sabato 30 novembre 2013

Fides e Perfidia. L’odiosa sapienza.




Fides è un valore di base della civiltà latina, un valore politico, giuridico e pure etico. Cicerone nel De officiis [1] ne  dà una definizione "Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas" (I, 23), orbene la fides  è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Fides  è il rispetto del foedus.
 "Foedus  e fides  sono legati etimologicamente: foedus  è "l'accordo", il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides "[2].
La fides è per i Romani un valore forte e vincente: Tito Livio[3] racconta che i Falisci, nel 394, in guerra con i Romani guidati da  Furio Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Falerii a lui affidati. "Fides Romana, iustitia imperatoris in foro et curia celebrantur" (V, 27, 1), nel foro e nel senato (di Falerii) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma, in senato, per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio sotto il governo romano che con le loro leggi, e che con l'esito di quella guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano: "vos fidem in bello quam praesentem victoriam maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus" (V, 28, 13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immediata; noi, sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria.
Nel buon tempo antico dunque l'osservanza della fides pagava.
Non è sentito in maniera altrettanto forte e cavalleresca questo valore della lealtà da parte dei Greci. Quale testimonianza di questa affermazione sulla scarsa fides  dei Greci (Danaumque… insidiae[4]) riferisco un motto di Lisandro il comandante spartano che concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre: "o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).
Secondo Teognide[5]  il dilagare della perfidia tra i Greci è associato al decadere dell’aristocrazia dei proprietari terrieri.
Il poeta elegiaco denuncia la malafede come caratteristica dei kakoiv, gli ignobili, i vili, i quali: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte"-ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (vv.59-60), Si ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza conoscere i segni distintivi del bene e del male.
Questi kakoiv non conoscono un altro valore forte: quello della gratitudine: "E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono("oiJ d  j ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito" (vv. 105-112) .
 Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione su Teognide di Megara  simpatizzando con le teorie reazionarie del poeta. Lo colpì fortemente il biasimo espresso per l'ingratitudine dell'animo plebeo: "Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai"[6].
Poi, nel 1886: “Noi veritieri”- è questo l’appellativo che si davano i nobili dell’antica Grecia”[7].
Don Giovanni per rassicurare Zerlina che teme di essere ingannata (“Io so che raro / colle donne voi altri cavalieri / siete onesti e sinceri”), le risponde: “E’ un’impostura / della gente plebea. La nobiltà/ha dipinta negli occhi l’onestà”[8].

Al tempo della repubblica romana la slealtà veniva attribuita agli schiavi. Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini[9] al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la santa protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.

La perfidia plus quam punica[10] di Annibale e quella italica di Machiavelli avrebbero comunque avuto dei maestri negli Elleni. 
La slealtà di Annibale sarebbe derivata da Sileno[11] uno dei suoi maestri greci: “Il più odioso dei vitia rinfacciati ad  Annibale, la sua perfidia, la slealtà maligna e senza scrupoli di cui il Cartaginese si era infinite volte macchiato, era figlia, in effetti, dell’educazione greca e non dell’indole punica[12]”.
I Greci conservano tale pessima reputazione negli esametri di Giovenale . Il corrucciato  poeta[13]   nella terza satira mette in rilievo la tendenza dei Greci a fare scena: “Natio comoeda est. Rides: maiore cachinno/concutitur; flet , si lacrimas conspexit amici,/nec dolet… si dixeris ‘aestuo’, sudat (vv.100-102 e v. 103), è una razza di commedianti. Tu ridi: quello è scosso da una risata più grossa; piange, se ha visto le lacrime dell’amico…se avrai detto ‘ho caldo’, suda. 
Qualche tempo prima  Tacito segnala la perversione della fides tra i Germani i quali, dopo avere perso tutto ai dadi (alea), con un ultimo lancio mettono in gioco la libertà personale, quindi, se perdono, mantengono la parola data e subiscono la schiavitù. Ebbene in questo caso ciò che loro chiamano fides è una forma di ostinazione in un vizio riprovevole: “ea est in re prava pervicacia”(Germania, 24).

