mercoledì 13 novembre 2013

Le figure femminili nell’epica e nella tragedia greca

Affresco raffigurante il Sacrificio di Ifigenia
Casa del Poeta Tragico, Pompei

I Comuni del Distretto di San Lazzaro (Culturale e Socio-Sanitario) hanno aderito a “365 giorni no”, la campagna contro la violenza alle donne promossa dal Comune di Torino e condivisa da ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani, impegnandosi a promuovere azioni ed iniziative volte a prevenire ogni forma di violenza contro le donne.
Questa rassegna nasce quindi con l’intento di diffondere e sostenere una cultura dei diritti fondamentali e della non discriminazione di genere per mantenere viva l’attenzione sul tema della violenza alle donne anche oltre la giornata del 25 novembre.

CALENDARIO APPUNTAMENTI
Martedì 12 , 19 e 26 novembre ore 21.00

Venerdì 22 novembre ore 20.30
Mediateca di San Lazzaro - spazio reading - via Caselle, 22
Le figure femminili nell’epica e nella tragedia greca
Incontro condotto dal Prof. Giovanni Ghiselli
Giovanni Ghiselli propone un percorso nel tempo della condizione femminile,
presentando alcune delle figure femminili più note dell’epica e della tragedia greca

La figura di Ifigenia

Agamennone di Eschilo del 458.
Prima parte: Prologo e Parodo

Prologo 1-39
La scena è ad Argo, nel palazzo degli Atridi
C’è una guardia che recita il prologo. Aspetta un segnale luminoso che annunci la vittoria degli Achei. Glielo ha ordinato lo speranzoso cuore dal maschio volere (ajndrovboulon ejlpivzon kevar, 11) di donna, la regina Clitennestra.
Ma, dice il fuvlax,  la notte invece di Sonno mi sta accanto Paura (Fovbo~ ga;r ajnq j   {Ypnou parastatei `) (v. 14).
 Il palazzo non è più governato per il meglio come prima.
Finalmente la guardia vede l’atteso segnale luminoso.
 L’uomo esulta e preannuncia danze.
Ma non può dire tutto: “ta; d’a[lla sigw`: bou`~ ejpi glwvssh/ mevga~-bevbhken” (36-37)[1].
E continua:
“La casa stessa potrebbe parlare, se prendesse voce”.

“Io parlo volentieri a quelli che sanno, e per chi non sa, dimentico” (vv. 36-38) conclude la scolta.
In effetti chi ha la testa infarcita di luoghi comuni è refrattario alla verità.
Platone nel Fedro fa dire a Socrate che chi non conosce la verità presenterà un’arte dei discorsi ridicola, poiché è andato a caccia di opinioni (262C).

Parodos (40-257)
Il coro è composto di 12 vecchi argivi. Ricordano che i due Atridi erano partiti dieci anni prima a capo di una flotta di 1000 navi.
Zeus xevnio~ (61), protettore degli ospiti, mandò gli Atridi contro Paride poluavnoro~ ajmfi; gunaikov~ (62) per una donna dai molti uomini.
I vecchi non sono partiti per via dell’età: l’estrema vecchiezza, quando ormai il fogliame si dissecca, cammina su vie dai tre piedi ( trivpoda~ me;n ojdou;~ steivcei[2], 79-80) e vaga, per niente più forte di un bimbo, come un sogno che appare di giorno.
Il Coro chiede a Clitennestra probabilmente entrata in scena: “tiv crevo~ ; tiv nevon[3]; (85) che cosa c’è? Che cosa di nuovo? Guariscimi da questo affanno.
Poi c’è la rievocazione dell’adunata degli Achei in Aulide.
Ai due fratelli condottieri apparvero due aquile da destra, un dexio;~ o[rni~, un fausto presagio. Gli uccelli regali s fecero vedere mentre mangiavano una lepre gravida di prole.
 Quindi il ritornello: intona il lugubre canto, ma il bene vinca ai[linon ai[linon eijpev, to; d j eu\ nikavtw, (121).

Calcante interpreta il prodigio (126-155)
 Le due aquile una nera, una bianca[4] (115), simboleggiano i due Atridi secondo  il vate dell’esercito il quale disse che gli Achei avrebbero conquistato Troia e il Destino l’avrebbe distrutta con violenza.

Ma c’è il pericolo che qualche invidia da parte degli dèi (ti~ a[ga qeovqen, 133) ottenebri knefavsh/ la vittoria.
Infatti Artemide casta  (  [Artemi~ aJgnav) è adirata con i cani alati del padre (ejpivfqovno~ ptanoi`sin kusiv patrov~ 135-136) e odia il pasto delle aquile (stugei` de; dei`pnon aijetw`n, 138).

Artemide aJ kalav (140), la bella cui piacciono i cuccioli dei giovani leoni e si compiace di tutti i piccoli  filomavstoi~ (142) , che amano le mammelle,  acconsente che si compia questa apparizione favorevole ma anche biasimevole.
Il Coro prega che Artemide non trattenga  i Danai con vènti contrari e non solleciti un altro sacrificio, inusuale e senza banchetto (qusivan eJtevran a[nomon tin j a[daiton 150) un sacrificio interno alla razza, artefice di discordie, un sacrificio che non teme il marito. Insomma un sacrificio umano, quello di Ifigenia, che provocherà Clitennestra ad ammazzare Agamennone.
Infatti rimarrebbe la spaventosa ira (fobera; mh`ni~) pronta a risollevarsi che regge la casa, ingannevole, memore che vendica i figli  (154-155).

