giovedì 30 maggio 2019

La Felicità. I parte

Baccanti
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L’esperienza dionisiaca può essere una fonte di felicità secondo E. R. Dodds: “To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close their minds against it such experience can be a deep source of spiritual power and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their satisfaction to others transform it by their act into a power of disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of Nature (…) If this or something like it is the thought underlying the play, it follows that the flat - footed question posed by the nineteenth - century critics - was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him? - admits no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil; for us, as Teiresias says (314 - 318), he is what we make of him (…) His favourite method is to take a one - sided point of view, a noble half - truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the disaster to which it leads its blind adherents because it is after all only part of the truth[1].. It is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour of bodily strength and courage and its toppling over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays - Medea, Hecuba, Electra –the spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is constructed on the same principle: the poet has neither belittled the joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the persecuted god, trough the excitement of the palace miracles and the gruesome tragi - comedy of the toilet scene, to share in the end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our sensibility - which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a poet[2].
"Chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’ sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza dionisiaca[3]. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di Natura [4] (…) Se questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina - Euripide stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? - non ammette risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (314 - 318[5]), egli è quello che noi facciamo di lui (…) Il metodo favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza - verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi mettere in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci - poiché è dopo tutto solo una parte della verità. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della vendetta - Medea, Ecuba, Elettra - la simpatia dello spettatore è prima associata al vendicatore, poi fatta passare alle vittime del vendicatore. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentando di ‘provare’: il suo interesse in questo come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma allargare la nostra sensibilità - che è, come ha detto il Dottor Johnson, l’interesse proprio del poeta."

Nel terzo Stasimo (902 - 911) delle Baccanti le Menadi cantano to; de; kat j h\mar o{tw/ bivoto" - eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910 - 911), considero beato l'uomo la cui vita è felice giorno per giorno.

Ma vediamo l’intero epodo di questo stasimo
Felice (eujdaivmwn) colui che fuori dal mare
sfuggì alla tempesta, e raggiunse il porto;
felice quello che riuscì al di sopra
degli affanni; in vario modo uno supera 905
l’altro per benessere e potenza.
Innumerevoli ancora per gli innumerevoli
sono le speranze: quelle che
si compiono nella prosperità
per i mortali, quelle che svaniscono;
quello la cui esistenza è felice
giorno per giorno, chiamo beato

La felicità dunque è un bene sfuggente da inseguire e riprendere ogni giorno.

La gioia va assimilata evitando l’indigestione.
Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande fotuna:" se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande fortuna, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia - eujfrosuvna" ajla'tai - . (Olimpica I, vv. 54 - 57b).

 "E' il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni - ma da quel momento non è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa viene nella sua pienezza" (Pindaro, Pitiche, III, 104 - 106)"[6].

La gioia del potere
La gioia del potere viene affermata da Eteocle nelle Fenicie e negata da Giocasta. Sentiamo il re di Tebe che volendo il potere tutto per sé, ha tolto al fratello Polinice la parte del regno che gli spettava.
Venga pure la guerra poiché, dice Eteocle, non cederò mai a lui il mio potere ( “wJ" ouj parhvsw tw'/d j ejmh;n turannivda”. E continua: “ ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn" ( vv. 524 - 525), se infatti è proprio necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
 Il coro di donne fenicie lo disapprova: “quello che dici non è bello ma è amaro per la giustizia - ajlla; th'/ divkh/ pikrovn (v.527).
la madre prova a dissuaderlo argomentando in vari modi il punto di vista che considera gonfia e vuota la prepotenza, ingiusta e innaturale la diseguaglianza,
Ma soddisfare l’ambizione che brama il potere assoluto è per Eteocle la soddisfazione suprema della vita. Sicché il potere va tenuto in pugno a qualunque costo. 

Nei versi conclusivi tra quelli che ci sono arrivati delle Fenicie di Seneca Giocasta prova a mettere in guardia il figlio dalla precarietà del potere fondato sull’odio: “invisa numquam imperia retinentur diu” (v. 660). Allora Eteocle inizia a risponderle “Pro regno velim…(662). Ma Giocasta lo interrompe e gli pone una domanda che vorrebbe essere retorica: “Patriam penates coniugem flammis dare?”. Il figlio conclude replicando che per il potere si può pagare qualsiasi prezzo e l’acquisto è comunque vantaggioso “Imperia pretio quolibet constant bene, (662 - 664),

La gioia che proviene dal cibo connsentito dalla pace
Le fonti della gioia sono molto varie in autori diversi e nei differenti personaggi delle loro opere. Negli Acarnesi di Aristofane, per esempio, grande è la gioia del pacifista Diceopoli nel vedere un’anguilla del lago Copaide messa in vendita da un Tebano: “Skevyasqe, pai'de", th;n ajrivsthn e[gcelun, - h{kousan e{ktw/ movli" e[tei poqoumevnhn” 889 - 890), guardate, ragazzi, l'ottima anguilla che è arrivata dopo che ne abbiamo sentito la mancanza per quasi sei anni. Diceopoli è riuscito a concludere una pace separata ed è tanto felice che utilizza, in travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi dell'adorata Alcesti :"che nemmeno morto - mhde; ga;r qanwvn pote (Alcesti, 367)
io sia mai separato da te sou' cwri;" ei[hn (Alcesti, 368), cotta in mezzo alle bietole - ejnteteutliwmevnh" ( Acarnesi892 - 893).
Nella seconda parabasi della Pace di Aristofane il Coro di contadini proclama la sua gioia (h{domai g j h{domai, 1127) per la libertà dagli impegni bellici e la possibilità che la pace offre di stare vicino al fuoco a bere con i compagni, arrostire ceci, mettere ghiande al fuoco e sbaciucchiare la serva tracia mentre la moglie si lava. Poi quando arriva l'estate con la dolce canzone della cicala[7] Trigeo gode nel vedere maturare viti precoci e mangiare i fichi dicendo "w|rai fivlai" (v. 1168), che bella stagione!
Tutto questo invece di essere arruolati prima dei cittadini e di dover obbedire a un capitano odioso e vigliacco.

