lunedì 27 febbraio 2017

Filosofia e Poesia. Lezioni in Mediateca IX

Arnold Böcklin, Ulisse e Calipso


Fuvsi~ è imparentata etimologicamente con il latino fuit e futurus. Dunque la fuvsi~ è ciò che è da sempre e sarà per sempre.
Nella religione ebraico-cristiana c’è la sdivinizzazione della fuvsi~. “Se esiste un Dio altro dal mondo, la natura non è per sé divina: a partire da qui, viene disanimata, ridotta a semplice materia…la natura era considerata sufficiente di per sé a esistere, non dipendeva da altro da sé e meno che mai aveva bisogno d’essere giustificata: la natura esiste da sempre e per sempre nonostante le sue innumerevoli trasformazioni La fuvsi~, quand’anche ridotta a materia, riposa ugualmente e per intero in sé. Nella Bibbia mondo e natura si configurano in modo totalmente diverso dai Greci. La natura non solo non è divina, ma è soprattutto insufficiente a se stessa, incapace di esistere per sé e mai sarebbe esistita se Dio non avesse creato il mondo, se non lo avesse posto in essere traendolo dal nulla”[1].
Natoli prosegue affermando che il dio biblico è forte poiché si sottrae ad ogni misura. “La forza del dio biblico sta proprio nel suo sottrarsi, nel suo sfuggire, in breve nell’avere voce e non figura, nel chiamare da lontano o nel sussurrare all’intimo del cuore; è presente “nel mormorio di un vento leggero ( I Re 19, 12) o, verosimilmente, nemmeno in quello”[2].
Una cosa del genere aveva detto Auerbach.
“Inopinato ed enigmatico egli arriva sulla scena da altezze o profondità sconosciute, e grida: "Abramo!... Si pensi, per ben convincersi della differenza, alla visita d'Ermete alla grotta di Calipso, dove l'incarico, il viaggio, l'arrivo e il ricevimento del visitatore, la condizione e l'occupazione della visita sono ampiamente narrati in molti versi… "[3].
Ma torniamo a Natoli: “Tommaso d’Aquino-e certo non è stato il solo-nel momento in cui fa sua l’eredità greca, e nello specifico quella aristotelica, appone innanzi alla fuvsi~ dei greci un segno negativo. Un’operazione semplicissima, ma decisiva che annulla l’autosufficienza del mondo, ne dichiara esplicitamente l’incapacità a essere, l’infondatezza ontologica…L’esito del cristianesimo è l’acosmismo. Dio, nonostante la sua infinità, aveva disegnato un cosmo a misura d’uomo…Dio garantiva l’ordine del cosmo e si presentava come normativo per l’uomo. Oggi abitiamo in uno spazio acosmico-senza più alcun Dio-e non possiamo altrimenti misurarlo se non muovendoci, passo passo, in esso. L’infinito in cui siamo allocati è la cifra della nostra finitezza.”[4].

Lovgo~ e fuvsi~ del resto non sono estranei alla poesia ispirata dalle Muse, anche se non sempre concordano. Nel Filottete di Sofocle il lovgo~ invadente di Odisseo, il sofisthv~ che ha progettato il sovfisma, lo stratagemma per catturare l’uomo abbandonato nella solitudine di Lemno, non può indurre la fuvsi~ schietta di Neottolemo a essere complice del tranello. Il figlio di Achille rifiuta la propria complicità dicendo che tutto diventa sgradevole quando un uomo, lasciata la propria natura (th;n auJtou' fuvsin-o{tan lipwvn), fa le cose che non gli si addicono poiché non gli somigliano (dra'/ ta; mh; proseikovta, vv. 902-903). 
Insomma:  Diventa dunque quello che sei![5]
Alla fine del Filottete il lovgo~ del linguacciuto Odisseo che vuole essere pratico e da un lato non è etico e del resto non è nemmeno capace di risolvere la difficile situazione, viene smontato da Sofocle il quale smonta anche il lovgo~ di Edipo: la sua smontatura del lovgo~ è sistematica.
Nella Medea di Euripide, la fuvsi~ della donna prevale sul lovgo~ pragmatico di Giasone tutto inteso all’utile.
Nell’Odissea il protagonista eponimo oltre che poluvtropo~ (I, 1), capace di volgersi da tante parti è polumhvcano~ (I, 205), pieno di risorse. Ma, come ha scritto Remo Bodei “in origine il termine mechané significa “astuzia”, “inganno”, “artificio”[6]. Insomma trucco.



fine



[1] Natoli, Op. cit., p. 120.
[2] Op. cit., p. 123.
[3]E. Auerbach, Mimesis , pp. 8-9.
[4] Op. cit., p. 124 e p. 128.
[5] gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II  v. 72).

