venerdì 24 febbraio 2017

Filosofia e Poesia. Lezioni in Mediateca VIII

Esiodo


II capitolo pagine 19-25
Poesia e filosofia. Esiodo (VII sec. a. C.)

Esiodo è orientato in senso etico religioso, e su questa linea procederanno Solone e i poeti tragici. Il valore del lavoro e del sudore. Esiodo è attento alla natura come oggetto della fatica dell’uomo. Elogi della fatica.
Il lavoro agricolo e la navigazione.  Il diritto del più forte è naturale per gli animali, ingiusto per gli uomini. L’eris (contesa) cattiva e quella buona
A Qevmi~ si aggiunge Divkh: questa contiene una premessa di ijsonomiva, uguaglianza davanti alla legge. 
 Il poeta di Ascra chiede aiuto alle Muse, mentre la filosofia ionica si considera debitrice del lovgo~ che raccoglie le impressioni provenienti dalla fuvsi~.
La fuvsi~ dei Greci e quella della Bibbia ebraica. Tommaso d’Aquino pone un segno negativo davanti alla natura dei Greci. 
Fuvsi~, fui e futurus. La fuvsi~ dei Greci c’è da sempre e sempre ci sarà. La religione ebraico-cristiana separa Dio dalla natura. Jahvè Inopinato ed enigmatico, grida: “Abramo!”. Lovgo~ e fuvsi~, i pilastri della filosofia, non sono estranei alla poesia debitrice delle Muse.
Nel Filottete di Sofocle sono presenti entrambi., e, anzi, contrastano, incarnati da Odisseo (il lovgo~  raziocinante, troppo e non bene) e da Neottolemo che ha ereditato la fuvsi~  istintiva e sana di Achille. Sofocle smonta il lovgo~ di Odisseo.
Nella civiltà dei Greci “Il pensiero di Esiodo[1] era orientato in senso etico religioso e nella madrepatria questo atteggiamento spirituale durò ancora a lungo”[2].  I rappresentanti massimi di questo pensiero etico- religioso sono Solone, Eschilo, Sofocle, e pure Euripide sebbene quest’ultimo abbia avuto una cattiva fama di empietà[3] e di combutta antitragica con Socrate [4].
Li vedremo più avanti.

In Esiodo la natura è oggetto del lavoro duro dell’uomo per bene: “Davanti alla virtù gli dèi hanno messo il sudore ” (Opere, 280).
La mancanza di pianure, le montagne con le valli anguste, le contrade segregate, costringono i Greci  ad una lotta continua con il suolo per strappargli l'estremo prodotto possibile.
La fatica non è un male, anzi è spesso associata alla virtù.
 Anche in seguito
Nei Memorabili[5] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
Così Cleante stoico (III sec. A. C.), in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, che la fatica è un bene, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”   

Il lavoro è un dovere e un diritto.
Bisogna dirlo forte adesso che “il lavoro diventa sempre più precario, perde la natura di diritto e si trasforma in una specie di benevola concessione”[6]. I padroni a chi protesta possono dire: “ringrazia che ti faccio lavorare ancora”. 
Oggi il lavoro per i giovani è quasi un’utopia.

La navigazione è più recente del lavoro agricolo e dell'allevamento. Esiodo anzi consiglia dei limiti per la nautilivh che deve essere praticata solo nella tarda estate e al principio dell'autunno  (  [Erga, 618-694). La natura viene comunque osservata con attenzione e precisione dal poeta beota che verrà ripreso da Virgilio.
 In primavera, quando appare la foglia del fico sulla punta del ramo, tanto grande quanto l'orma che lascia una cornacchia (679-680):" o{son t j ejpiba'sa korwvnh- i[cno" ejpoivhsen", allora il mare è navigabile (tovte d j a[mbatov" ejsti qavlassa"681), eppure Esiodo non consiglia di affrontarlo, siccome il tempo possibile è un  momento ajrpaktov~ , fugace (684), rapinoso, ed è tremendo morire tra le onde: deino;n d j ejsti; qanei'n meta; kuvmasin", (v. 687)[7]
La Giustizia in Omero era ancora il diritto (Qevmiς) di una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare da una classe superiore il cui predominio deriva da un'investitura divina.
Qevmiς nell’Iliade è una dea (qea; Qevmi la chiama Giunone, XV, 93)
Ma già nel VII secolo,  cominciano gli elogi di una giustizia nuova ( la dike appunto), tale che comprende l'idea dell'uguaglianza. Esiodo per primo dà voce a questa esigenza. Egli nel poema più recente (Opere , vv. 202 e sgg.) ne fa l'apologia raccontando la favola dello sparviero e dell'usignolo. La legge del più forte che annienta il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene santificata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike  imperversano peste, fame e sterilità. C'è un invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l'ha progettato (Opere , vv.265-266).
“La parola greca per “legge” è inizialmente themis (dal verbo tivqhmi porre, che trova un parallelo nel tedesco setzen, il quale dà luogo a Gesetz, legge, che, a sua volta, riprende il latino ius positivum). Themis indica, pertanto, una legge imposta: dagli dei, dalla tradizione o, comunque, da poteri indiscutibili e imperscrutabili. Come sosteneva Cicerone a proposito di quelle norme che derivano dal mos maiorum, dai costumi degli antenati, bisogna fare così perché è così, senza spiegare il perché (etsi sine ratione reddita).
 La parola nomos, che ha la stessa radice di nomisma, moneta dal valore convenzionale, designa invece una legge non naturale, ma artificiale, in quanto fatta valere dagli uomini, prodotta collettivamente dalla polis (Ostwald). L’autonomia è connessa alla nascita della civiltà della colpa, nel senso che ciascuno idealmente si dà da sé, per convinzione e non per imposizione, la propria legge e si assume le proprie responsabilità”[8].
Infatti Antigone e Creonte nella tragedia di Sofocle attribuiscono significati differenti alla parola novmo~.
Una delle caratteristiche dell'affabulazione sofoclea è quella dell'ambiguità. "Può trattarsi di un'ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama homōnymiva (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua[9]. Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione tragica di un mondo in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune[10]. Così, per Antigone, novmos designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novvvmos [11]. Per la fanciulla il termine significa  "norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal capo dello Stato". E in realtà il campo semantico di novmos è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi. L'ambiguità traduce allora la tensione fra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le parole scambiate sullo spazio  scenico, anziché stabilire la comunicazione e l'accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell'universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un'altra unilateralità"[12].
 
