mercoledì 27 febbraio 2019

Il sapere non è sapienza

Penteo


Due versi chiave delle Baccanti di Euripide (395-396)

Il sapere non è sapienza to; sofo;n d  j ouj sofiva
e avere la pretesa di comprendere fatti non mortali to; te mh; qnhta; fronei`n.

 La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:" la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume  dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva"[1] .
La scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti-cimitero delle intuizioni”[2].
All’idea di classicità, Nietzsche sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà greca non è una civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”[3].

Vale la pena di riferirne anche l'esegesi di T. Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[4]. Su questa opposizione sapere/sapienza riferisco, di seconda mano, Eliot che pure è uno dei miei massimi maestri:"Eliot affermava:"Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?"[5].

 Interessante a questo proposito è un elogio dello stupore di H. Hesse: "Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità, dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei Tu")...non vogliamo lamentarci che nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo"[6]. Seneca sostiene che la sapienza è l’unica libertà:  “Sapientia quae sola libertas est[7].

il sapere non vale nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di sé il sacro e il divino  che inspiegabilmente lega"con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est sapientia[8].

E' il caso di Edipo   che crede di azzeccarci con l'intelligenza senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/ kurhvsa" oujd& ajp& oijwnw'n maqwvn", Edipo re  v. 398) e fallisce. "Coloro che hanno interpretato l'Edipo re  secondo il modulo della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle abbia voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e possibilità, dal cui incotro-scontro risulterebbe il senso stesso del dramma. Si è parlato di un "sapere umano" e un "sapere divino"[9], di una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza[10]. Edipo sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa sulla conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di conseguenza, ma le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue costruzioni intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei, incontrollabile e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico sapere veritiero...In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare delfico, con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema di valori etici"[11]
Insomma la gnwvmh è fallace e gli uomini non possono comprendere tutto. Non solo le vie della divinità sono imperscrutabili ma anche quelle dell'incoscio.

Il motivo antiintellettualistico, ricorrente nell'Edipo, avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena", quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento abbastanza recente dello Sturm und Drang ("il mio cuore-annota Werther  il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo  afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600-1601).
E' il  profeta  a nutrire la forza della verità (v.356) che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive.

Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia  di Callimaco, poi imitata da Ovidio nelle Heroides  (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).

Ora sentiamo T. Mann: “e se si usa dire per esempio che in casa d’altri non bisogna mettere gli occhi addosso alle donne, perché tale comportamento è pericoloso, si è soliti tuttavia farlo, perché altro è la saggezza e altro è la vita”[12].

Il sapere può essere usato come un’arma contro l’uomo comune.
Viceversa le armi possono essere uno strumento di offesa e difesa dell’uomo comune dagli intellettuali.
Lo dice Adilph Cusins, il professore di greco del Maggiore Barbara di B. Shaw: “As a teacher of Greek I gave the intellectual man weapons against the common man. I now want to give the common man weapons against the intellectual man[13], come professore di greco, io ho dato agli intellettuali le armi contro l’uomo comune. Io ora voglio dare all’uomo comune le armi contro l’intellettuale. 

E. Dodds indica un nesso tra questa sentenza del primo stasimo delle Baccanti e la transvalutazione denunciata da Tucidide di cui abbiamo detto[14] : “ ‘cleverness is not wisdom’, ‘the world’s Wise are not wise’ (Murray). Here again the Chorus take up a thought expressed in the preceding scene: to; sofovn has the same implication as in 203[15]; it is the false wisdom of men like Pentheus, who fronw'n oujde;n fronei' (332, cf. 266 ff., 311 ff.), in contrast with the true wisdom of devout acceptance (179, 186)…for the paradoxical form cf. I A. 1139 oJ nou'~ o{d j aujto;~ nou'n e[cwn ouj tugcavnei[16], Or. 819 to; kalo;n ouj kalovn[17]. Such paradoxes are the characteristic product of an age when traditional valuations are rapidly shifting in the way described in the famous passage of Thucydides on the transvaluatation of values, 3, 82”[18], ‘l’ingegnosità non è sapienza’, ‘la Maniera del mondo, non è saggia’ (Murray). Qui di nuovo il Coro assume un pensiero espresso nella scena precedente: il sapere ha la stessa implicazione che al v. 203; è la falsa sapienza di uomini come Penteo, il quale pur avendo la mente non ha la sapienza (332, cfr. 266 ss.[19] 311 ss.[20]), in contrasto con la vera saggezza della della pia accettazione (179, 186[21])…per il modulo paradossale cfr. Ifigenia in Aulide 1139 , Oreste 819. Tali paradossi sono il prodotto caratteristico di un’età in cui le valutazioni tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passo di Tucidide sulla transvalutazione dei valori, 3, 82.

