi auctores, i nostri accrescitori, sia un modo, un  modo ottimo per incrementare la nostra capacità linguistica, la nostra facoltà estetica di intendere il bello e pure il nostro senso etico. Il bello e il bene infatti sono congiunti nella kalokajgaqiva.
Bisogna insegnare il significato di molti vocaboli partendo dagli autori
Un buon metodo mi sembra questo: si prende un autore non difficile, si traducono alcune frasi, poi si mostrano le ricadute dei vocaboli nel latino, nell’italiano, e magari nell’inglese e nel tedesco del maggior numero possibile di parole.
Per esempio ejsqivw-ejdomai-to eat, essen, mangiare.
meidivaw, to smile, sorridere.
hjduv~, suavis, sweet, süss, dolce.
Quvra, foris, die tür, porta.
Nell’insegnare le parole bisogna dare la precedenza a quelle dal significato più vasto e dalle occorrenze  più frequenti.


fine 
g.ghiselli@tin.it



[1] R. Musil, I turbamenti del giovane Törless, (del 1906) pp. 110- 111.
[2] T. Mann, I Buddenbrook (del 1901), p. 330.
[3] Tonio Kröger, p. 74.

errata corrige

Me lo facciano sapere.