Il diletto del cibo nel convito è tale che non ha nemmeno bisogno di essere rallegrato da canti secondo la Nutrice di Medea che con questi versi presenta un aspetto della poetica dell’autore
“E stolti chiamando e per niente saggi
i mortali di un tempo non sbaglieresti,
loro che per le feste e per i banchetti e le cene
trovarono i canti, un ascoltare che rallegra la vita;
mentre nessuno trovò il modo di fare cessare
con la poesia e con i canti dai molti toni
gli odiosi affanni dei mortali, per cui morti
e orribili casi fanno cadere le stirpi.
Eppure questo sì sarebbe un guadagno guarire
con i canti i mortali; ma dove sono i lauti banchetti
imbanditi perché elevano invano la voce?
Infatti l'abbondanza che c'è della mensa
Contiene da sé gioia per i mortali. Medea, vv. 190 - 203

La sede della gioia
“La gioia ha generalmente sede nel qumov" (...) Inoltre è generalmente il qumov" che fa agire l'uomo (...) Se qumov" è in genere la sede della gioia, del piacere, dell'amore, della compassione, dell'ira e così via, dunque di tutti i moti dell'animo, tuttavia può trovar sede talvolta nel qumov" anche la conoscenza (...) Quando si dice che qualcuno sente qualcosa, kata; qumovnqumov" è in questo caso un organo e noi possiamo tradurre la parola con "anima", ma dobbiamo tenere presente che si tratta dell'anima soggetta alle "emozioni". Però anche qumov" verrà in seguito a determinare una funzione (e allora potremo tradurre la parola con "volontà" o "carattere") e anche la funzione singola: dunque anche quest'espressione ha un significato più esteso di quanto non abbiano le nostre parole "anima" e "spirito". Nel modo più chiaro appare ciò nell'Odissea (IX, 302) dove Ulisse dice: eJvtero" dev me qumo;" e[ruken:" un altro qumov" mi trattenne", e qui dunque qumov" si riferisce a un particolare moto dell'animo"[8].

Senza gioia la vita non è viva. La perdita dell’amore annienta la gioia
Il tiranno che semina morte e produce rovina toglie la gioia anche a se stesso. E' il commento del messo che sta per raccontare la catastrofe finale dell'Antigone provocata da Creonte il quale ha proibito, tra l'altro, al figlio Emone di amare la sua donna:":"ed ora tutto è buttato via. Infatti quando/l'uomo abbandona la gioia, io non ritengo/che sia vivo costui ma lo considero un cadavere che respira" (vv. 1165 - 1167).
In questa tragedia l’annientamento finale d Creonte[9] deriva dal suicidio del figlio seguito al suicidio di Antigone che il giovane voleva sposare attendendosi gioia.
Il coro dell'Alcesti di Euripide nel primo stasimo canta:" :"ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon hj; lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", oJvsti" ajrivsth" - ajplakw;n ajlovcou th'sd&, ajbivwton - to;n e[peita crovnon bioteuvsei", (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, deducendolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

Medea rivolgendosi alle donne corinzie dice di avere perduto la gioia di vivere da quando è stata lasciata dallo sposo:
 “Questa faccenda inaspettata piombatami addosso
mi ha distrutto la vita; sono a pezzi, e abbandonata
la gioia di vivere - cavrin meqei'sa - , desidero morire, amiche.
Quello in cui c'era per me tutta la vita, lo so bene,
si è rivelato il peggiore degli uomini, il mio sposo ( Euripide, Medea, 225 - 229)
La tragedia Andromaca sottolinea questa caratteristica della mentalità femminile: la convinzione che l'amore sia tutto nella vita[10]: quando la vedova di Ettore domanda a Ermione:"dunque tu non vuoi soffrire in silenzio per Cipride?", la ragazza risponde:"e perché? Questa per le donne non è assolutamente la prima cosa?" (vv. 240 - 241). 
Menelao cerca di aiutare la figlia a non perdere il marito per la stessa ragione:" Io sto dalla parte di mia figlia, sono suo alleato, e faccio la guerra con lei: infatti giudico grave questo: che sia privata del letto (levcou" [11] stevresqai). Gli altri dolori che una donna può soffrire sono secondari, ma quella che fallisce con il marito, fallisce nella vita"( ajndro;" d j aJmartavnous j aJmartavnei bivou, vv.370 - 373). 