Veniamo a Machiavelli discepolo dei Greci, in particolare di Plutarco, sia pure non letto nell’originale. Del resto anche Shakespeare deve non poco a Plutarco che pure leggeva tradotto.
Nel XVIII capitolo di Il Principe, il Fiorentino ricorda "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".
“Di Plutarco nel Medioevo si preferivano i Moralia e fu solo l’arrivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, a rilanciare la lettura delle Vite  parallele, che divennero da allora in poi il suo principale testo di riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne acquistò una copia in traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse ispirazione per la sua intera opera (per inciso le famosissime immagini della “golpe” e del “lione” derivano, particolare, dalla vita di Lisandro di Plutarco), oppure a Montaigne e a Shakespeare, che se ne servono abbondantemente”[14].

Machiavelli poi ha avuto tanti altri discepoli
Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[15]. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture, / Tell them that God bids us do good for evil: / And thus i clothe my naked villainy / With odd old ends stol’n forth of Holy Writ, / And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro,e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere. Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini, la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita[16]: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".
Ora io credo che sapere ingannare sia “odiosa sapienza”[17].
Sicché non voterò i politici che abbiano dato prova di perfidia plus quam punica, cioè italica. Il comportamento di alcuni di loro nell’affare Cancellieri esemplarmente negativo, è stato emblematico, negativamente emblematico. 


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[1] Del 44 a. C.  
[2] G. B. Conte, Scriptorium Classicum  2, p. 81.
[3]  59 a. C.-17 d. C.
[4] Cfr. Eneide, 2, vv. 309-310: “ Tum vero manifesta fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è evidente la lealtà e si scoprono gli inganni dei Danai.  E’ il momento della scoperta dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte aveva cercato di mettere in guardia i Troiani gridando: “equo ne credite, Teucri./Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis” (Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i Danai anche quando portano doni. 
[5] Sotto il nome di Teognide, vissuto nel VI , ci è giunta la Silloge teognidea, un corpus  di 1389 versi in distici elegiaci non tutti dell'autore.
[6] Dissertazione  su Teognide di Megara, p. 167.
[7] Di là dal bene e dal male (Che cosa è aristocratico), p. 186.
[8] Don Giovanni, Mozart-Da Ponte, I, 8.
[9] Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.
[10] Tito Livio, Storie,  XXI, 4.
[11] “Sileno di Kalé Akté. Sileno, che feci venire io stesso  dalla Sicilia perché scrivesse le mie imprese, era sottile e astuto, insinuante e indiretto… Da buon Siceliota, egli era più pratico dello spartano, e soprattutto era di lui assai più portato all’uso sistematico della metis, quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” (G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32).
[12] G. Brizzi, Scipione e Annibale, p. 21. Laterza, Roma-Bari 2007.
[13] Margherite Yourcenar attribuisce questo pensiero all’imperatore Adriano: “ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l’Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostroi padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l’ipocrisia” (Memorie di Adriano, p. 217)
[14] Remo Bodei, Immaginare altre vite, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 100.
[15] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[16]F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana , 2,  p. 107
[17] Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38), e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv aijpeinaiv, 107-108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

venerdì 29 novembre 2013

La paura problematica: malefica o benefica?




Sommario
Stazio: “nil falsum trepidis
Livio e il re Numa
Il dramma satiresco Sisifo attribuito a Crizia
Seneca. Stazio.
Machiavelli
Hitler e la cricca di Bush

Terenzio condanna l’educazione basata sulla paura.
La paura inculcata dalla religio.
Eppure l’intimidazione  non viene sempre disapprovata come diseducativa: Eschilo (to; deinovn, nelle Eumenidi), Menelao nell’Aiace di Sofocle, e gli Spartani di Plutarco (Vita di Cleomene) celebrano la paura. Anche  Sallustio (metus, formido, Bellum Iugurthinum) è un fautore della paura.
Giovenale: la vicinanza di Annibale e la povertà frenavano la libidine. Polibio e il koino;~ fovbo~ che costringe i Romani alla concordia. Del resto lo storiografo di Mantinea è contrario alla presenza di ta; deinav nella storiografia. La paura comunque è funzionale al potere. 

