lunedì 27 maggio 2019

Italo Svevo. L'uomo e l'inetto. 7a parte


Dostoevskij
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Un poco di Dostoevskij
L’ozio non ignobile ma per lo più inattivo del principe Myškin
Il principe Myškin ritiene connaturata all’uomo e naturale la felicità: “Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimenti…ma quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto, belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle sempre belle? Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene…”[11].
Viveva senza la minima diffidenza. Per la sua malattia non conosceva le donne. In Svizzera parlava con i bambini: diceva loro tutto senza nascondere nulla. I genitori si stizzivano. Il maestro di scuola era geloso di lui, e lo canzonava quando diceva che i veri maestri erano i bambini i quali ci curano l’anima.
Nell’Idiota c’è un deprezzamento evangelico della razionalità degli adulti.

Insegnare infatti significa imparare. Non tutti gli insegnanti sono dei fannulloni.
Non dobbiamo dimenticare che l'insegnamento e l'apprendimento sono interdipendenti: "homines, dum docent discunt "[12] mentre si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto: "Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[13], vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare.
Dobbiamo dirlo ai nostri studenti: “Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari”[14].
 Tutti gli insegnanti, tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di imparare :"semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto Marziale[15] (12, 51, 2).

Ancora sull’Idiota
Però il principe Myškin non si trovava a suo agio con gli adulti. Il mio destino mi portava verso i ragazzi (…) Gli adulti lo credevano un idiota.
Dice ad Aglaja: la bellezza è un enigma. Siete tanto bella, che si ha paura a guardarvi. La bellezza è una forza con la quale si può rovesciare il mondo.
Viene frainteso. Totzkij pensò: “Idiota com’è, sa nondimeno benissimo che la via dell’adulazione è la migliore”.
Dal suo viso traspariva sempre la stessa ingenuità e fiducia, ben lontana dal sospettare una derisione o una burla
Ippolit aveva scritto “un moscerino in un raggio di sole partecipa del festoso banchetto della vita, mentre io ne sono escluso” (p. 531) Era stato rinnegato dalla natura. Il principe era anche poco istruito
Aglaja gli dice che deve rompere il vaso cinese del salotto. Eseguite uno di quei gesti che fate sempre: urtate il vaso e fatelo cadere in frantumi.
Ma il principe vorrebbe evitarlo. Si trova in un salotto dove tutto era falso. I presenti si odiavano o provavano fastidio l’uno dell’altro ma fingevano di essere amici. Avevano riunito quella compagnia per convenienza e tutti credevano di fare agli Epančin un grande onore con la loro presenza. Il principe non poteva capire simili sottigliezze.
Il principe parla contro il cattolicesimo romano “peggiore dello stesso ateismo”. L’ateismo predica il nulla e il cattolicesimo predica un Cristo travisato e calunniato dallo stesso cattolicesimo che predica l’Anticristo. Il cattolicesimo è la continuazione dell’impero romano. Ogni cosa è stata venduta da Roma per denaro. L’ateismo nasce dal disgusto del cattolicesimo. Da noi si trova nelle classi privilegiate che hanno perso la loro radice; in Europa l’ateismo sta entrando nelle masse del popolo per l’odio suscitato dalla Chiesa. Anche il socialismo è prodotto dal cattolicesimo. Si sostituisce lo scomparso potere morale del cristianesimo con la violenza. Per resistere all’Occidente bisogna che il nostro Cristo risplenda. Non dobbiamo lasciarci pigliare all’amo dai Gesuiti ma portare all’Occidente la nostra civiltà russa. Colui che ha rinnegato la sua terra natale ha anche rinnegato il suo dio.
Tutti i presenti erano costernati da questa tirata. Il principe stava lontano dal vaso cinese per paura di romperlo, siccome aveva il presentimento che l’avrebbe rotto. In effetti lo ruppe. Provò una spavento mistico
Aglaja lo ama per la sua nobiltà e semplicità d’animo e per la fiducia illimitata. Chiunque volesse potrebbe ingannarlo ed egli lo perdonerebbe.
Il principe alla fine muore e la sua bontà rimane inattiva.
La nequitia dell’innamorato
 Properzio intende servire l'amata e la sua è una vera e propria condizione di schiavitù...Questo atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali della morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano obblighi della donna nei confronti dell'uomo: accettare il servitium alla donna significa, oltre che nullo vivere consilio [16], seguire la nequitia la cattiva condizione (cfr. nequam, “buono a nulla”), e rinunciare nel tempo stesso ai vantaggi della vita socialmente impegnata; il poeta sa bene che questo atteggiamento farà di lui un oggetto di biasimo in tutta la città (2, 24, 5 sgg.): ma l'amore è furor che divora e contro una simile malattia non esistono rimedi[17]. Cfr. la Medea e la Fedra di Seneca.