Nietzsche, La nascita della tragedia
La sapienza silenica è stata dei Greci superata grazie all’impulso apollineo verso la bellezza e alla gioia dionisiaca del sentimento dell’unità. 
"Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli (…) Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi - la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie [12], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[13]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[14]


CONTINUA


[1] Cf. Murray, Euripides and His Age, 187.
[2] E. R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv - xlvii.
[3] La componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139. Ndr.
[4]" La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste" Schopenhauer, Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[5] Non sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314 318) ndr.
[6] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 53.
[7] Questa non dà segni ambigui come la rondine.
[8] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 34 e sgg.
[9] vv. 1317 - 1325:"Ahimé, questi orrori non si adatteranno mai/a un altro dei mortali fuori dalla mia colpa./Io infatti, io ti uccisi, oh disgraziato,/ io dico il vero. Oh servi,/allontanatemi al più presto, portatemi via,/io che non sono più che nessuno".
[10] "La donna ama credere che l'amore possa tutto , - ed è questa la sua caratteristica superstizione " F. Nietzsche, Di là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico? (269).
[11] Nell'Alcesti e nella Medea il letto è il mobile più importante della casa.
[12] Cfr. Iliade, VI, 146: "oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[13] Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Già nel IX canto dell’Iliade , quello dell’ambasceria, Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408) ndr.
[14] Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 3

Italo Svevo. L'uomo e l'inetto. 10a parte

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Turgenev manda una lettera al critico letterario Slučevskij che gli aveva scritto della reazione negativa degli studenti russi di Heidelberg al romanzo:
Bazarov è un personaggio tragico tutt’altro che cattivo e negativo.
Tutto il mio romanzo è diretto contro la nobiltà come classe guida. I tre nobili: padre, figlio e zio: debolezza, indolenza e limitatezza. Il mio senso estetico mi ha fatto scegliere i personaggi buoni della nobiltà per dimostrare ancora meglio la mia idea. Prendere funzionari, generali, grassatori, sarebbe stato grossolano. Se la panna è cattiva, come sarà il latte? Ho scelto i nobili migliori per dimostrare la loro inconsistenza.
L’Ondicova è una rappresentante delle nostre signore epicurèe, delle nostre dame nobili oziose, sognatrici, curiose e fredde.
Voleva lisciare contropelo quel lupo di Bazarov, purché non mordesse, poi pensava di scompigliare i ricci a un ragazzo ma voleva rimanere sdraiata e tutta bella lavata sul velluto.
La morte di Bazarov non è casuale, ma l’ultimo tocco alla sua figura tragica. Se il lettore non lo ama con tutta la sua rozzezza, crudeltà d’animo, secchezza implacabile e asprezza, non ho raggiunto il mio scopo. Io non volevo versare sciroppo.
Avevo sognato una figura cupa, selvatica, grande, per metà venuta su dal suolo stesso, forte, spietata, onesta, e tuttavia votata alla rovina, perché è ancora nell’anticamera del futuro, avevo sognato uno strano pendant di Pugačëv e simili. Corrispondente al rivoluzionario che guidň l’insurrezione contadina contro Caterina II nel 1774. La sua storia è raccontata da Puškin.
I giovani non hanno capito. Solo Dostoevskij e il critico Botkin lo hanno compreso.

Ancora Turgenev a proposito di Padri e figli:
Il punto di partenza non è stata un’idea, ma una persona viva. La base di Bazarov è la figura di un giovane medico provinciale che lo colpì e morì nel 1860. In quell’uomo si incarnava il nichilismo, una corrente dell’epoca. Cominciai a comporre la fabula a Parigi.
Nel 1862 la fabula uscì sul “Messaggero russo”. A Pietroburgo ci furono degli incendi e il primo conoscente che incontrò sulla Nevskij gli disse: Avete visto cosa fanno i vostri nichilisti! Bruciano Pietroburgo!
Il romanzo dispiaceva ai miei amici e piaceva ai nemici
Io sono un accanito occidentalista ma nel Nido dei nobili ho riprodotto nella figura di Panšin tutti gli aspetti comici e volgari dell’occidentalismo; l’ha fatto battere dallo slavofilo Lavreckij. Io ritengo lo slavofilismo una dottrina falsa e sterile. Io non sono dalla parte dei padri: tant’è vero che ho messo in caricatura Pavel, l’ho reso ridicolo peccando anche contro la verità artistica. Bazarov non ha avuto il tempo di maturare. Ho trattato Bazarov come un essere vivo, mostrandone i lati anche cattivi. Io non sapevo se amavo o non amavo Bazarov. Una signora spiritosa gli disse: “né padri, né figli. Siete proprio voi il nichilista”. Alcuni mi accusano di arretratezza, di oscurantismo, di offesa alla giovane generazione, altri di piaggeria nei confronti della giovane generazione. Ho inventato la parola nichilista

Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contario:"La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita... Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare... I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele... Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[1]

L’istruzione non è soltanto luce ma anche libertà. Niente libera l’uomo come il sapere e la libertà è necessaria soprattutto nel campo dell’arte e della poesia. Non per niente si parla di arti liberali. L’uomo legato non può prendere quello che lo circonda. Gli slavofili non sanno togliersi i propri occhiali colorati. Assenza di libertà si trova in Guerra e pace del conte Tolstoj che pure ha grande forza creativa e poetica ed è forse la cosa più alta apparsa nella letteratura europea dopo il 1840. Gli eletti sono diversi dalla massa che è condannata a sparire ma non prima di avere arricchito la forza dell’eletto. Ai giovani letterati: non dovete giustificarvi mai, dovete avere cura della nostra lingua, della nostra bella lingua, questo patrimonio trasmessoci dai nostri predecessori in testa ai quali brilla Puškin (1799 - 1837 cfr. Leopardi). 1869 Baden - Baden.