La liberalitas, la generosità di chi è davvero libero, con il pudor, il rispetto di chi sa di essere uomo, sono i valori che trattengono i giovani dal fare il male, dal farsi del male, in modo più efficace del metus secondo Terenzio: "Pudore et liberalitate liberos / retinere satius esse credo quam metu: / hoc pater ac dominus interest" (Adelphoe[1], vv. 57-58), credo che sia meglio tenere a freno i figli con il rispetto e con la generosità che con la paura. In questo differisce un padre da un padrone.
 Non c'è solo il padre padrone ma anche la madre padrona: tale è Clitennestra secondo l'opinione della figlia nell'Elettra[2] di Sofocle: "kaiv s j e[gwge despovtin h] mhtevr j oujk e[lasson eij" hJma'" nevmw" (597-598) e io ti considero padrona non meno che madre verso di noi.
 L’educazione deve liberare il giovane da ogni forma di asservimento: "I tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori". Ogni formazione "è liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, irradiazione di luce e di calore"[3]


La paura inculcata dalla superstizione
Fu il re Numa che decise di  infondere il timore degli dèi (“deorum metum iniciendum ratus est” Livio, I, 19, 4), cosa efficacissima per la massa ignorante e rozza di quei tempi.
E' la ragione già svelata da Crizia, sofista e tiranno sanguinario, (460-403 a. C.) nel dramma satiresco Sisifo  che contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi poiché le leggi non bastavano a inceppare i malvagi quando agivano di nascosto: "Mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio (ti dei'ma) anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente (lavqra/)"[4].

Seneca (1 a. c. ca-65d. C.) nelle Naturales quaestiones (opera della vecchiaia) ribadisce questo concetto: "Ad coercendos imperitorum animos sapientissimi viri iudicaverunt inevitabilem metum ut aliquid supra nos timeremus. Utile erat in tanta audacia scelerum esse aliquid adversus quod nemo sibi satis potens videretur" (II, 42, 3), per tenere a freno gli animi degli ignoranti, degli uomini sapientissimi giudicarono inevitabile la paura perché temessimo qualche cosa sopra di noi. Era utile in così grande audacia di delitti che ci fosse qualche cosa contro la quale nessuno si credesse abbastanza potente.
Nella Tebaide di Stazio (45 ca-96 d. C.) Anfiarao annuncia cattivi presagi e Capaneo replica: "Quid inertia pectora terres? / Primus in orbe deos fecit timor" (III, 660-661), perché terrorizzi i petti senza energia? per prima la paura impose gli dèi al mondo.

Un argomento che in epoca moderna  viene ripreso da Machiavelli. L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  (1517) verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare... E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella... E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate". Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio"  nomina Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

A proposito della polivalenza problematica delle parole, la paura, e tanto meno il terrore, non è elemento utile all'educazione dei figli secondo il personaggio Micio di Terenzio, un uomo sostanzialmente positivo; eppure nelle Eumenidi di Eschilo entrambe le parti contendenti affermano la necessità di mantenere vivo to; deinovn per il bene della povli" : nel secondo Stasimo, il coro delle Erinni canta: "A volte  è bene il terrore (e[sq  o{pou to; deino;n eu\) / e quale ispettore delle  anime (frenw'n ejpivskopon) / deve restarvi a fare la guardia" (vv. 517-519).
E subito dopo, ancora le Erinni: "mht j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto" qeo;" w[pasen" (526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
Più avanti la stessa Atena consiglia ai cittadini che hanno cura della città di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo (to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon, v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n;" vv. 698-699).
Nell'Aiace di Sofocle il personaggio di Menelao sostiene la stessa cosa per imporre il suo ordine di non seppellire Aiace che non obbediva ai capi: “ouj ga;r pot ‘ ou[t j a]n ejn povlei novmoi kalw̃ς-fevroint j a[n, e[nqa mh; kaqesthvkh/ devoς, out j a]n stratovς ge swfrovnwς a[rcoit j e[ti mhde;n fovbou provblhma mhd jaijdoũς e[cwn» (vv.1073-1076), mai infatti le leggi potrebbero procedere bene in una città dove non si trovasse sancito il timore né un esercito potrebbe essere comandato con equilibrio, se non avesse nessuno scudo di paura né di rispetto.
E poco dopo: “devoς ga;r w/| provsestin aijscuvnh q’ oJmoũ,-swthrivan e[conta tovnd j ejpivstasoo” (vv. 1079-1080), sappi infatti che ha la salvezza quello nel quale risiede la paura insieme con il rispetto.     