Gli elegiaci infatti dichiarano il loro essere prigionieri (e prigionieri consapevoli) della nequitia, inettitudine, dunque il loro non essere buoni cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello socialmente approvato.

Ovidio prima dei Remedia ribalta tale tradizione affermando che l'amore "riscatta il poeta dall'ignavia “inazione” e dalla segnities “indolenza” perché l'amore è guerra, e richiede e sviluppa nell'innamorato le stesse qualità fisiche e psicologiche che l'esercizio della guerra richiede e sviluppa nel soldato. L'amante - questo l'assunto dell'elegia, paradossale se si pensa all'antimilitarismo dei primi elegiaci - è perfettamente uguale al soldato e come quello dotato di forza, intraprendenza, attivismo. In questa identificazione tra sfera galante e sfera militare, il repertorio tematico della militia amoris con tutto il suo lessico militare conosce un utilizzo a pieno campo, e la tesi viene portata avanti adottando una delle tecniche che si studiavano nelle scuole di retorica del tempo, quella della comparatio ( confrontando due diverse realtà, se ne mostrano somiglianze e divergenze)"[18].
Le attività raccomandate da Ovidio sono innanzitutto quelle "del foro e della guerra, il cui rifiuto voleva dire per il poeta elegiaco rinuncia alla carriera e alla rispettabilità" .

Eros si associa a Eris:
Negli Amores leggiamo:"Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis amans "(I, 9, 1 - 2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato.

 Elogi della fatica e dell’impegno
 Tucidide
 “Sia quelli sono degni di lode, sia, ancor più, i nostri padri: infatti dopo avere conquistato, oltre a quanto avevano ricevuto, questo grande impero che abbiamo, non senza fatica, lo hanno lasciato in eredità a noi che siamo qui ora”( II, 36, 2).
L’elogio della fatica è topico e risale a Esiodo
Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
 Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
 Nei Memorabili[19] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).

Chi fa del bene conserva cavrin, gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere farlo

Tucidide, II, 40, 4.
E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi siamo il contrario dei più: infatti non ricevendo il bene, ma facendolo ci procuriamo gli amici (ouj ga;r pavsconte" eu\, ajlla; drw'nte" ktwvmeqa tou;" fivlou") E’ più sicuro chi ha fatto del bene, nella misura in cui conserva la gratitudine che gli è dovuta con la benevolenza per la quale ha donato; mentre chi è debitore è più lento, in quanto sa che deve ricambiare l’atto generoso, non per fare un dono gratuito, ma per dovere.

Tucidide, II, 40, 2.
C’è nelle medesime persone la cura degli interessi privati e nello stesso tempo degli affari pubblici, e per altri, rivolti ad altre attività, c’è la possibilità di conoscere i problemi politici in modo sufficiente: solo noi infatti consideriamo (nomivzomen) non pacifico (oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on), ma inutile chi non prende parte alla vita politica, e siamo noi che o decidiamo oppure esaminiamo bene i fatti, non considerando i discorsi un danno per le azioni, ma che lo sia piuttosto non essere informati con la parola prima di arrivare a ciò che si deve all’azione

Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche in La nascita della tragedia)
Nietzsche in La nascita della tragedia [20] considera Edipo un eroe della passività: “L'eroe raggiunge appunto nell'attitudine puramente passiva la sua attività suprema, la quale continua ad agire molto al di là della sua stessa vita, mentre il cosciente tendere e sforzarsi della sua vita precedente lo ha condotto solo alla passività".
Edipo trova la sua dimensione positiva nella passività di Colono, dopo avere fatto soffrire e avere sofferto assai nella fase dell'attività sconsiderata, così Giovanni Drogo in Il deserto dei Tartari di Buzzati scopre"l'ultima sua porzione di stelle"(p.250) e sorride nella stanza di una locanda ignota, completamente solo, mangiato dal male, accettando la più eroica delle morti, dopo avere sperato invano, per decenni, di battersi"sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera". Invece il suo destino si compie al lume di una candela, dove"non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo".
Del resto gli eroi della passività nella letteratura moderna sono tanti, da Oblomov di Goncarov, a Zeno di Svevo per dire solo i più noti.

Il peccato attivo di Prometeo che lo rivendica: "io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(265 - 267).

Quindi Nietzsche contrappone a Edipo Prometeo come personaggio illuminato dalla gloria dell'attività. Prometeo rappresenta anche l'artista titanico il quale "trovò in sé la caparbia fede di poter creare uomini o almeno di poter distruggere dèi olimpici: e ciò mediante la sua superiore sapienza, che era però costretto a scontare con un'eterna sofferenza"[21].
La rivendicazione di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia per distinguere "la concezione ariana" dal mito semitico:" La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica"[22]

Ultimo discorso di Pericle in Tucidide
Allora è giusto che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi - timaiv cfr. l’Iliade). E non conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.