Turgenev, Terra vergine, del 1876, trad Garzanti, Milano, 2001.
Terra vergine è l’ultimo romanzo di T. Racconta dei giovani populisti russi, della loro andata al popolo. Voleva mostrare “fisionomie in veloce mutamento di uomini russi dello strato colto”

Epigrafe
“La terra vergine non va dissodata con un aratro leggero, ma in profondità con un vomere affilato”.
E’ ambientato nel 1868.
Giovani a San Pietroburgo “senza un’occupazione” (p. 6)
Il più in rilevo è Alioscia Nezdanov che va a fare l’istruttore da Sipjagin, ciambellano di corte. Nezdanov era figlio bastardo di un nobile e aveva la fisionomia del nobile: piccole orecchie, mani e piedi, pelle morbida, capelli vellutati, Ma era permaloso, capriccioso, accurato fino alla pignoleria e trasandato fino all’obbrobrio Era pieno di contraddizioni Anche qui c’è una donna bella e calcolatrice: Valentina Sipjagina, la moglie del ciambellano.
Poi c’è Marianna una ragazza buona, la nipote di Sipjagin, figlia di una sorella dell’alto burocrate. Nezdanov deve dare lezioni di russo e di storia a Kolja, il figlio dei Sipjagin. In quella villa tutto era molto cerimonioso e pomposo. Marianna soffre per tutti i poveri e gli oppressi della Russia. Nezdanov attribuiva la propria incapacità alla cattiva educazione ricevuta e alla sua disgustosa natura da esteta (p. 95). -
Cfr. Tonio Kröger di T. Mann.
Cfr. anche Gozzano: “Ed io non voglio più essere io!/Non più l’esteta gelido, il sofista/ma vivere nel tuo borgo natio/ma vivere alla piccola conquista/mercanteggiando placido, in oblio/come tuo padre, come il farmacista… Ed io non voglio più essere io” (La signorina Felicita, 320 - 326)

Sipjagin è un calcolatore commediante: “conosceva il latino, e l’espressione virgiliana “Quos ego” non gli era estranea. Coscientemente non si paragonava al dio Nettuno, ma intanto gli era venuta in mente per immedesimazione” (p. 99)
 Eneide I, 135 quos ego…sed praestat componere fluctus. E’ un inizio di minaccia ai venti
I populisti considerano spilorci i borghesi
Nezdanov dice a se stesso: “Se sei meditabondo melanconico, che razza di rivoluzionario puoi essere? (p. 117) Oh Amleto, Amleto, principe danese, come uscire dalla tua ombra? Come cessare di emularti in tutto, persino nell’intima voluttà dell’autoflagellazione?”
(cfr. Nietzsche, Freud e Pirandello).
“L’incarnato naturale della risoluzione è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero” (Amleto III, 1) cfr. anche il finto sciocco

Un altro populista è Markelov, il fratello di Marianna, “tale e quale un Giovanni Battista che si è rimpinzato di locuste… e solo di locuste, senza neppure il miele” (p. 121).
 Poi i due vecchini santi mentecatti: Fomuška e Fimuška la quale dice a Nezdanov che le fa pena. Perché chi ha un certo carattere ha pure un certo destino.
Cfr. Eraclito e Nietzsche
E aggiunge: “non a caso sei rosso di capelli, Mi fai pena…ecco tutto” (p. 135).
Cfr. rubicundus e rubicunda nello Pseudolus.
Il burocrate ministeriale aveva deciso che, finite le vacanze, avrebbe rimandato l’istitutore del figlio a Pietroburgo” davvero troppo rosso”. In senso politico.
Nasce l’amore tra Nezdanov e Marianna.
 Solomin è invece l’uomo concreto che dirige una fabbrica in modo democratico e dice che l’industria e il commercio non sono roba da nobili: ci vuole disciplina. I nobili sono solo dei funzionari.
Sipjagin aveva le qualità distintive dei grossi papaveri russi.
Era un funzionario e un commediante del potere. I mercanti sono dei predatori e il popolo dorme.
Marianna e Nezdanov si amano e la cognata Valentina la rimprovera per la vicinanza con un giovane di “educazione, posizione sociale troppo in basso. Marianna suggerisce il “semplificarsi” (p. 200) che “per la gente del popolo significa vivere d’amore e d’accordo”.
Marianna dice ad Alëša Nezdanov che sarà sua quando le dirà che la ama di quell’amore che dà il diritto alla vita dell’altro (p. 206)
Mosca sta a valle dell’intera Russia e tutto ci va a ruzzolare dentro.
Alioscia scrive a un amico e gli dice che non ha mai amato e non amerà mai nessuna donna più di Marianna “ma come posso unire per sempre il suo destino al mio? Un essere vivo a un cadavere? Se non proprio a un cadavere, a un essere morto a metà?” (p. 222).
Non crede più nemmeno nel popolo: “non ci si può immaginare nulla di più stupido”
Dal padre ha ereditato il nervosismo, la sensibilità, la fragilità, la schifiltosità. Gli ha lasciato organi di senso inadatti all’ambiente che avrebbe frequentato. Non si può dare vita a un uccellino per poi sbatterlo nell’acqua. O mettere un Pegaso alla macina.
 Scrive dei versi: il popolo dorme indolente, tutto è immobile, sonnecchiano i giudici, dormono gli imputati, dormono persecutori e perseguitati, “dorme la Santa Russia un sonno inumano” (p. 227).
Cfr. Il Gattopardo e l’oblio dei Siciliani: Il sonno, caro Chevalier, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera o di cannella (…) le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali (…) i miti sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma in realtà non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto” (p. 121 - 122).
Paesaggi fuor di misura: l’inferno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina. Il clima ci infligge sei mesi di febbre a 40 gradi: da maggio a ottobre, un’estate lunga e tetra quanto l’inverno russo, da noi nevica fuoco come sulle città maledette dalla Bibbia. Il nostro carattere è stato formato da questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come fantasmi muti, questi governi sbarcati in armi da chissà dove con i loro esattori di denari spesi altrove.

