mercoledì 27 febbraio 2019

Ancora sul "tenebroso puritano" delle "Baccanti" di Euripide. Parte 1



La fobia dell'amore e del sesso
Tentativi di riabilitazione

 Le Argonautiche, che descrivono la fase iniziale dell'amore di Medea per Giasone, sono piene di anatemi di Eros: il dio quando arriva, mandato dalla madre, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~) che si scaglia sulle giovani vacche[1]. Rapidamente questo dio del dolore prese una freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet  j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon, v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/ de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290). Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto lavqrh/ ou\lo~   [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane prestante  viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961). L'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi:  quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn  ajlginovei"", IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per  quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j   [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)", Argonautiche, IV, vv. 445- 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio  : “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Questo è l’amore di Didone, frustra moritura, destinata a morire invano,  per Enea.  
Nell’Ippolito di Euripide, quando Fedra  domanda alla nutrice che cosa è ciò che gli uomini chiamano amore, ella risponde: una cosa dolcissima (h[diston) e nello stesso tempo dolorosa (taujto;n ajlgeinovn q  j a{ma, v. 348). Poi Fedra le confessa di essere innamorata di Ippolito: allora la nutrice vede il sovvertimento della bellezza e dei valori: “ejcqro;n eijsorw' favo~ ” (v. 355), odiosa vedo la luce.    
 Più avanti però consiglia alla pupilla l’ardimento di amare ( tovlma d’ ejrw'sa, v. 476) e poco dopo le dice: non di  parole decorose hai bisogno tu, ma di  quell’uomo (ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov~, vv. 490-491). La premessa è che Cipride non si può sostenere, quando si abbatte possente: “Kuvpri~ ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuh'/”(v. 443) e gli dèi stessi ne sono stati soggetti, come Zeus che amò Semele. Tu non puoi essere più forte degli dèi: cessa di essere arrogante: “ lh'xon d j uJbrivzous j ouj ga;r a[llo plh;n u{bri~ -tavd  j ejstiv, kreivssw daimovnwn ei\nai qevlein” (vv. 474-475), non è altro che arroganza questo, voler essere più forte degli dèi.  Dunque: “ tovlma d’ ejrw'sa: qeo;~ ejboulhvqh tavde (v. 476), osa amare,  un dio l’ha voluto!
Nel primo Stasimo, il Coro di donne trezenie invoca Eros come colui che infonde piacere a chi muove guerra (v. 527), ma è nello stesso tempo tiranno degli uomini (538), e, se non lo veneriamo, distrugge e procede fra sventure di ogni genere contro i mortali, quando arriva  (vv. 540-543).
Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’Ippolito: “ Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2),  grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo. Nel primo episodio la  nutrice di Fedra le attribuisce  una forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n hj;n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
The Kypris of the Hippolytus is none other than the Venus Genetrix of Lucretius, the Life Force of Schopenhauer, the élan vital of Begson : a force unthinking, unpityng, but divine. Opposed to her, as the negative to the positive pole of the magnet, stands Artemis, the principle of aloofness, of refusal, ultimately of death. Between these two poles swings the dark and changeful life of Man, the plaything which they exalt for a moment by their companinship, and drop so easily when it is broken:
makra;n de; leivpei~ rJa/divw~ oJmilivan[2]
says Hippolytus bitterly”[3], La Cipride dell’Ippolito non è altro che la Venere Genitrice di Lucrezio, la Forza della Vita di Scopenhauer, lo slancio vitale di Bergson: una forza che non pensa, non sente pietà, ma divina. Opposta ad essa, come il polo negativo a quello positivo del magnete, sta Artemide, il principio della freddezza, del rifiuto, e in definitiva della morte. Tra questi due poli oscilla la scura e cangiante vita dell’Uomo, il giocattolo che essi innalzano per un momento con la loro amicizia, e poi cade così facilmente quando è rotto: Tu lasci facilmente la nostra lunga compagnia, dice Ippolito amaramente.

 Ora infatti è giunto il momento dell’ ajgw;n mevga~- sw'sai bivon sovn (vv. 496-497) e in questa gara suprema dove si tratta di salvare la vita,  non si possono lesinare o riprovare i mezzi per vincerla. Il primo stasimo cantato da donne trezenie annuncia con sgomento la necessità di venerare Eros, il tiranno degli uomini (tuvrannon ajndrw'n, v. 538) che distrugge (pevrqonta, v. 541) e incede in mezzo a sventure di ogni tipo (dia; pavsa~-ijovnta sumfora'~, 541-542). La madre Cipride non è da meno: ella uccise la madre di Bacco con folgore fiammeggiante  e dovunque spiri, terribile (deinav), continua a volare come un’ape (mevlissa oi{a, vv. 563-564). Cioè punge.
Distruttivo è anche l’e[rw~ che spinse gli Ateniesi alla disastrosa spedizione in Sicilia nell’analisi di Tucidide: “Kai; e[rw~ ejnevpese toi`~ pa`sin oJmoivw~ ejkpleu`sai” (VI, 24, 3); e su tutti si abbatté la passione di salpare. I più vecchi erano convinti di assoggettare le città siciliane; i giovani povqw/ o[yew~ kai; qewriva~, per  desiderio di vedere e osservare nuove realtà; la gran massa dei soldati pensava di acquisire denaro e potenza. I contrari non osavano esprimersi data la brama eccessiva dei più (dia; th;n a[gan tw`n pleiovnwn ejpiqumivan, VI, 24, 4).