L’attacco antisofistico si basa sulla contrapposizione tra sofiva e sofovn, con la conseguenza che la sofiva si viene a caratterizzare in modo non intellettualistico e si collega a una visione delle cose recepita dalla tradizione. Ciò significa escludere un approccio di tipo protagoreo”[22].
L’uomo rinunci dunque alla sua saggezza. Perché, dice un verso singolare, la saggezza non è saggezza: “To; sofo;n d’ouj sofiva”. E non è inutile notare che la pretesa saggezza dell’uomo è designata con una parola neutra, molto intellettuale[23], una parola che le dà un carattere di artificiosità; mentre la parola sofiva- che indica la saggezza ritrovata dall’uomo quando riesce a rinunciare al suo spirito critico-è una buona vecchia parola della lingua corrente ed è di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo carattere vitale e fecondo”[24].

-to; te mh; qnhta; fronei`n (v. 396): Sull'incomprensibilità da parte della mente umana dei misteri della divinità si esprime anche Dante:"Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/che tiene una sustanza in tre persone./State contenti, umana gente, al quia ; ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria"[25]. E pure il suo Ulisse pecca, come Edipo, per la presunzione e l'uso eccessivo dell'intelligenza, tant'è vero che l'autore, all'inizio del canto dei consiglieri fraudolenti, afferma:"Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/quando drizzo la mente a ciò ch'i' vidi,/e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,/perché non corra che virtù nol guidi;/sì che, se stella bona o miglior cosa/m'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m'invidi"[26].
Infine Re Lear : “Per apprendere come veramente stiano le cose, Lear  è costretto a perdere del tutto la ragione, seguendo così il modello disegnato da Paolo[27]: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per divenire sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”.  La citazione paolina, non a caso, proviene proprio dal Libro di Giobbe[28][29].