Alioscia cade sempre più nella depressione per mancanza di volontà e di fiducia in se stesso. I contadini sono sudditi consenzienti del potere. Alla fine dice a Marianna che non crede più nella causa supremo. Poi si uccide. Non sono stato capace di semplificarmi scrive, e non mi è restato altro da fare che annientarmi. Un’amica lo definisce un romantico del realismo.
Solomin è il personaggio positivo, non come il tipico russo che aspetta la soluzione da fuori. Solomin può essere grigio ma semplice.
(Fine Terra Vergine)


CONTINUA

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[1] In O. Wilde, Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222 - 224

In quali casi non sarei l'uomo strano che sono. Ispirato da Socrate nel Fedro platonico



Se credessi al riscaldamento globale w{sper oiJ sofoiv, come ci credono i (reputati) sapienti, se mi piacesse il capitalismo e il consumismo che garbano tanto alla massa sapiente compresi i sapienti pezzenti, se tenessi lo sguardo costantemente fisso sul telefonino, come fanno i sapienti affetti da dipendenza, se avessi testa e cuore di legno o di stoffa come tanti burattini e fantocci ritenuti sapienti, se non studiassi tanto per tenere conferenze in varie parti d’Italia, quasi sempre gratis e a spese mie diversamente dagli strapagati sapienti ruffiani di Stato, se non facessi due ore di sport faticoso al giorno-bicicletta e corsa- per non diventare obeso come i sapienti immobili e ingordi, oujk a[n a[topo" ei[hn (cfr. Platone, Fedro, 229C), non sarei l’uomo strano che sono e che mi vanto di essere.  

mercoledì 29 maggio 2019

Italo Svevo. L'uomo e l'inetto. 9a parte

Conferenza alla biblioteca Scandellara

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Dalla conferenza del 29 aprile 2019 (biblioteca Scandellara, ore 18,30 - 20) sul tema dell’uomo inetto

Segue una conversazione da innamorati.
“Ogni uomo è davvero un enigma” dice Bazarov. E chiede: “perché voi con la vostra intelligenza, con la vostra bellezza, vivete in campagna?”
La Ondicova dice di essere infelice perché non ha desiderio né voglia di vivere. Amo il confort e nello stesso tempo ho poca voglia di vivere. Sono molto stanca, sono vecchia, Ho molti ricordi alle spalle e davanti una lunga strada senza una meta e non ho voglia di percorrerla.
Bazarov pensò: Tu civetti, ti annoi, e mi aizzi per ozio, mentre io… e il cuore gli si lacerava
Lui esce e lei sedette: “La sua treccia si sciolse come un serpente scuro e cadde su una spalla”. E’ un’immagine epifanica: rivela la quiddità, la segreta essenza della donna.
Arkadij soffriva ma non voleva mettersi a piangere davanti al suo beffardo amico.
La principessa assunse un’espressione come per dire: “guardate, guardate come mi meraviglio!” (p. 110)
Altra conversazione tra Bazarov e Anna che gli chiede “chi siete e cosa siete?”
B. dice che vuole fare il medico distrettuale ma Anna gli chiede come potrebbe accontentarsi di una posizione tanto modesta
Ma, fece B. “la maggior parte dell’avvenire non dipende da noi. Andrà bene se si darà il caso di fare qualcosa”.
Cfr. i film di Woody Allen ed eventa e coniuncta di Lucrezio.

Anna: “qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati per nulla, che saremo buoni amici”.
Bazarov infine le dice che la ama stupidamente, pazzamente. Tremava.
La Ondicova ebbe paura e sentì pietà di lui.
B. cerca di abbracciarla ma lei si sottrae
Lei ci pensa sopra ma poi decide: “No. Dio sa dove questo mi condurrebbe, non ci si può scherzare, la tranquillità è pur sempre la miglior cosa al mondo” (p. 114). Mi fa pensare alla muraglia dell’apollineo contro il dionisiaco
Bazarov dice ad Anna che parte perché lei non lo ama e a lei balenò in mente “ho paura di questo uomo”
All’ora del tè arrivò il giovane progressista Sitnikov con una vivacità da quaglia (p. 116)
L’apparizione della volgarità riesce utile in quanto indebolisce le corde troppo altamente intonate.
Arkadij dice a Bazarov che i babbei come Sitnikov sono necessari: “non agli dèi tocca cuocere i vasi” (p. 117)
Arkadij vide il vaso senza fondo dell’amor proprio di Bazarov che gli disse che era uno sciocco.
Bazarov parla con l’amico mentre sono in viaggio e dice: “è meglio far lo spaccapietre sul selciato che permettere a una donna di impadronirsi sia pur della punta di un dito” Un uomo non ha tempo di occuparsi di queste sciocchezze. L’uomo deve essere feroce
Arrivano a casa di Bazarov. La tenuta della madre aveva 22 anime. La casa era molto modesta. Il padre Vasilij dice che per un uomo pensante non esiste alcun romitaggio.
Cfr. la Consolatio ad Helviam matrem di Seneca confinato in Corsica
Ha dato la terra ai contadini, a mezzadria.
Bazarov dice: “noi ridiamo della medicina e non ci inchiniamo a nessuno” (p. 126). Il padre aveva fatto il medico di Stato maggiore e curava il giardino e i poveri per filantropia. “Ha detto bene Paracelso: in herbis, verbis et lapidibus” (fondatore della chimica farmaceutica 1493 - 1511)

