sabato 30 novembre 2013

Fides e Perfidia. L’odiosa sapienza.




Fides è un valore di base della civiltà latina, un valore politico, giuridico e pure etico. Cicerone nel De officiis [1] ne  dà una definizione "Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas" (I, 23), orbene la fides  è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Fides  è il rispetto del foedus.
 "Foedus  e fides  sono legati etimologicamente: foedus  è "l'accordo", il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides "[2].
La fides è per i Romani un valore forte e vincente: Tito Livio[3] racconta che i Falisci, nel 394, in guerra con i Romani guidati da  Furio Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Falerii a lui affidati. "Fides Romana, iustitia imperatoris in foro et curia celebrantur" (V, 27, 1), nel foro e nel senato (di Falerii) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma, in senato, per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio sotto il governo romano che con le loro leggi, e che con l'esito di quella guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano: "vos fidem in bello quam praesentem victoriam maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus" (V, 28, 13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immediata; noi, sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria.
Nel buon tempo antico dunque l'osservanza della fides pagava.
Non è sentito in maniera altrettanto forte e cavalleresca questo valore della lealtà da parte dei Greci. Quale testimonianza di questa affermazione sulla scarsa fides  dei Greci (Danaumque… insidiae[4]) riferisco un motto di Lisandro il comandante spartano che concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre: "o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).
Secondo Teognide[5]  il dilagare della perfidia tra i Greci è associato al decadere dell’aristocrazia dei proprietari terrieri.
Il poeta elegiaco denuncia la malafede come caratteristica dei kakoiv, gli ignobili, i vili, i quali: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte"-ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (vv.59-60), Si ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza conoscere i segni distintivi del bene e del male.
Questi kakoiv non conoscono un altro valore forte: quello della gratitudine: "E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono("oiJ d  j ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito" (vv. 105-112) .
 Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione su Teognide di Megara  simpatizzando con le teorie reazionarie del poeta. Lo colpì fortemente il biasimo espresso per l'ingratitudine dell'animo plebeo: "Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai"[6].
Poi, nel 1886: “Noi veritieri”- è questo l’appellativo che si davano i nobili dell’antica Grecia”[7].
Don Giovanni per rassicurare Zerlina che teme di essere ingannata (“Io so che raro / colle donne voi altri cavalieri / siete onesti e sinceri”), le risponde: “E’ un’impostura / della gente plebea. La nobiltà/ha dipinta negli occhi l’onestà”[8].

Al tempo della repubblica romana la slealtà veniva attribuita agli schiavi. Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini[9] al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la santa protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.

La perfidia plus quam punica[10] di Annibale e quella italica di Machiavelli avrebbero comunque avuto dei maestri negli Elleni. 
La slealtà di Annibale sarebbe derivata da Sileno[11] uno dei suoi maestri greci: “Il più odioso dei vitia rinfacciati ad  Annibale, la sua perfidia, la slealtà maligna e senza scrupoli di cui il Cartaginese si era infinite volte macchiato, era figlia, in effetti, dell’educazione greca e non dell’indole punica[12]”.
I Greci conservano tale pessima reputazione negli esametri di Giovenale . Il corrucciato  poeta[13]   nella terza satira mette in rilievo la tendenza dei Greci a fare scena: “Natio comoeda est. Rides: maiore cachinno/concutitur; flet , si lacrimas conspexit amici,/nec dolet… si dixeris ‘aestuo’, sudat (vv.100-102 e v. 103), è una razza di commedianti. Tu ridi: quello è scosso da una risata più grossa; piange, se ha visto le lacrime dell’amico…se avrai detto ‘ho caldo’, suda. 
Qualche tempo prima  Tacito segnala la perversione della fides tra i Germani i quali, dopo avere perso tutto ai dadi (alea), con un ultimo lancio mettono in gioco la libertà personale, quindi, se perdono, mantengono la parola data e subiscono la schiavitù. Ebbene in questo caso ciò che loro chiamano fides è una forma di ostinazione in un vizio riprovevole: “ea est in re prava pervicacia”(Germania, 24).

Veniamo a Machiavelli discepolo dei Greci, in particolare di Plutarco, sia pure non letto nell’originale. Del resto anche Shakespeare deve non poco a Plutarco che pure leggeva tradotto.
Nel XVIII capitolo di Il Principe, il Fiorentino ricorda "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".
“Di Plutarco nel Medioevo si preferivano i Moralia e fu solo l’arrivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, a rilanciare la lettura delle Vite  parallele, che divennero da allora in poi il suo principale testo di riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne acquistò una copia in traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse ispirazione per la sua intera opera (per inciso le famosissime immagini della “golpe” e del “lione” derivano, particolare, dalla vita di Lisandro di Plutarco), oppure a Montaigne e a Shakespeare, che se ne servono abbondantemente”[14].

Machiavelli poi ha avuto tanti altri discepoli
Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[15]. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture, / Tell them that God bids us do good for evil: / And thus i clothe my naked villainy / With odd old ends stol’n forth of Holy Writ, / And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro,e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere. Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini, la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita[16]: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".
Ora io credo che sapere ingannare sia “odiosa sapienza”[17].
Sicché non voterò i politici che abbiano dato prova di perfidia plus quam punica, cioè italica. Il comportamento di alcuni di loro nell’affare Cancellieri esemplarmente negativo, è stato emblematico, negativamente emblematico. 


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[1] Del 44 a. C.  
[2] G. B. Conte, Scriptorium Classicum  2, p. 81.
[3]  59 a. C.-17 d. C.
[4] Cfr. Eneide, 2, vv. 309-310: “ Tum vero manifesta fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è evidente la lealtà e si scoprono gli inganni dei Danai.  E’ il momento della scoperta dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte aveva cercato di mettere in guardia i Troiani gridando: “equo ne credite, Teucri./Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis” (Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i Danai anche quando portano doni. 
[5] Sotto il nome di Teognide, vissuto nel VI , ci è giunta la Silloge teognidea, un corpus  di 1389 versi in distici elegiaci non tutti dell'autore.
[6] Dissertazione  su Teognide di Megara, p. 167.
[7] Di là dal bene e dal male (Che cosa è aristocratico), p. 186.
[8] Don Giovanni, Mozart-Da Ponte, I, 8.
[9] Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.
[10] Tito Livio, Storie,  XXI, 4.
[11] “Sileno di Kalé Akté. Sileno, che feci venire io stesso  dalla Sicilia perché scrivesse le mie imprese, era sottile e astuto, insinuante e indiretto… Da buon Siceliota, egli era più pratico dello spartano, e soprattutto era di lui assai più portato all’uso sistematico della metis, quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” (G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32).
[12] G. Brizzi, Scipione e Annibale, p. 21. Laterza, Roma-Bari 2007.
[13] Margherite Yourcenar attribuisce questo pensiero all’imperatore Adriano: “ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l’Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostroi padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l’ipocrisia” (Memorie di Adriano, p. 217)
[14] Remo Bodei, Immaginare altre vite, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 100.
[15] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[16]F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana , 2,  p. 107
[17] Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38), e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv aijpeinaiv, 107-108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

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