[6] Remo Bodei, “il sole 24 ore”, Domenica 11 settembre 2011, p. 33.

venerdì 24 febbraio 2017

Filosofia e Poesia. Lezioni in Mediateca VIII

Esiodo


II capitolo pagine 19-25
Poesia e filosofia. Esiodo (VII sec. a. C.)

Esiodo è orientato in senso etico religioso, e su questa linea procederanno Solone e i poeti tragici. Il valore del lavoro e del sudore. Esiodo è attento alla natura come oggetto della fatica dell’uomo. Elogi della fatica.
Il lavoro agricolo e la navigazione.  Il diritto del più forte è naturale per gli animali, ingiusto per gli uomini. L’eris (contesa) cattiva e quella buona
A Qevmi~ si aggiunge Divkh: questa contiene una premessa di ijsonomiva, uguaglianza davanti alla legge. 
 Il poeta di Ascra chiede aiuto alle Muse, mentre la filosofia ionica si considera debitrice del lovgo~ che raccoglie le impressioni provenienti dalla fuvsi~.
La fuvsi~ dei Greci e quella della Bibbia ebraica. Tommaso d’Aquino pone un segno negativo davanti alla natura dei Greci. 
Fuvsi~, fui e futurus. La fuvsi~ dei Greci c’è da sempre e sempre ci sarà. La religione ebraico-cristiana separa Dio dalla natura. Jahvè Inopinato ed enigmatico, grida: “Abramo!”. Lovgo~ e fuvsi~, i pilastri della filosofia, non sono estranei alla poesia debitrice delle Muse.
Nel Filottete di Sofocle sono presenti entrambi., e, anzi, contrastano, incarnati da Odisseo (il lovgo~  raziocinante, troppo e non bene) e da Neottolemo che ha ereditato la fuvsi~  istintiva e sana di Achille. Sofocle smonta il lovgo~ di Odisseo.
Nella civiltà dei Greci “Il pensiero di Esiodo[1] era orientato in senso etico religioso e nella madrepatria questo atteggiamento spirituale durò ancora a lungo”[2].  I rappresentanti massimi di questo pensiero etico- religioso sono Solone, Eschilo, Sofocle, e pure Euripide sebbene quest’ultimo abbia avuto una cattiva fama di empietà[3] e di combutta antitragica con Socrate [4].
Li vedremo più avanti.

In Esiodo la natura è oggetto del lavoro duro dell’uomo per bene: “Davanti alla virtù gli dèi hanno messo il sudore ” (Opere, 280).
La mancanza di pianure, le montagne con le valli anguste, le contrade segregate, costringono i Greci  ad una lotta continua con il suolo per strappargli l'estremo prodotto possibile.
La fatica non è un male, anzi è spesso associata alla virtù.
 Anche in seguito
Nei Memorabili[5] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
Così Cleante stoico (III sec. A. C.), in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, che la fatica è un bene, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”   

Il lavoro è un dovere e un diritto.
Bisogna dirlo forte adesso che “il lavoro diventa sempre più precario, perde la natura di diritto e si trasforma in una specie di benevola concessione”[6]. I padroni a chi protesta possono dire: “ringrazia che ti faccio lavorare ancora”. 
Oggi il lavoro per i giovani è quasi un’utopia.