La stanza offerta ad Arkadij era il vestibolo del bagno.
La madre, Arina, era una tipica piccola nobile russa all’antica: credeva nei santi mentecatti, nel malocchio, riteneva i grilli e i cani animali immondi, non mangiava i cocomeri perché un cocomero sgozzato ricorda la testa di San Giovanni Battista.
Era buona. Simili donne stanno scomparendo. Dio sa, se sia da rallegrarsene. Il vecchio fa i complimenti ad Arkadij che si schermisce ma il vecchio dice che ha frequentato il mondo e riconosce l’uccello dal volo. Il padre adora Bazarov cui Arkadij predice un avvenire straordinario.
Bazarov dice all’amico che i suoi genitori sono contenti perché si accontentano, mentre lui prova noia e rabbia per la sua pochezza.
Ita sapiens se contentus est, non ut velit esse sine amico sed ut possit (Seneca, Ep. 9, 5)
 Però è fiero di non essersi lasciato rovinare da una donnetta. Non intende l’amore come un dire “pio pio gallinella” e appena questa si avvicina, seguirla.
I tormenti non esistono per l’uomo che non vuole riconoscerli dice Arcadij 
E Bazarov: hai detto un luogo comune inverso. Pare che sia più elegante ma in sostanza è lo stesso.
Bazarov odia molti e dice all’amico: “tu sei un’anima tenera, una poltiglia, come puoi odiare? Il vero uomo è quello cui va obbedienza e odio. Non esiston i princìpi, ci sono le sensazioni, Tutto dipende da esse (cfr. lo qumov")
Cfr. Lucrezio: Le torri quadrate viste da lontano sembrano rotonde poiché i simulacri volando per ampi spazi vengono smussati dai frequenti assalti dell’aria (cogit hebescere cum crebris offensibus aer, 359).
Gli occhi non si ingannano nemmeno un poco. I sensi costituiscono il criterio della verità, la mente invece può dare l’interpretazione sbagliata.
Il sole a chi sta in mare sembra sorgere dalle acque e nell’acqua tramontatare. Lucrezio elenca una serie di illusioni ottiche. Ma non sono i sensi che falliscono. Dunque non bisogna togliere credibilità ai sensi. Ma gli errori avvengono “propter opinatus animi quos addimus ipsi” (465
I sensi colgono l’evidenza (ejnavrgeia, Epicuro a Erodoto 52).

me piace negare, come ad altri piacciono le mele. Sempre in forza di una sensazione (p. 138). Anche l’onestà è una sensazione.
Bazarov cita a sproposito Puškin e chiede ad Arkadij di evitare le belle frasi. “L’uso delle belle frasi è sconveniente” (p. 139).
Le belle frasi invero a parer mio sono la luce del pensiero e corroborano la memoria.
E dice all’amico che cammina sulle orme di quell’idiota di suo zio. Arkadij si offende per lo zio, E’ la voce insopprimibile del sangue dice Bazarov. “Ho notato che si mantiene sempre molto ostinatamente negli uomini” cfr. l’Antigone di Sofocle
I due stanno per azzuffarsi: il viso di Bazarov apparve sinistro nell’obliquo sorriso delle labbra.
“Nessuna amicizia può reggere a lungo a simili urti” (p. 140)
Il padre li chiama Dioscuri, dando di piglio alla mitologia.
A pranzo i genitori hanno invitato il pop.
Padre Aleksej era un uomo appariscente e grasso, dai capelli folti, abile e accorto. Mangiarono uno speciale manzo circasso, lasche, gamberi, ricci, funghi.
Giocavano a carte. Bazarov perdeva. Il signore rischia troppo, disse il prete e si lisciò la bella barba.
Ma cfr. kalo;" oJ kivnduno" di Socrate nel Fedone, 114d
E’ una regola napoleonica disse il padre, ha aperto il gioco con l’asso
“Perciò è finito a Sant’Elena”, ribattè il padre Aleksej e coprì l’asso con la briscola
Bazarov vuole partire e Arkadij intercede per i genitori che vorrebbero rimanesse
Questi sono molto rattristati dalla partenza ma la vecchia consola il vecchio: “Nostro figlio è una fetta tagliata via, è come il falco, noi siamo come due funghi sul tronco. Resteremo sempre vicini”. Il vecchio abbracciò la sua compagna, forte come non l’aveva mai abbracciata nemmeno nella sua giovinezza (p. 146)
I due giovani tornarono dalla Odincova che li fece aspettare e non fu cordiale
Poi vanno dai fratelli Nikolaj e Pavel che li accolgono bene.
La campagna di Nikolaj era tenuta male da contadini neghittosi e riottosi o ladri come certi vicini, Bisognava spaventarli chiamando un commissario ma questo era contrario ai princìpi di Nikolaj.
Bazarov studiava i ranocchi, mentre Arkadij volle tornare a Niklskoe dalla Ondicova
Arriva e incontra Katia, poi viene accolto bene da Anna Sergeevna.
Bazarov era rimasto dai Kirsanov e studiava, faceva esperimenti. Aveva la febbre del lavoro. Bazarov e Fenečka, l’amante di Nikolaj, si piacciono. La donna era bella: era nell’epoca in cui la femmine umane fioriscono e si dischiudono come le rose estive (p. 153).
Cfr. Menesseno 238a: “la donna imita la terra” e Menone 81 “tutta la natura è imparentata con se stessa”.