 Esiodo distingue una Eris (contesa) cattiva  da un’altra buona (Opere, 14 e sgg.):  questa sta alla base del progresso umano e sveglia al lavoro anche l'ozioso: grazie a lei il vasaio gareggia con il vasaio, il mendico con il mendico, e l'aedo con l'aedo (v. 26).
Quella cattiva fa crescere la guerra.

La giustizia esiodea è una forza solo in parte umana e per molti aspetti sovrannaturale, ma essa già contiene una premessa di isonomìa (uguaglianza davanti alla legge) e moralità, anche se la  piena scoperta e valorizzazione del cosmo morale avviene con Socrate, assassinato da un tribunale ateniese nel 399.

Esiodo chiede aiuto alle Muse. La filosofia ionica si appella al lovgo~ che indaga la fuvsi~.
All’inizio della Teogonia (v. 1) Esiodo afferma che il suo canto parte dalle Muse Eliconie (della Beozia). Queste lo istruirono mentre pascolava gli agnelli, biasimarono gli altri pastori e dichiararono:” Noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma anche parole veraci” (vv. 27-28).
Nel primo verso delle Opere e giorni le Muse sono chiamate Pierie, come del resto in Teogonia 52. Le Muse sono figlie di Zeus e della Memoria.
Omero nel primo verso dell’Iliade aveva invocato una qeav perché gli cantasse l’ira di Achille “Mh'nin aeide, qeav, Phlhöavdew  jAcilh'oς ” 
 “Senonchè in Ionia…non si andò debitori alla rivelazione delle Muse, ma al proprio logos, che-tale è il significato originario della parola-raccoglieva le singole impressioni esterne per rielaborarle, combinandole insieme di propria iniziativa. Il fenomeno che colpiva maggiormente il logos era la crescita, il fuevsqai delle piante, il processo che da un minuscolo seme, secondo un ordine fisso e con uno svolgimento ininterrotto, portava al pieno sviluppo dell’essere, alla physisLogos e physis sono i concetti fondamentali del pensiero scientifico dei Greci. Sono anche i pilastri su cui poggia la loro filosofia”[13]lovgoς cfr levgw “raccolgo”.



continua



[1] Prima metà del VII secolo.
[2] M. Pohlenz,  La Stoa,1, p. 2.
[3] “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta questo morente a servirti? Morì tra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva oramai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva il mito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con avide mani tutti i giardini della musica, anche così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo abbandonò te” (Nietzsche, La nascita della tragedia , pp. 74-75). 
[4] Nietzsche ravvisa una connessione tra Euripide e Socrate, una collaborazione cui già alludevano gli antichi: “Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì nell’antichità in quel tempo; e l’espressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate aiutava Euripide a poetare” (La nascita della tragedia , p. 89.) 
[5] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[6] G. Colombo, Sulle regole, p. 124.
[7] Anacarsi lo Scita dopo avere appreso che lo spessore della nave era di quattro dita, disse che i passeggeri distavano quattro dita dalla morte (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 8). Su Anacarsi torneremo 
[8] Remo Bodei, Ira La passione furente, pp. 21-22.
[9] "I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi": Aristotele, Confutazione dei sofisti I, 165a 11.
[10] Cfr. Euripide, Fenicie, 409 sgg.:" Se la stessa cosa fosse ugualmente per tutti bella e saggia, gli umani non conoscerebbero la controversia delle contese. Ma per i mortali non esiste nulla di simile o di uguale, salvo nelle parole; la realtà è tutta diversa".
[11] La stessa ambiguità appare negli altri termini che occupano un posto di rilievo nella trama dell'opera: divkh, fivlo"  e filiva, kevrdo" , timhv, ojrghv, deinov" .
[12]J. P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell'antica Grecia , p. 89.
[13] M. Pohlenz,  La Stoa,1, p. 3

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