La navigazione è più recente del lavoro agricolo e dell'allevamento. Esiodo anzi consiglia dei limiti per la nautilivh che deve essere praticata solo nella tarda estate e al principio dell'autunno  (  [Erga, 618-694). La natura viene comunque osservata con attenzione e precisione dal poeta beota che verrà ripreso da Virgilio.
 In primavera, quando appare la foglia del fico sulla punta del ramo, tanto grande quanto l'orma che lascia una cornacchia (679-680):" o{son t j ejpiba'sa korwvnh- i[cno" ejpoivhsen", allora il mare è navigabile (tovte d j a[mbatov" ejsti qavlassa"681), eppure Esiodo non consiglia di affrontarlo, siccome il tempo possibile è un  momento ajrpaktov~ , fugace (684), rapinoso, ed è tremendo morire tra le onde: deino;n d j ejsti; qanei'n meta; kuvmasin", (v. 687)[7]
La Giustizia in Omero era ancora il diritto (Qevmiς) di una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare da una classe superiore il cui predominio deriva da un'investitura divina.
Qevmiς nell’Iliade è una dea (qea; Qevmi la chiama Giunone, XV, 93)
Ma già nel VII secolo,  cominciano gli elogi di una giustizia nuova ( la dike appunto), tale che comprende l'idea dell'uguaglianza. Esiodo per primo dà voce a questa esigenza. Egli nel poema più recente (Opere , vv. 202 e sgg.) ne fa l'apologia raccontando la favola dello sparviero e dell'usignolo. La legge del più forte che annienta il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene santificata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike  imperversano peste, fame e sterilità. C'è un invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l'ha progettato (Opere , vv.265-266).
“La parola greca per “legge” è inizialmente themis (dal verbo tivqhmi porre, che trova un parallelo nel tedesco setzen, il quale dà luogo a Gesetz, legge, che, a sua volta, riprende il latino ius positivum). Themis indica, pertanto, una legge imposta: dagli dei, dalla tradizione o, comunque, da poteri indiscutibili e imperscrutabili. Come sosteneva Cicerone a proposito di quelle norme che derivano dal mos maiorum, dai costumi degli antenati, bisogna fare così perché è così, senza spiegare il perché (etsi sine ratione reddita).
 La parola nomos, che ha la stessa radice di nomisma, moneta dal valore convenzionale, designa invece una legge non naturale, ma artificiale, in quanto fatta valere dagli uomini, prodotta collettivamente dalla polis (Ostwald). L’autonomia è connessa alla nascita della civiltà della colpa, nel senso che ciascuno idealmente si dà da sé, per convinzione e non per imposizione, la propria legge e si assume le proprie responsabilità”[8].
Infatti Antigone e Creonte nella tragedia di Sofocle attribuiscono significati differenti alla parola novmo~.
Una delle caratteristiche dell'affabulazione sofoclea è quella dell'ambiguità. "Può trattarsi di un'ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama homōnymiva (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua[9]. Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione tragica di un mondo in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune[10]. Così, per Antigone, novmos designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novvvmos [11]. Per la fanciulla il termine significa  "norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal capo dello Stato". E in realtà il campo semantico di novmos è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi. L'ambiguità traduce allora la tensione fra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le parole scambiate sullo spazio  scenico, anziché stabilire la comunicazione e l'accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell'universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un'altra unilateralità"[12].
 
 Esiodo distingue una Eris (contesa) cattiva  da un’altra buona (Opere, 14 e sgg.):  questa sta alla base del progresso umano e sveglia al lavoro anche l'ozioso: grazie a lei il vasaio gareggia con il vasaio, il mendico con il mendico, e l'aedo con l'aedo (v. 26).
Quella cattiva fa crescere la guerra.

La giustizia esiodea è una forza solo in parte umana e per molti aspetti sovrannaturale, ma essa già contiene una premessa di isonomìa (uguaglianza davanti alla legge) e moralità, anche se la  piena scoperta e valorizzazione del cosmo morale avviene con Socrate, assassinato da un tribunale ateniese nel 399.