I due parlano. Lei elogia la giovinezza e lui dice che non sa che fare della propria. E nessuno ha compassione di lui. Bazarov la corteggia poi la bacia. Bazarov si sentì promosso a cascamorto.
Pavel li ha visti e sfida Bazarov a duello.
“Voi qui siete di troppo, non vi posso soffrire e vi disprezzo”. Decidono di battersi con le pistole
Pavel viene colpito a una coscia dopo avere mancato Bazarov. Il ferito sviene. I due poi parlano. Bazarov dice a Pavel: “il contadino russo non pensa nulla, Chi lo capisce? Neanche lui capisce se stesso” (p. 166).
Cfr. Andrej e Pierre in Guerra e pace.
Infine Bazarov se ne va borbottando “maledetti signorotti”. (p. 169)
Colloquio Pavel - Fenečka che gli dice di amare il fratello e di non averlo mai tradito. Allora Pavel suggerisce a Nikolaj di sposarla.
“Comincio a pensare che Bazarov aveva ragione quando mi rimproverava l’aristocraticità: non dobbiamo più fingere e pensare al mondo, Siamo ormai gente vecchia e quieta; è tempo per noi di mettere da parte ogni vanità”.
Nikolaj lo ringrazia con calore, ma teme rimproveri dal figlio.
E Pavel: “Il matrimonio non rientra nei suoi “prensìp”; in compenso, il sentimento dell’uguaglianza sarà in lui lusingato. E in realtà quali caste ci possono essere nel XIX secolo? 
Nel 1861 lo zar Alessandro II abolisce la servitù della gleba.
Pavel pensa di andare a morire a Dresda o a Firenze, poi appoggia la bella testa smagrita sul bianco guanciale. Giaceva come la testa di un morto. E infatti egli era un morto (p. 173)
Intanto Arkadij frequentava Katja e tra loro si rivelava un’aperta affinità
“Noi due siamo domestici, dice la ragazza, mentre Bazarov è un rapace”.
Arkadij quasi si offende; non vorrebbe essere un rapace ma forte ed energico sì.
Alla sorella, dice Katja, piaceva Bazarov ma nessuno può avere il sopravvento su di lei perché tiene troppo alla propria indipendenza,
E aggiunge: “ho vissuto molto sola: per forza ci si mette a riflettere”.
Katja è disposta a sottomettersi ma vuole rispetto,
Arriva Bazarov per congedarsi: dice all’amico; “ci siamo venuti a noia l’un l’altro” (p. 180). Si congeda anche da Anna che vorrebbe conservare l’amicizia “e poi l’amore è un sentimento fittizio”. 
Bazarov le dà ragione. Direi instabile più che fittizio. A parte quello per la madre e per una figlia.
“Credevano tutti e due di dire la verità? Non lo sapevano loro e tanto meno lo sa l’autore” 181.
Anna dice di essere rientrata nella sua vera parte: di zia, istitutrice, madre, come volevano i due giovani. Ha capito che Arkadij non è insignificante ma intelligente. Ma Bazarov non le crede e pensa: “Una donna non può fare a meno di giocare d’astuzia” 182.
Arkadij ha 23 anni e vuole essere utile ma seguendo ideali non troppo lontani dalla realtà.
Anna parla con Bazarov. Lui dice di essersi sgonfiato e lei di avere capito che non avevano bisogno l’uno dell’altro: tra loro c’era troppa affinità.
Cfr. Le affinità elettive di Goethe, 1809: Il capitano dice: le sostanze che incontrandosi subito si influenzano e compenetrano reciprocamente, le chiamiamo affini. Nel caso di alcali e sali, seppure opposti, questa affinità è palese. Forse proprio perché opposti si associano e si cercano con il massimo vigore e formano un nuovo corpo (p. 36).
Carlotta replica che l’affinità riguarda l’anima. Tra le persone le qualità opposte rendono possibile un’amicizia più stretta.
Anna dice a Bazarov che è buono e lui reagisce dicendo che lo dice perché ha perduto importanza agli occhi di lei: è come mettere una ghirlanda di fiori sulla testa di un morto” (p. 187).
La bontà come disvalore: cfr. acta retro cuncta nell’Oedipus.
Arkadij chiede a Katerina di sposarlo e lei accetta.
Bazarov riparte dicendo: mi sono aggirato troppo a lungo in una sfera che non è la mia. I pesci volanti possono mantenersi un certo tempo in aria, ma devono presto rituffarsi nell’acqua. Anche io devo tornare nel mio elemento.
Saluta l’amico dicendogli che lui non è stato creato per la loro vita acre e amara. Noi vogliamo frantumare gli altri, mentre tu sei un tenero signorotto liberale. Avrei altre parole ma non le dico perché sarebbe romanticismo, cioè sciroppo (p. 190). Tu sposati e fai tanti figli. Vedrai che saranno intelligenti perché nati al momento giusto.
Prevede pure che Arkadij si sottometterà a Katia
Bazarov torna dai genitori. La madre era tanto affaccendata che il marito la paragonò a una pernice. Il giovane aveva perso la lena lavorativa era triste, stanco e inquieto. Parlava con i contadini che erano contenti della loro servitù e indifferenti alla loro liberazione. Uno diceva: “quanto più severo è il padrone, tanto più il contadino è contento”
Il contadino del resto pensava che un padrone non può capire.
B. aiuta il padre nel curare i contadini. Il padre era contento di questo impegno. Bazarov si taglia un dito facendo l’autopsia a un morto di tifo. Si è contagiato e ha la febbre. Giaceva col viso rivolto al muro
Cfr. la morte di Gesualdo del Verga.
Chiede al padre di mandare qualcuno a salutare non Arkadij, un pulcino che è diventato una cornacchia, ma Anna Ondicova e dirle che Evgenij muore. Incoraggia il padre dicendogli di aiutarsi con il cristianesimo o con lo stoicismo. Arriva la Ondicova con un dottore. Lei entra nella stanza e lui dice di essere capitato sotto la ruota. Dire che vi ho amata non ha senso. L’amore è una forma, mentre la mia forma già si disgrega. Però le dice che è cara e bella. Vivete a lungo, è la cosa migliore.
Cfr Achille nella Nevkuia: “Guardate che spettacolo mostruoso: un verme mezzo schiacciato si dimena ancora” (p. 204). Siate gentile con mia madre. Gente come loro nel vostro gran mondo non si trova neanche a cercarla col lanternino. Io non sono necessario alla Russia Il sarto, il calzolaio e il macellaio sono necessari.