[1] La nascita della tragedia , p. 122 e p. 123.
[2] G. Vattimo, Op. cit., p. 159.
[3] G. Vattimo, Op.cit., p. 69.
[4] T. Mann, Nobiltà dello Spirito, p. 814.
[5] E. Morin, op. cit., p. 45.
[6]H. Hesse,  La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.
[7] Seneca, Ep., 37, 4.  
[8] Confessiones, 5, 5, ecco la sapienza è pietà.
[9]Diller 1950.
[10]Cfr. su questa linea soprattutto Reinhardt 1933, trad. it. pp. 111-52; Bowra 1944, p. 162-211; Champlin 1969.
[11]G. Ugolini, Sofocle e Atene , p. 161.
[12] Giuseppe il nutritore, p. 43.
[13] Major Barbara, Act III.
[14] Cap. 17.
[15] Le tradizione ricevute dai padri, quelle che possediamo/
coeve con il tempo, nessun ragionamento le abbatterà,/
neppure se per opera di menti appuntite viene trovato il sapere (oujd j eij di j a[krwn to; sofo;n hu{rhtai frenw'n) (Baccanti, vv. 201-203), parla Tiresia. “Il richiamo alla tradizione è il filo rosso della tragedia” (D. Susanetti, Op. cit., p. 182).  Ndr
[16] Questa astuzia, sebbene costui abbia astuzia, non funziona. Clitennestra parla ad Agamennone che fa il finto tonto Ndr.
[17] E’  secondo stasimo: il  Coro di fanciulle argive che deplora l’assassinio di Clitennestra, un atto ambiguo : può apparire bello ma non lo è. Ndr.
[18] E. R. Dodds, Euripides Bacchae,  p. 121
[19] Quando un uomo saggio abbia preso buoni spunti/per le sue parole, non è grande impresa il parlare bene;/tu hai sì una lingua sciolta, come se avessi senno,/ma nei tuoi discorsi non c'è senno (Baccanti, 266-269). Ndr
[20] Via Penteo, da' retta a me:/non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini,/e non credere, se tu hai un'opinione, ed è un'opinione malata,/di avere una qualche sapienza; invece accogli il dio nella nostra terra/e fai libagioni e baccheggia e incoronati la testa. (Baccanti,  309-313) Ndr.
[21] O Carissimo,  poiché ho inteso udendo la tua voce/saggia da un uomo saggio, stando nella reggia/eccomi pronto con questo costume del dio;/bisogna infatti che quello essendo figlio della figlia mia/(Dioniso che si rivelò dio agli uomini)/per quanto ci è possibile sia esaltato come grande./Dove bisogna danzare, dove fermare il piede,/e scuotere la testa canuta? Fai da guida tu vecchio/a me vecchio, Tiresia: tu infatti sei saggio./Poiché non potrei stancarmi né di notte né di giorno/di battere la terra con il tirso: ci siamo dimenticati volentieri/di essere vecchi (Baccanti, 178-190). E’ Tiresia che parla a Cadmo.  Ndr.
[22] Di Benedetto, Op cit., p. 354.
[23] Aggiungil Guidorizzi definisce il sofovn: “una forma laica e razionale di sapienza” (Euripide, Baccanti, p. 202).
[24] A. Bonnard, La civiltà greca, p. 471.
[25]Purgatorio , III, 34-39.
[26]Inferno , XXVI, 19-22.
[27] I Corinzi 3, 18.
[28] Giobbe, 5, 13.
[29] Piero Boitani, Il Vangelo secondo Shakespeare, p. 47.