Esiodo chiede aiuto alle Muse. La filosofia ionica si appella al lovgo~ che indaga la fuvsi~.
All’inizio della Teogonia (v. 1) Esiodo afferma che il suo canto parte dalle Muse Eliconie (della Beozia). Queste lo istruirono mentre pascolava gli agnelli, biasimarono gli altri pastori e dichiararono:” Noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma anche parole veraci” (vv. 27-28).
Nel primo verso delle Opere e giorni le Muse sono chiamate Pierie, come del resto in Teogonia 52. Le Muse sono figlie di Zeus e della Memoria.
Omero nel primo verso dell’Iliade aveva invocato una qeav perché gli cantasse l’ira di Achille “Mh'nin aeide, qeav, Phlhöavdew  jAcilh'oς ” 
 “Senonchè in Ionia…non si andò debitori alla rivelazione delle Muse, ma al proprio logos, che-tale è il significato originario della parola-raccoglieva le singole impressioni esterne per rielaborarle, combinandole insieme di propria iniziativa. Il fenomeno che colpiva maggiormente il logos era la crescita, il fuevsqai delle piante, il processo che da un minuscolo seme, secondo un ordine fisso e con uno svolgimento ininterrotto, portava al pieno sviluppo dell’essere, alla physisLogos e physis sono i concetti fondamentali del pensiero scientifico dei Greci. Sono anche i pilastri su cui poggia la loro filosofia”[13]lovgoς cfr levgw “raccolgo”.



continua



[1] Prima metà del VII secolo.
[2] M. Pohlenz,  La Stoa,1, p. 2.
[3] “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta questo morente a servirti? Morì tra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva oramai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva il mito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con avide mani tutti i giardini della musica, anche così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo abbandonò te” (Nietzsche, La nascita della tragedia , pp. 74-75). 
[4] Nietzsche ravvisa una connessione tra Euripide e Socrate, una collaborazione cui già alludevano gli antichi: “Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì nell’antichità in quel tempo; e l’espressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate aiutava Euripide a poetare” (La nascita della tragedia , p. 89.) 
[5] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[6] G. Colombo, Sulle regole, p. 124.
[7] Anacarsi lo Scita dopo avere appreso che lo spessore della nave era di quattro dita, disse che i passeggeri distavano quattro dita dalla morte (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 8). Su Anacarsi torneremo 
[8] Remo Bodei, Ira La passione furente, pp. 21-22.
[9] "I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi": Aristotele, Confutazione dei sofisti I, 165a 11.
[10] Cfr. Euripide, Fenicie, 409 sgg.:" Se la stessa cosa fosse ugualmente per tutti bella e saggia, gli umani non conoscerebbero la controversia delle contese. Ma per i mortali non esiste nulla di simile o di uguale, salvo nelle parole; la realtà è tutta diversa".
[11] La stessa ambiguità appare negli altri termini che occupano un posto di rilievo nella trama dell'opera: divkh, fivlo"  e filiva, kevrdo" , timhv, ojrghv, deinov" .
[12]J. P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell'antica Grecia , p. 89.
[13] M. Pohlenz,  La Stoa,1, p. 3

giovedì 23 febbraio 2017

Twitter, CCLXXIV

Stefano Fassina
foto di Salvatore Contino
La crisi politica e umana


Questa economia e questa "cultura" per sopravvivere necessitano di un ceto di schiavi, come le antiche. La differenza è che gli schiavi di oggi stanno peggio

Il sapere non è sapienza. La sapienza sa di vita, sa di uomo e, ancora più, sa di donna.
Le menti appuntite, i dottori sottili possiedono qualche sapere ma non hanno sapienza.

Il prototipo del ruffiano televisivo: se un ospite ride, lui si sganascia dalle risate, se vede uno commuoversi, piange, se uno dice "ho caldo", lui suda.

Ai miti vigenti della sopraffazione e della prepotenza dovrebbero sostituirsi, con l'educazione, quelli della giustizia e dell'eguaglianza.

Non basta la calva assennatezza di Fassino a salvare il PD: fa disperare meno il villoso mangiafuoco che si è candidato alla segreteria.
Giulio Cesare preferiva gli uomini grassi e con capelli curati (cfr. Plutarco e Shakespeare). A me invece piace la magrezza ascetica e la testa non intronata di Fassina. Su Emiliano, vedremo.

Renzi e la Boschi, i due chiacchieroni, non hanno capito quello che Annibale aveva compreso già prima di Zama: che la Fortuna ( Tuvch) è mutevole, capricciosa e gioca con noi come se trattasse dei bambini infanti. Costoro devono tornare all’asilo.

Cercheranno di spaventarci, come negli anni di piombo, poiché chi è impaurito è incline a credere e obbedire: nihil falsum trepidis (Stazio, Tebaide VII, 131).

Matthaeus (Salvini) Arabum metum iniciendum ratus est.