Quindi B. muore
Passarono i mesi e arrivò l’inverno coi visi freschi e quasi morsi delle persone. I due ragazzi si sposano e anche Nikolaj Petrovič con Fenečka
Pavel dopo il matrimonio partì per affari alla volta di Mosca come pure Anna dopo avere donato una larga dote ai due giovani.
Durante il brindisi nuziale Katia sussurrò all’orecchio del marito: “Alla memoria di Bazarov”, ma Arkadji non osò ripeterlo ad alta voce.
Infine Turgenev racconta gli esiti dei personaggi
Anna si è risposata non per amore ma per convinzione con un personaggio importante, intelligente, dotato di forte volontà, buono e freddo come il ghiaccio. Arkadij è diventato un proprietario infervorato e fa fruttare bene la masseria. Il padre fa il giudice di pace e dice che i contadini vanno “rinsaviti”, ossia condotti all’esaurimento. I nobili colti parlano di emancipazione, gli incolti di muncipazione.
In latino mancipatio è l’alienazione, trasferimento della proprietà per mancipium, presa di possesso (e pure schiavo).
In casa ci sono due bambini Mitia, figlio di Nikolaj, e Kolia figlio di Katerina che è adorata da Fenečka
Pavel è andato a vivere a Dresda dove passeggia tutto canuto ma ancora bello ed elegante con quella particolare impronta che si riceve da una lunga permanenza negli strati superiori della società. Gli inglesi lo considerano a perfect gentleman. Con i Russi si lascia andare di più ma con garbo, negligenza e decenza. Si attiene ai punti di vista slavofili che nella società superiore sono un segno di distinzione. Non legge libri russi ma tiene sulla scrivania un portacenere d’argento in forma di ciabatta da contadino. I tedeschi lo adorano e lo invitano alla Cappella di corte e a teatro: der Herr Baron von Kirsnoff.
Fa sempre del bene e ancora un po’ di rumore: non per nulla era stato ai suoi tempi un rubacuori. Ha 50 anni.
Le ultime parole sono sulla tomba di Bazarov dove vanno due vecchietti ormai decrepiti. Si inginocchiano sulla pietra e piangono. Ma le loro lacrime non sono infruttuose. I fiori sulla tomba parlano dell’eterna conciliazione e della vita infinita.
Cfr. la quercia di Guerra e pace: “La quercia fiorisce per convincere Bolkonskij che il suo cuore tornerà a vivere. Questa consonanza tra l'uomo e il mondo che lo circonda raggiunge perfino le tazze in cui Nestore cerca la saggezza quando il sole scompare, e le foglie delle betulle che scintillano improvvisamente come un mucchio di gioielli dopo la tempesta che si è abbattuta sulla proprietà di Levin. Le barriere che dividono la mente e l'oggetto e le ambiguità che i metafisici scorgono nella nozione stessa di realtà e di percezione, non furono di impedimento né a Omero né a Tolstoj. La vita li inondava come un mare. Ed essi ne godevano"[45].
Vediamo il brano della quercia in Guerra e pace. Significa l’armonia tra l’uomo e la natura.
“Dalla dura corteccia secolare erano spuntate, sprovviste di rami, fresche, giovani foglie, tanto che non riusciva a credere che le avesse generate quel vegliardo.
“Sì, è proprio quella stessa quercia” pensò il principe Andrej, e di colpo senza alcun motivo lo assalì un senso primaverile di gioia e di rinnovamento…No, la vita non finisce a trentun anni”, pensò a un tratto il principe Andrej con decisione ferma e immutabile” (pp. 634 - 635).
Cfr. anche la morte di Adone: “quod in adulto flore sectarum est indicium frugum” (Ammiano Marcellino, XXII, 9).



CONTINUA

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[45] G. Steiner, op. cit., p. 81.

Ifigenia CXLIV- Cornelia la Berlinese, l’ ottima amica dai buoni consigli.

    “La persona buona è anche intelligente-continuò Cordelia- ed è pure bella. L’avevano capito i maestri greci che ci hanno insegna...