Ancora sul "tenebroso puritano" delle "Baccanti" di Euripide. Parte 1



La fobia dell'amore e del sesso
Tentativi di riabilitazione

 Le Argonautiche, che descrivono la fase iniziale dell'amore di Medea per Giasone, sono piene di anatemi di Eros: il dio quando arriva, mandato dalla madre, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~) che si scaglia sulle giovani vacche[1]. Rapidamente questo dio del dolore prese una freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet  j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon, v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/ de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290). Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto lavqrh/ ou\lo~   [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane prestante  viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961). L'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi:  quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn  ajlginovei"", IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per  quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j   [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)", Argonautiche, IV, vv. 445- 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio  : “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Questo è l’amore di Didone, frustra moritura, destinata a morire invano,  per Enea.  
Nell’Ippolito di Euripide, quando Fedra  domanda alla nutrice che cosa è ciò che gli uomini chiamano amore, ella risponde: una cosa dolcissima (h[diston) e nello stesso tempo dolorosa (taujto;n ajlgeinovn q  j a{ma, v. 348). Poi Fedra le confessa di essere innamorata di Ippolito: allora la nutrice vede il sovvertimento della bellezza e dei valori: “ejcqro;n eijsorw' favo~ ” (v. 355), odiosa vedo la luce.    
 Più avanti però consiglia alla pupilla l’ardimento di amare ( tovlma d’ ejrw'sa, v. 476) e poco dopo le dice: non di  parole decorose hai bisogno tu, ma di  quell’uomo (ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov~, vv. 490-491). La premessa è che Cipride non si può sostenere, quando si abbatte possente: “Kuvpri~ ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuh'/”(v. 443) e gli dèi stessi ne sono stati soggetti, come Zeus che amò Semele. Tu non puoi essere più forte degli dèi: cessa di essere arrogante: “ lh'xon d j uJbrivzous j ouj ga;r a[llo plh;n u{bri~ -tavd  j ejstiv, kreivssw daimovnwn ei\nai qevlein” (vv. 474-475), non è altro che arroganza questo, voler essere più forte degli dèi.  Dunque: “ tovlma d’ ejrw'sa: qeo;~ ejboulhvqh tavde (v. 476), osa amare,  un dio l’ha voluto!
Nel primo Stasimo, il Coro di donne trezenie invoca Eros come colui che infonde piacere a chi muove guerra (v. 527), ma è nello stesso tempo tiranno degli uomini (538), e, se non lo veneriamo, distrugge e procede fra sventure di ogni genere contro i mortali, quando arriva  (vv. 540-543).
Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’Ippolito: “ Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2),  grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo. Nel primo episodio la  nutrice di Fedra le attribuisce  una forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n hj;n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
The Kypris of the Hippolytus is none other than the Venus Genetrix of Lucretius, the Life Force of Schopenhauer, the élan vital of Begson : a force unthinking, unpityng, but divine. Opposed to her, as the negative to the positive pole of the magnet, stands Artemis, the principle of aloofness, of refusal, ultimately of death. Between these two poles swings the dark and changeful life of Man, the plaything which they exalt for a moment by their companinship, and drop so easily when it is broken:
makra;n de; leivpei~ rJa/divw~ oJmilivan[2]
says Hippolytus bitterly”[3], La Cipride dell’Ippolito non è altro che la Venere Genitrice di Lucrezio, la Forza della Vita di Scopenhauer, lo slancio vitale di Bergson: una forza che non pensa, non sente pietà, ma divina. Opposta ad essa, come il polo negativo a quello positivo del magnete, sta Artemide, il principio della freddezza, del rifiuto, e in definitiva della morte. Tra questi due poli oscilla la scura e cangiante vita dell’Uomo, il giocattolo che essi innalzano per un momento con la loro amicizia, e poi cade così facilmente quando è rotto: Tu lasci facilmente la nostra lunga compagnia, dice Ippolito amaramente.

 Ora infatti è giunto il momento dell’ ajgw;n mevga~- sw'sai bivon sovn (vv. 496-497) e in questa gara suprema dove si tratta di salvare la vita,  non si possono lesinare o riprovare i mezzi per vincerla. Il primo stasimo cantato da donne trezenie annuncia con sgomento la necessità di venerare Eros, il tiranno degli uomini (tuvrannon ajndrw'n, v. 538) che distrugge (pevrqonta, v. 541) e incede in mezzo a sventure di ogni tipo (dia; pavsa~-ijovnta sumfora'~, 541-542). La madre Cipride non è da meno: ella uccise la madre di Bacco con folgore fiammeggiante  e dovunque spiri, terribile (deinav), continua a volare come un’ape (mevlissa oi{a, vv. 563-564). Cioè punge.
Distruttivo è anche l’e[rw~ che spinse gli Ateniesi alla disastrosa spedizione in Sicilia nell’analisi di Tucidide: “Kai; e[rw~ ejnevpese toi`~ pa`sin oJmoivw~ ejkpleu`sai” (VI, 24, 3); e su tutti si abbatté la passione di salpare. I più vecchi erano convinti di assoggettare le città siciliane; i giovani povqw/ o[yew~ kai; qewriva~, per  desiderio di vedere e osservare nuove realtà; la gran massa dei soldati pensava di acquisire denaro e potenza. I contrari non osavano esprimersi data la brama eccessiva dei più (dia; th;n a[gan tw`n pleiovnwn ejpiqumivan, VI, 24, 4).

Nella Fedra di Seneca la figlia di Pasife, innamorata del proprio figliastro, cerca di giustificarsi con la nutrice denunciando l’onnipotenza del dio alato, Amore, cui soggiacciono gli stessi dèi maggiori poiché egli ha un potere incontrollato in ogni parte del mondo: “Hic volucer omni pollet in terra impotens (v. 186) e vola parimenti penoso nel cielo e sulla terra : “volitat caelo pariter et terra gravis” (v. 194).