Preferisco l'onesta, oscura diligenza di Fassina alla strombazzata negligenza dal fosco bagliore nato dall’incendio distruttivo di Renzi e dei suoi seguaci sonoramente trombati.




giovanni ghiselli 23 febbraio 2017

giovedì 16 febbraio 2017

Carlo Izzo, "Storia della letteratura inglese"


Carlo Izzo, Storia della letteratura inglese, Nuova accademia, Milano, 1961
Ampiezza della gamma. Varia umanità.


La corda del riso in A midsummer - night’s dream e nel Falstaff delle due parti dello Henry IV o Le allegre comari di Windsor.
Nell’Enrico IV del 1598 Falstaff fa un autoritratto (I parte, III, 3): Thou seest I have more flesh than another man, and therefore more frailty - fragilitas”, vedi nene che io ho più carne indosso che qualunque altro uomo e quindi più debolezza.
In questa stessa prima parte (V, 4) Falstaff si finge morto Il principe lo compiange e dice di volerlo imbalsamare. Ma lui si alza e dice di non avere simulato la morte ma salvato la vita. La migliore qualità del valore è la discrezione The better part of valor - valēre -  is discretion e con questa ho salvato la pelle
Cfr. Guicciardini: E’ grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per così dire, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione” (Ricordi, 6)
 Quindi pugnala il cadavere di un nemico morto e si vanta di averlo ucciso lui (cfr. Pirgopolinice il miles gloriosus di Plauto)
Nella seconda parte (II, 4, 309 - 310) il principe Henry, suo compagno di bagordi, lo apostrofa facendone un ritratto epicamente grandioso: “Thou globe - globus, palla -  of sinful continents”, tu globo di continenti peccaminosi.
Nell’Enrico V che per il suo carattere epico non poteva tollerare la figura comica di Falstaff troviamo la morte del crapulone. Il racconto della dipartita è fatto dall’ostessa, la moglie di Pistol: “ha fatto una bella morte, se n’è andato come un bambino in veste bianca. Brancicava le lenzuola e aveva il naso sottile come una piuma his nose was as a sharp as a pen, e parlottava di prati verdi. Gridò Dio tre o quattro volte. Mi pregò di mettergli altre coperte sui piedi. I put my hand into the bed and felt them, and they were as cold as any stone - stiva pietruzza; then I felt to his knees, and they were as cold as any stone, and so upward and upward and all was as cold as any stone” (Enrico V, II, 3, 10 - 28)
“Le ultime parole, velatamente lubriche, e che possono suggerire una non improbabile precedente intimità fra la donna e il morente, sono quanto di più concreto si sia mai scritto in rapporto con la morte. Nessuno è mai riuscito a mettere in parole altrettanto semplici, e tuttavia dense di atterrito sgomento, il senso tattile di un corpo nel punto in cui è invaso dall’ultimo gelo”[1].

Progressivo accumularsi di sconsolato disgusto di fronte alle vicende umane.
Cfr. L’epilogo della Tempesta con le ultime parole di Prospero: my ending is despair, unless I be reliev’d by prayer which pierces -  pertundo – pertusūm - foro -  so, that it assaults - ad e salio - saltum - saltus -  mercy itself, and free - liberi -  also children - allied to friend -  all faults. As you from crimes - crimen - accusa - krivnw giudico -  would pardon’ed be, let your indulgence - indulgentia -  set me free” , la mia fine è disperata, a meno che io sia sollevato da preghiere tanto penetranti da assalire la Pietà divina e liberare da tutte le colpe. Come voi vorreste essere perdonati dai vostri peccati, lasciate che la vostra indulgenza me ne liberi
e il pessimismo pedagogico di queste parole di Prospero a proposito del fallimento educativo nei confronti di Calibano “ a devil, a born - bear portare e generare - fevrw -  fero -  devil, on whose nature nurture - nutrīre -  can never stick untrodursi -  stivzw, instīgo, stimolo -  segno con un marchio - ; on whom my pains - poinhv, humanely taken, all, all lost - luvw e luo, quite lost; and as with age - aijwvn - aevum -  his body uglier grows, so his mind - mens -  cankers - cancrum acc of cancer.. I will plague - plhghv - plāga -  colpo -  them all, even roaring.” (IV, 1, 188 - 192), li tormenterò fino a farli ruggire.
Pessimismo pedagogico: cfr. Pindaro Olimpica II: sofo;ς oJ polla; eijdw;ς fua'/ (86) sapiente è chi sa molto per natura
Ecuba nella tragedia di Euripide di cui è eponima dice che la terra non buona se ottiene l’occasione da un dio produce buona spiga (eu\ stavcun fevrei, v.593), mentre tra gli uomini il malvagio non può essere altro che malvagio oJ me;n ponhro;ς oujden a[llo plh;n kakovς (596). Il buono è buono né per avversità guasta la natura, ma rimane sempre una bella persona
Allora la differenza la fanno i genitori, la stirpe o l’educazione? Certo, una buona educazione ha un insegnamento di bene, e se uno la apprende bene, sa almeno che cosa è il male, se ha imparato con il canone del bene (Ecuba, 592 sgg.).
Macbeth chiama la vita a walking shadowskovtoς - skotiva - (IV, 5) e pure a tale told by an idiot; e Riccardo II ricorda che dei re some have been deposed, altri sono rimasti ossessionati dagli spettri degli spodestati, some poisoned by their wives, some sleeping killed; all murdered: for within the hollow crown that rounds the mortal temples of a king, keeps Death his court (III, 2)