NellaVita di Cleomene[5], Plutarco racconta che gli Spartani onorano la Paura “timw`si de; to;n Fovbon”, non come venerano gli dèi che si vogliono distogliere perché ritenuti dannosi, “ajlla; th;n politeivan mavlista sunevcesqai fovbw/ nomivzonteς" (30, 9), ma i quanto credono che con la paura soprattutto si tenga unito lo Stato.
E poco più avanti: “dio; kai; para; tw̃n ejfovrwn sussivtion to;n Fovbon i{druntai Lakedaimovnioi,  perciò presso la mensa degli efori gli Spartani innalzarono il tempio di Paura.  

Il concetto della paura opportuna all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[6] di Sallustio: "Nam ante Carthaginem deletam... Metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.

Giovenale riprende questo tema nella sesta satira, quella contro le donne: una delle ragioni della castità delle Romane antiche era “proximus urbi / Hannibal” (vv. 290-291), Annibale alle porte dell’urbe. E, continua: “Nunc patimur longae pacis mala; saevior armis / luxuria incubuit victumque ulciscitur orbem. / Nullum crimen abest facinusque libidinis, ex quo / paupertas Romana perit” (vv. 292-295), ora soffriamo i mali di una lunga pace; più feroce delle armi, il lusso ci è piombato addosso e vendica il mondo conquistato. Nessun delitto manca né misfatto della libidine da quando è morta la povertà di Roma. 

“La teoria di una funzione benefica del pericolo esterno (che riassumiamo in genere sotto la formula sallustiana del metus hostilis, il “timore del nemico”: Bellum Iugurthinum 41, 2) è già presente in nuce in Polibio, benché non pienamente sviluppata, né obiettivamente così urgente (nel terzo quarto del II secolo a. C.) come sarà in Posidonio e in Sallustio, nelle tempeste civili della Roma del I secolo. Ma quando, liberatisi dai pericoli esterni, i cittadini di uno stato a costituzione mista vivono nella prosperità, insorgono dall’interno motivi di deterioramento e disgregazione, che tuttavia la costituzione mista possiede in sé i meccanismi per frenare, riportando nell’ordine costituito l’elemento che tende a prevaricare”[7].
Polibio afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn… (6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle. 

Si ricorderà (14. 3) che Polibio biasima e vorrebbe cancellare  paura e compassione dalla storiografia: lo storico di parte achea biasima  ta; deinav, i fatti terribili che  Filarco, partigiano del re di Sparta Cleomene III[8] fautore di una rivolta sociale, racconta nelle sue Storie[9]: “spoudavzwn d j eij" e[leon ejkkalei'sqai tou;" ajnagignwvskonta" peirwvmeno" ejn eJkavstoi" ajei; pro; ojfqalmw'n tiqevnai ta; deinav” (6, 56, 6 e 8), dandosi da fare per muovere a compassione i lettori… cercando sempre di mettere atrocità davanti agli occhi.
Secondo lo storico, acheo e filoromano, questo mostrare abbracci di donne e chiome scarmigliate e denudamenti di seni è una scelta propagandistica,
ajgenne;" kai; gunaikw'de" [10], ignobile e donnesca. L’esposizione delle atrocità inquietanti sarebbe plausibile solo nella tragedia. Infatti lo squillo iniziale del primo stasimo dell'Antigone fa: "polla; ta; deina; koujde;n ajn qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333), molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell'uomo.

Stazio nella Tebaide racconta che la Paura diffonde smania di guerra, di morte e di strage nell’esercito dei Sette contro Tebe: “nil falsum trepidis” (VII, 131), nulla è falso per chi è spaventato, ed è quindi disposto a credere a tutto.
La paura dunque è funzionale al potere. Joachim Fest riporta queste parole di Hitler: “La gente ha bisogno della paura risanatrice. La gente vuole temere qualcosa, pretende che la si intimidisca e che ci sia qualcuno cui assoggettarsi tremando. Non avete forse constatato voi stessi, con i vostri occhi, che dopo lo scontro nei locali pubblici, sono proprio quelli che le hanno buscate i primi a chiedere di entrare nel partito? Cosa sono dunque queste chiacchiere sulla crudeltà, e perché vi scaldate tanto per un atto di violenza? E’ proprio quello che la massa vuole. La massa pretende qualcosa che le faccia orrore”[11].
Infatti: le torri gemelle hanno potenziato la cricca di Bush.