Inno a Zeus (160-183)
Il Coro poi si rivolge a Zeus chiunque egli sia (v. 160).
Niente si può paragonare a Zeus, tranne Zeus.

Prima Urano era grande e rigurgitava di tracotanza guerriera (pammavcw/ qravsei bruvwn, 169), e non si dirà nemmeno che una volta c’è stato; e quello che venne dopo, Crono, se ne va dopo avere trovato chi lo ha vinto tre volte.
Chi eleva inni a Zeus, otterrà il senno.
Zeus ha posto la legge del tw`/ pavqei mavqo~ (177)[5].
Goccia invece del sonno[6] davanti al cuore la pena che ricorda il male  (stavzei  d’ ajnq j u[pnou pro; kardiva~-mnhsiphvmwn povno~ , 179-180)  e anche a chi non vuole giunge l’essere saggio.
Arriva con violenza la grazia degli dèi (182).

Il popoli degli Achei era gravato da una impossibilità di navigare affamatrice (ajploiva/ kenaggei`[7], 188).
Erano fermi sulle rive di Aulide[8] sullo stretto dell’Euripo[9] che rimbomba per opposte correnti.
Soffi forieri di ozio cattivo (pnoai; kakovscoloi , 192), affamatori, di difficile ormeggio,  venivano dallo Strimone[10]   e rendevano lunghissimo il tempo, fuorviando i guerrieri, sperperando navi e cordami.
Il vate rivelò che era volontà di Artemide.
E il capo maggiore ( a[nax d j oJ prevsbu~, 205) disse queste parole:
“Sciagura pesante non obbedire,
e pure pesante se farò a pezzi la figlia
vanto della casa ( barei`a d j eij tevknon daΐxw, dovmwn a[galma, 207),
contaminando (miaivnwn, 209) le mani paterne vicino all’altare con il sangue della vergine sgozzata.
Ma non posso abbandonare le navi
Dunque è qevmi~, è lecito bramare il sacrificio.
Quindi si mise sul collo il giogo della necessità (ajnavgka~ e[du levpadnon, 218) spirando un rivolgimento mentale empio (dussebh`), impuro (a[nagnon), sacrilego (ajniveron)[11].
E osò farsi sacrificatore della figlia (e[tla d ‘ou\n quth;r genevsqai qugatrov~, 224.-225) aiuto militare di una guerra[12] che puniva ratto di donna (225-226) e rito preliminare della partenza.
Le preghiere, gli appelli al padre, e l’età della vergine in nessun conto tennero i condottieri[13] avidi di guerra (filovmacoi brabh`~, 230)
Il padre ordinò ai ministri di sollevarla sull’altare, divkan cimaivra~ (232) come una capra,  e   che le impedissero di gridare maledizioni contro la casa. Le fece mettere una specie di museruola con un bavaglio (una custodia della bocca dalla bella prua, vv. 235-236).
Ifigenia non parlava[14], ma versando a terra i panni colorati di croco, colpiva ciascuno dei sacrificatori con una dardo che muoveva dagli occhi e faceva compassione , e, spiccando come nei dipinti (prevpousa q j wJ~ ejn grafai`~, 242), voleva chiamarli per nome, come quando con voce pura da vergine cantava il peana di buon augurio alla terza libagione del padre.
Il resto non lo vidi e non lo dico, ma le di Calcante non rimasero senza effetto (tevcnai de; Kavlcanto~ oujk a[krantoi, v. 249).
Si ricordi pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" ( Prometeo incatenato, v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo
Segue una massima che ribadisce il tw`/ pavqei mavqo~:
Divka de; toi`~ me;n paqou`sin maqei`n ejpirrevpei” (250) Giustizia si inclina verso quelli che hanno sofferto perché comprendano.
Ma il futuro lo puoi conoscere solo dopo che è avvenuto.
Segue un augurio di lieto fine.
Qui si conclude la Parodo.
Tornerò sull’Agamennone  di Eschilo più avanti per mostrare la nemesi che colpisce il padre sacrificatore della figlia.
Prima, però, vedremo Ifigenia in un’altra cara tragedia.

giovanni ghiselli

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[1] Cfr. The rest is silence di Amleto V, 2.
[2] Richiama l’enigma della Sfinge.
[3] Nella tragedia il nevon non è quasi mai buono, è una parola generalmente male ominosa.
[4] Probabilmente significa la minore forza di  Menelao rappresentato spesso malevolmente in quanto spartano.
[5] Il concetto diventerà topico.. Cfr., per esempio, Cfr. il Creso di Erodotro pavqhmata maqhvmata (I, 207)
[6] Il tiranno non dorme. Cfr., p. e. Edipo e Macbeth.
[7] Da kenov~ “vuoto”, e a[ggo~, “vaso”
[8] Si trova sulla costa della Beozia, di fronte a Calcide dell’Eubea. Lucano la ricorda come iniqua classibus, sfavorevole alle navi (Pharsalia, V, 236).
[9] Stretto tra l’Eubea e la Beozia
[10] Fiume della Tracia.
[11] Cfr.  Lucrezio: “Tantum religio potuit suadere malorum” (De rerum natura, I,  101)
[12] Cfr exitus ut classi felix faustusque daretur, De rerum natura I, 100)
[13] Cfr. Lucrezio: “Aulide quo pacto Triviai virginia aram / Ifianassai turparunt sanguine foede / Ductores Danaum delecti, prima virorum” (I, 83-85). Vedremo che nell’Ifigenia in Aulide di Euripide invece la ragazza parla e si reca al sacrificio con le sue gambe
[14] Cfr. Lucrezio “muta metu terram genibus summissa petebat” (I, 92)

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