Per quanto riguarda l’amore
vediamo la battuta tra puerile e carnalmente appassionata di Cleopatra (Antonio e Cleopatra, I, 4): O Charmian, dove credi che egli sia ora? Sta in piedi o è seduto? Stands - e[sthn - sto -  he, or sits - e[zomai - sedeo -  he? Or does he walk? Or is he on his horse? O happy horse, to bear the weight of Antony!

O le evanescenze fantasiose di A Midsummer - Night’s dream (1595) come quando il tessitore Bottom vuole fare la parte del leone e promette ruggiti tali che il duca Teseo esclamerà “Let him roar again, let him roar again!”(I, 1) ma quando gli viene obiettato che spaventerà la duchessa Ippolita aggiunge che ruggirà dolcemente come fosse una colombella o un usignolo.

Poetica: l’occhio del poeta roteando in sublime frenesia si sposta rapido dal cielo alla terra e dalla terra al cielo, e mentre la mente immagina figure di cose sconosciute, la penna de poeta le traduce in forma (turns them to shape) e all’aereo nulla dona suo luogo e nome ( and gives to airy - aer - ajhvr -  nothing a local habitation and name, V, 1).
Sono parole di Teseo, duca di Atene.

 Cfr. Pseudolo di Plauto: “Sed quasi poeta, tabulas cum cepit sibi,/quaerit quod nusquams gentium, reperit tamen,/facit illud veri simile quod mendacium est,/nunc ego poeta fiam: viginti minas, /quae nusquam nunc sunt gentium, inveniam tamen” (Pseudolus, I, 4, vv. 401 - 405)

O l’ingioiellato canto funebre di Ariel in The Tempest (I, 2)

O il nonsense della Dodicesima notte (1602) dove il buffone Feste dice: ho intascato la mancia, perché il naso di Malvolio non è un manico di frusta : la mia signora ha le mani bianche e i Mirmidoni non sono caverne” (II, 3). Oppure il nonsense di una filastrocca delle streghe del Macbeth (1606) che finisce: like a rat without a tail,/I’ll do, I’ll do, and I’ll do (I, 2).
Rientra in quella categoria del “nonsense” avanti lettera che è una costante nelle opere della letteratura inglese più lontane dall’influsso delle letterature continentali.
Oppure la risposta ridanciana di Beatrice a don Pedro che si propone come marito in Much Ado about Nothing (1600): “No, my lord, unless I might have another for working days: your grace is too costly for every day” (II, 1)
Nelle Troiane di Euripide troviamo i deliri di Cassandra, del resto più lungimiranti del buon senso; nelle Eumenidi la paratassi ossessiva delle Erinni: “labe; labe; labe; labev: fravzon (130), prendilo, prendilo, prendilo, prendilo, fai attenzione, in un mugolio acuto e ripetuto.
Forse ricordato e parodiato da Aristofane che nelle Rane fa dire a Dioniso cai'r j w\ Cavrwn 3 volte (v. 184). A meno che alluda alla sordità di Caronte.


continua




[1] Carlo Izzo.  Storia della letteratura inglese, I, p. 383

lunedì 13 febbraio 2017

Twitter, CCLXXIII

Virginia Raggi e Vittorio Feltri


Quanto più gli atti di Virginia sono liberi e manifestano noncuranza del pettegolezzo, tanto più significano bella semplicità e intelligenza.