Giovanni ghiselli


[1] Del 160 a. C.
[2]  Intorno al 415 a. C.
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore,  p. 168.
 [4] Sono parole di un frammento (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.
[5] Re di Sparta dal 235 alla battaglia di Sellasia del 222. Fu sconfitto da Antigono
[6] Del 40 ca.
[7] D. Musti (a cura di) Polibio, Storie, vol. primo, p. 51
[8] Combattè la guerra, detta cleomenica appunto, contro Achei e Macedoni difensori della classe abbiente. Fu sconfitto a Sellasia nel 222 a. C.
[9] Andavano dal 272 al 219, anno della morte del re riformatore Cleomene III.
[10] Polibio, Storie, II, 56, 9.
[11] Hitler, Una biografia, p. 214.

giovedì 28 novembre 2013

L'assimilazione della donna alla terra e della terra alla donna

fotografia di Anna Ådén

Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni scrive: "L'assimilazione fra donna e solco arato, atto generatore e lavoro agricolo, è intuizione arcaica e molto diffusa"1 .
A sostegno di questa affermazione vengono citati tre testi .
Nel quarto stasimo dell’Edipo re di Sofocle, il Coro domanda: "pw'" poq j aiJ patrw'/aiv s j a[loke" fevrein, tavla", si'g j ejdunavqhsan ej" tosonde;", vv. 1211-1213, come mai i solchi paterni2 poterono, infelice, sopportarti fino a tanto in silenzio?
Nelle Trachinie (vv.30 e sgg.) Deianira lamenta l'assenteismo coniugale di Eracle il quale, come eroe, è impegnatissimo, ma come marito si comporta alla pari di un colono che, avendo preso un campo lontano, va a vederlo solo quando semina e miete, ossia un paio di volte all'anno3 .
Per quanto riguarda l'identificazione più precisa della donna con il solco, Eliade ricorda il Codice di Manu (IX,33) dove sta scritto: "La donna può essere considerata come un campo; il maschio come il seme", e un proverbio finlandese che fa: "Le ragazze hanno il campo nel loro corpo".

A queste testimonianze possono essere aggiunte altre, antiche e moderne, per mostrare quanto tale idea sia davvero diffusa nella mente umana, soprattutto in quella maschile.
Eschilo ne I sette a Tebe (vv.751 e sgg.) dice, riferendosi a Laio, che egli generò il destino per sé, Edipo parricida, il quale a sua volta osò seminare il sacro solco della madre dove nacque (matro;" aJgna;n-speivra" a[rouran, i{n j ejtravfh, 752-753), e la pazzia unì gli sposi dementi.
Euripide nelle Fenicie ricorda, attraverso Giocasta, il responso di Febo che prescrisse a Laio: "mh; spei're tevknwn a[loka daimovnwn biva/" (v. 18), non seminare il solco dei figli a dispetto degli dèi.

Oreste euripideo per attenuare la colpa del matricidio dice al nonno materno che il padre lo generò, mentre la madre non ha fatto che partorirlo: ella è stata solo il campo arato che ha preso il seme da un altro: "to; sperm j a[roura paralabous j a[llou pavra" (v. 553).
La stessa ragione addotta da Apollo nelle Eumenidi di Eschilo (vv. 658 e sgg.) per minimizzare il delitto del matricida.
Tra gli autori latini Lucrezio , forse sotto la scorta di Euripide4 interpreta la deum mater (II,659), come la divinizzazione della terra5.
Shakespeare paragona la giovanissima Marina, vergine e onesta, a della terra non dissodata. Parlano una mezzana e un ruffiano che vorrebbero trarre profitto dalla prostituzione della ragazza: “Crack the glass of her verginity, and make the rest malleable”, rompi il vetro della sua verginità e rendi il resto malleabile dice il ruffiano.
E la mezzana risponde: “An if she were a thornier piece of ground than she is, she shall be ploughed ” (Pericle principe di Tiro, IV, 4), anche se fosse un pezzo di terra più spinoso di quello che è, verrà arata.