Secondo Christa Wolf  invece la negazione della gioia non è implicita nell'amore in sé, ma al contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo monologo ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la quale gli parlava senza essere stata corrotta dal rancore:"Ma tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[4].
Nella letteratura latina  il sermo amatorius pullula di metafore che  identificano l'amore con il fuoco, le ferite, la peste, il veleno, la follia, addirittura il cancro:"sed antiquus amor amor cancer est " (Satyricon  42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.
Catullo  usa la parola pestis  in nesso allitterante con pernicies[5]  per definire il proprio amore doloroso dal quale vorrebbe liberarsi, con l'aiuto degli dèi, come da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis  è già implicita l'idea, oggi terroristicamente conclamata, dell'Aids, chiamata la peste del secolo, quando negli incidenti stradali muoiono, in Italia, ottomila persone all'anno[6], ne restano ferite molte di più, e chissà quante altre  vengono consumate dal cancro, quello vero, dovuto ai gas di scarico. Se i rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine e altre schifezze nocive, o quanto meno inutili.
 Sono le distruzioni e le guerre che spingono a comprare. Il consumare è collegato al distruggere, è una sua metafora. Sono le attività empie, le malattie dello spirito che distolgono dall’amore. Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange la sua città perché gli abitanti non si curano della pace (Acarnesi, v. 27) e pure  odia la vita cittadina, mentre ama la pace e rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé, mentre nella povli" è onnipresente l'invito a comprare:"privw"[7], che si tratti di carbone, di aceto o di olio ( vv. 34-36). Ecco dunque un altro male deleterio dell’amore oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità :" Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).  
Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.   
"In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si riattacca ad Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide  ci mostra come egli utilizzi e fondi suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea"[8]. Veramente il nesso Giasone-Enea, individuato come seduttore, lo denuncia Ovidio: nell’Ars amatoria il poeta peligno mette il fallax Iason  (Ars, III, 33), l’ingannevole Giasone, al primo posto nel terzetto dei  seduttori perfidi: gli altri due sono Teseo[9] e quel “sant’ uomo” di  Enea: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[10]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.  
La personificazione del tormento amoroso dei mortali nel De rerum natura è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (III, 992-993), ma  Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[11].

 Ma i versi più dolorosi sull'amore sono quelli dove il termine vulnus , ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " ( De rerum natura, IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e diventa cronica a nutrirla,  la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non  curi prima, vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.

CONTINUA

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[1] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oi\stro~ , v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi: “ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera, come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con salti furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell'ira mi scortava/ spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[2] 1441.
[3] Dodds, The ancient concept of progress, p. 87.
[4] Medea, p. 203.
[5]"me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,/eripite hanc pestem perniciemque mihi" (76, 19-20), guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire,/strappatemi questa peste e rovina.
[6] L’automobile è una vera e propria arma terroristica usata contro pedoni e ciclisti in primis, poi contro gli stessi automobilisti che si ammazzano a vicenda come i nati dalla terra e dai denti del drago seminati da Giasone nelle Argonautiche (3, 1372 sgg.).
[7] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro".
[8]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 357.
[9] Tanto perfido questo che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini
[10] Spada lasciata da Enea (ensem relictum,  Eneide, IV, 507)  e  impiegata  da Didone  per il suicidio: “non hos quaesitum munus in usus”, Eneide,  IV, 647,  dono richiesto non per questo uso.  Didone conclude la VII Epistula scrivendo il proprio epitaffio: “ Praebuit Aeneas et causam mortis et ensem;/ipsa sua Dido concidit usa manu” (Heroides, VII, 199-200), Enea offrì il motivo della morte e la spada; Didone morì da sola, uccisa dalla sua mano.   
[11] Lucrezio,  La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320.

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