Feltri sarebbe stato meno nauseante se invece di "patata bollente" avesse scritto "pozzo sulfureo che brucia" ricordando the lunatic King di Shakesperare.

Non basterebbero cento cuochi epicurei a rendere meno indigeribili le patate rancide e nauseanti di Feltri.

Amo la delicatezza. Ecco perché mi piace la Raggi e mi dispiace Feltri il quale del resto se ne farà una ragione come noi nei suoi riguardi.

"Bocca non fatta per pregare". Se  leggessi  Joyce e altri classici, caro Feltri, saresti forse un po' meno banale e stantio.

Era certo cosa meno banale e insipida della metafora popolar-feltriana attribuire al fuoco erotico di qualsiasi donna sana l'aggettivo “prometeico”, oppure chiamare l’istinto amoroso femminile “ fuoco artista che  procede metodicamente alla creazione”.

Finito finalmente Sanremo, potremo cessare di sentire questo tipo di disgusto anche solo subendone la pubblicità in attesa di una trasmissione decente. Lo stomaco e l’intestino si sono sempre rifiutati di guardarlo.

I festival brutti purtroppo non finiscono mai: la domenica sera c'è  Fazio il quale conduce una trasmissione che è la celebrazione e l'apoteosi del ruffianesimo italico.



giovanni ghiselli


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sabato 11 febbraio 2017

Twitter, CCLXXII

Vittorio Feltri
Ognuno odia e vitupera una parte di se stesso: Feltri è una patata vizza, ammuffita e di sapore inaccettabile. Anche la simpatia si fonda sul ricordo come ogni conoscenza (cfr. il Menone di Platone). La Raggi bella e fine mi ricorda le donne della mia razza

Chi voterò? Emiliano è bravo, la Raggi mi piace. Sarà poco bellina? Mi ricorda le donne di casa mia: il meglio della femminilità.

I vegani seguendo i dettami di Orfeo si vantano della dieta di’ apsichou borás (cfr. Eur. Ippolito 952).  Spero che non ne risenta la loro psiche.

Ancora: sacer Orpheus deterruit homines victu foedo cfr. Orazio
Io sconcio demone mi astengo da cani e gatti ma non da porci, manzi e pesciolini.
  
I servi delle mode hanno il consenso che passa con la moda. Essere se stessi nonostante le mode: hoc opus, hic labor est. Ma ne vale la pena.

Cfr. di nuovo l'Ars poetica: “fuit haec sapientia quondam "concubitu prohibere vago, dare iura maritis". Una sapientia non naturale per me
Maximum scelus per un uomo è essere donnaiolo. Santificàti sono invece i maschi che, scampati al fuoco di Sodomia, si sposano tra loro. Io sono un demone celibe e sconcio cui piacciono molto le donne, non sposate e pure sposate.

La differenza tra Virginia Raggi e Ruby, caro Feltri, non è questione di razza, ma di stile. E' questo - lo stile bello - che distingue il nobile dal plebeo, non il sangue




giovanni ghiselli

p. s.
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mercoledì 8 febbraio 2017

Filosofia e Poesia. Lezioni in Mediateca VII

Socrate

Abbiamo messo in luce i nessi esistenti tra poesia, filosofia, storiografia e amore. Sopra tutti quelli tra poesia e filosofia.

L’anomalia del deinov~ Socrate.
Eppure nella Repubblica di Platone, Socrate manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e di tutta la poesia che non consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la Musa drogata (th;n hjdusmevnhn [1] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi dei comici nei confronti dei filosofi.
Platone  critica anche gli agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero,  trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo, appunto, tutto con tutto (pavnta eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri  divennero, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una  sfacciata  teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero stati tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b).