Questa parentela stretta tra la femmina umana (o divina) e la terra, è messa in rilievo anche da non pochi autori moderni.
Kierkegaard nel Diario del seduttore indica e sottolinea la vicinanza della ragazza alla natura:"Perfino quel che in lei c'è di spirituale ha alcunché di vegetativo"6 .
Su questa linea si trova anche J. J. Bachofen, l'autore di Das Mutterrecht, che vede nel diritto materno quello fisico, e nel paterno il metafisico, in quanto "la donna è la terra stessa. La donna è il principio materiale, l'uomo è il principio spirituale... Platone nel Menesseno dice: "Non è la terra a imitare la donna, ma la donna a imitare la terra-"7.
Nel Menesseno Platone scrive (precisamente): "ouj ga;r gh' gunai'ka memivmhtai kuhvsei kai; gennhvsei ajlla; gunh; gh'n" (238a) infatti non la terra ha imitato nella gravidanza e nel parto la donna, ma la donna la terra 8. Nel Menone, del resto, il filosofo ateniese afferma che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh" ,81d), e, dunque, anche l'uomo è stretto parente della grande madre.

Questa teoria, espressa con benevolenza verso le femmine umane dal filosofo danese e in maniera ambivalente, non priva di contraddizioni da Bachofen, assume aspetto malevolo, decisamente antifemminista in Otto Weininger, l'autore di Sesso e carattere, morto, forse non a caso, suicida nel 1903, a soli ventitré anni. Secondo lo scrittore austriaco" le donne stanno incosciamente più vicine alla natura che non l'uomo. I fiori sono i loro fratelli"9, e, più avanti10 : "L'uomo è forma, la donna è materia... La materia vuole essere formata: perciò la donna pretende dall'uomo la delucidazione dei suoi pensieri confusi".

Si può continuare la rassegna, certo parziale e limitata, con un altro autore austriaco, uno dei massimi romanzieri del Novecento, Robert Musil che, nel romanzo L'uomo senza qualità, compie l'operazione inversa: assimila la terra alla donna. "Ulrich la trattenne e le mostrò il paesaggio: 'Mille e mille anni fa questo era un ghiacciaio. Anche la terra non è con tutta l'anima quello che momentaneamente finge di essere - egli spiegò - Questa creatura tondeggiante è di temperamento isterico. Oggi recita la parte della provvida madre borghese. A quei tempi invece era frigida e gelida come una ragazza maligna. E migliaia di anni prima si era comportata lascivamente, con foreste di felci arboree, paludi ardenti e animali diabolici'"11.

Concludo citando D'Annunzio: in Il Piacere Andrea Sperelli dichiara che "fra i mesi neutri" aprile e settembre preferisce il secondo in quanto "più feminino... E la terra? - aggiunge - Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E' un'impressione giusta! C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre!"12. Infine in Il Fuoco l'amante non più giovane viene assimilata, tra l'altro, a "un campo che è stato mietuto"13
 
Giovanni ghiselli


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1 P. 265.
2 Cioè già seminati dal padre, da Laio.
3 VV. 30 ss.
4Cfr. Baccanti, vv.275-276:" Dhmhvthr qeav-gh' d'& ejstivn, o[noma d& oJpovteron bouvlh/ kavlei", la dea Demetra, è la terra, chiamala con il nome che vuoi, e le Fenicie, vv.685-686: "Damavtar qeav,-pavntwn a[nassa, pantwn de; Ga' trofov"",  la dea Demetra, signora di tutti, la Terra di tutti nutrice.
5Per tutto l'episodio cfr. De rerum natura, II, 600-660.
6 P. 138.
7Trad. it. , antologica, Il potere femminile, pp.76-77)
8 “At the Thesmophoria they tried to persuade the Earth to imitate them” (Dodds, The ancient concept of progress, p. 147), alle Tesmoforie le donne cercavano di persuadere la Terra a imitare loro.
9 P. 293
10 P. 296.
11 P. 279.
12 P. 169
13 P. 306.

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