Nella Fedra di Seneca la figlia di Pasife, innamorata del proprio figliastro, cerca di giustificarsi con la nutrice denunciando l’onnipotenza del dio alato, Amore, cui soggiacciono gli stessi dèi maggiori poiché egli ha un potere incontrollato in ogni parte del mondo: “Hic volucer omni pollet in terra impotens (v. 186) e vola parimenti penoso nel cielo e sulla terra : “volitat caelo pariter et terra gravis” (v. 194).

Secondo Christa Wolf  invece la negazione della gioia non è implicita nell'amore in sé, ma al contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo monologo ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la quale gli parlava senza essere stata corrotta dal rancore:"Ma tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[4].
Nella letteratura latina  il sermo amatorius pullula di metafore che  identificano l'amore con il fuoco, le ferite, la peste, il veleno, la follia, addirittura il cancro:"sed antiquus amor amor cancer est " (Satyricon  42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.
Catullo  usa la parola pestis  in nesso allitterante con pernicies[5]  per definire il proprio amore doloroso dal quale vorrebbe liberarsi, con l'aiuto degli dèi, come da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis  è già implicita l'idea, oggi terroristicamente conclamata, dell'Aids, chiamata la peste del secolo, quando negli incidenti stradali muoiono, in Italia, ottomila persone all'anno[6], ne restano ferite molte di più, e chissà quante altre  vengono consumate dal cancro, quello vero, dovuto ai gas di scarico. Se i rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine e altre schifezze nocive, o quanto meno inutili.
 Sono le distruzioni e le guerre che spingono a comprare. Il consumare è collegato al distruggere, è una sua metafora. Sono le attività empie, le malattie dello spirito che distolgono dall’amore. Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange la sua città perché gli abitanti non si curano della pace (Acarnesi, v. 27) e pure  odia la vita cittadina, mentre ama la pace e rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé, mentre nella povli" è onnipresente l'invito a comprare:"privw"[7], che si tratti di carbone, di aceto o di olio ( vv. 34-36). Ecco dunque un altro male deleterio dell’amore oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità :" Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).  
Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.   
"In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si riattacca ad Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide  ci mostra come egli utilizzi e fondi suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea"[8]. Veramente il nesso Giasone-Enea, individuato come seduttore, lo denuncia Ovidio: nell’Ars amatoria il poeta peligno mette il fallax Iason  (Ars, III, 33), l’ingannevole Giasone, al primo posto nel terzetto dei  seduttori perfidi: gli altri due sono Teseo[9] e quel “sant’ uomo” di  Enea: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[10]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.  
La personificazione del tormento amoroso dei mortali nel De rerum natura è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (III, 992-993), ma  Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[11].

 Ma i versi più dolorosi sull'amore sono quelli dove il termine vulnus , ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " ( De rerum natura, IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e diventa cronica a nutrirla,  la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non  curi prima, vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.

CONTINUA

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[1] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oi\stro~ , v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi: “ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera, come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con salti furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell'ira mi scortava/ spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[2] 1441.
[3] Dodds, The ancient concept of progress, p. 87.
[4] Medea, p. 203.
[5]"me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,/eripite hanc pestem perniciemque mihi" (76, 19-20), guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire,/strappatemi questa peste e rovina.
[6] L’automobile è una vera e propria arma terroristica usata contro pedoni e ciclisti in primis, poi contro gli stessi automobilisti che si ammazzano a vicenda come i nati dalla terra e dai denti del drago seminati da Giasone nelle Argonautiche (3, 1372 sgg.).
[7] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro".
[8]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 357.
[9] Tanto perfido questo che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini
[10] Spada lasciata da Enea (ensem relictum,  Eneide, IV, 507)  e  impiegata  da Didone  per il suicidio: “non hos quaesitum munus in usus”, Eneide,  IV, 647,  dono richiesto non per questo uso.  Didone conclude la VII Epistula scrivendo il proprio epitaffio: “ Praebuit Aeneas et causam mortis et ensem;/ipsa sua Dido concidit usa manu” (Heroides, VII, 199-200), Enea offrì il motivo della morte e la spada; Didone morì da sola, uccisa dalla sua mano.   
[11] Lucrezio,  La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320.

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