In genere i filosofi vengono bollati dai poeti come morti di fame.
Socrate in primis.
Si pensi a come le Nuvole di Aristofane canzonano e infamano con Socrate tutti i suoi seguaci che sarebbero stati brutti, sporchi e cattivi.
Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto  tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd j eij" balanei'on h\lqe lousovmeno"" (Nuvole[2] , v. 837). Il Coro degli Uccelli [3] più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.
Di Zenone stoico,  Filemone nella commedia Filosofi scrisse: una strana filosofia è questo suo modo di filosofare: un solo pane, un fico secco (ijscav~) per companatico, un bicchier d’acqua. Costui insegna ad avere fame (peinh`n didavskei) e cattura i discepoli (Diogene Laerzio VII 26).

I poeti e Socrate nel loro rapporto con la natura.
La poesia, prima quella epca di Omero poi la lirica, e successivamente, ancor più, quella ellenistica, in particolare la teocritea,  indugia a descrivere il mondo naturale: "Non v'è giorno...che il poeta[4] dimentichi d'osservare come il sole sorge e tramonta"[5]. Anche negli ultimi drammi, gli Uccelli di Aristofane, le Baccanti di Euripide e l’Edipo a Colono di Socrate, si sente la voce della natura che si avvia a diventare il paradiso perduto dell’uomo disgustato dalla civilizzazione ed escluso dalla politica.

Socrate invece si sente forestiero rispetto alla natura. Nel prologo del Fedro si scusa per questa insensibilità dovuta al fatto che il suo apprendere dipende soltanto dai contatti umani: "Suggivgnwskev moi, w\ a[riste. filomaqh;" gavr eijmi: ta; me;n ou\n cwriva kai; ta; devndra oujdevn m  j ejqevlei didavskein"(230d), perdonami carissimo! Io infatti sono uno che ama imparare: la campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi niente.
La sofiva di Socrate è, a detta di Platone, specialmente ajnqrwpivnh sofiva, sapienza relativa all’uomo. Tw'/ o{nti ga;r kinduneuvw tauvthn ei\nai sofov~ (Apologia, 20d) in questa infatti io sono probabilmente saggio davvero.

Nietzsche fa di Socrate il padre della decadenza che consiste nel diffidare degli istinti, quindi anche del mondo naturale.
Socrate sarebbe il nemico mortale dell’istinto, o come un individuo dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice-una vera mostruosità per defectum! Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico”[6]. Quest’idea non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come invece farà per altri aspetti[7] di questo scritto giovanile sulla nascita della tragedia.  In Ecce homo[8] il filosofo ne rivendica le due “ innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci-il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice di tutta l’arte greca. L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[9].
E ancora: Socrate “era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora quanto fosse brutto”.
Socrate era un rinnegato dalla natura.
Socrate con “la superfetazione del logico e quella cattiveria del rachitico che lo contraddistingue”[10] puntò sulla tragedia “l’unico grande occhio ciclopico…quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico”[11]. Egli nell’arte tragica vedeva qualche cosa di “assolutamente irrazionale…inoltre il tutto era così variopinto e vario, che a un’indole assennata doveva riuscire ripugnante mentre per le anime eccitabili e sensibili era una miccia pericolosa”[12]. Socrate comprendeva solo la favola esopica, quindi indusse Platone, che voleva diventare suo scolaro, a considerare l’arte tragica tra quelle lusingatrici, e a bruciare tutta la poesia che aveva composto da giovane. Ma la necessità artistica spinse questo discepolo di Socrate a una nuova forma d’arte: il dialogo che avrà un seguito nella satira menippea e nel romanzo: “Il dialogo platonico fu per così dire la barca in cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature; stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un mondo nuovo…Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo, questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico…cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate. Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica. Nello schematismo logico si è chiusa in un involucro la tendenza apollinea: così in Euripide abbiamo dovuto constatare qualcosa di corrispondente, e inoltre una traduzione del dionisiaco nella passione naturalistica”[13].



CONTINUA



[1] Da hJduvnw, “condisco”.
[2] Del 423 a. C.
[3] Del 414 a. C.
[4] Omero ndr-
[5]Jaeger, Paideia  1, p. 11O.
[6] La nascita della tragedia , p. 92.
[7] Hegeliani e schopenhaueriani
[8] Del 1888.
[9] F. Nietzsche, Ecce homo, p.  49.
[10] Crepuscolo degli idoli, p. 13.
[11] La nascita della tragedia , p. 93.
[12] La nascita della tragedia , p. 93
[13] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 95.

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