Nel suo ultimo discorso, Pericle dice, avete un impero che è come una tirannide: esercitarlo può essere ingiusto, ma abbandonarlo pericoloso ( II, 63, 2).

Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2, 63). wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn, oramai l’avete come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva - to; ga;r a[pragmon ouj swv/zetai se non è schierata con l’attività

 Cfr. quanto dirà Cleone "turannivda e[cete th;n ajrchvn", III 37, 2, avete un impero che è una tirannide che si esercita su uomini ostili i quali non si lasciano comandare di buona voglia e la vostra superiorità è basata più sulla vostra forza che sulla loro benevolenza (ijscuvi ma'llon h] th'/ ejkeivnwn eujnoiva/ ).

Torniamo a Ovidio
Remedia per certi versi sono un controcanto all’Ars amatoria.
“L'argomentazione didascalica dei Remedia confuta l'elegia in uno dei suoi fondamentali presupposti ideologici: il rifiuto della vita attiva, la scelta deliberata dell'otium desidiosum. Se l'otium , la pigra mollezza, è alimento della malattia d'amore, la guarigione comincia già dall'impegnarsi in una vita attiva: Remedia amoris 143 s. qui finem quaeris amoris,/ (cedit amor rebus) res age, tutus, eris "[23] .

L'ozio come responsabile dell'amore riprovevole viene indicato anche da Menedemo, il punitore di se stesso, al figlio Clinia:"Nulla adeo ex re istuc [24] fit nisi ex nimio otio " (Heautontomorumenos [25], da nessun altro motivo reale deriva questa tua smania se non dall'ozio eccessivo.

Una delle operosità raccomandate per sfuggire al tormento amoroso è quella nell'agricoltura, " l'attività economica tradizionale del signore romano, ma che è raccomandata come modello di vita in cui i tratti dell'utile quasi cedono di fronte alle preponderanti attrattive estetiche che può offrire una tenuta di campagna. E naturalmente, fra i modi di combattere l'otium , non può mancare la passione per la caccia (e in subordine, per la pesca): l'inconciliabilità fra Diana e Venere è una di quelle opposizioni fondamentali che sono addirittura registrate nel codice antropologico.

Artemide dunque (la cacci) contro Afrodite (l’amore)
Cfr. l’Ippolito di Euripide dove la dea dell’amore entra in scena dicendo: : Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" (v. 1), grande tra i mortali e non oscura. In questa tragedia Afrodite distrugge il puro cacciatore Ippolito.

 La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497 - 498), Cipride porta con sé una grande potenza, sempre vittorie.

Mutatio locorum
Un aiuto per dimenticare può venire anche da un lungo viaggio senza voltarsi indietro: se l'amore è una guerra sia guerra scitica[26], o partica: "tempora nec numera nec crebro respice Romam,/sed fuge; tutus adhuc Parthus ab hoste fuga est " ( Remedia, vv. 224 - 225). non contare i giorni e non voltarti spesso a guardare Roma, ma fuggi, ancora il Parto si mette al riparo con la fuga.

Attività e metafore della caccia e della guerra sono impiegate nei Remedia per suggerire la fuga dall'amore: nell' Ars amatoria viceversa per la ricerca amorosa:"Il pregio maggiore dell'opera sta senza dubbio nel suo raffinato impianto metaforico: l'amore è descritto come caccia e come guerra, e queste immagini sono sviluppate con rigorosa coerenza (bagni, portici e spettacoli come terreni di caccia, doni e dolci parole come esche, appostamenti sotto la porta dell'amata come assedi)".
L'uomo al pari del cacciatore che sa bene dove tendere le reti ai cervi, (scit bene venatorcervis ubi retia tendat , I, 45) deve imparare a conoscere i luoghi frequentati dalle donne: portici, templi, fori, fontane, ma soprattutto i teatri ( sed tu praecipue curvis venare theatris , I, 89, ma tu soprattutto vai a caccia nei curvi teatri ) dove il figlio di Venere fa spesso le sue battaglie e chi ha osservato lo spettacolo di ferite, ha una ferita:"Illa saepe puer Veneris pugnavit arena /et ,qui spectavit vulnera, vulnus habet " I, 165 - 166.
L'anfiteatro dunque è un luogo di battaglie e ferite raccomandato per gli incontri erotici che hanno una componente conflittuale come i ludi del circo. Le donne più raffinate si precipitano ai giochi più frequentati:"Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet" (I, vv. 99 - 100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore. -

 Già Properzio prima di Ovidio nei Remedia aveva affermato l'opportunità della ritirata altrove per salvarsi dalla pena amorosa:"Magnum iter ad doctas proficisci cogor Athenas/ut me longa gravi solvat amore via./Crescit enim assidue spectando cura puellae:/ipse alimenta sibi maxima praebet Amor./Omnia sunt temptata mihi, quacumque fugari/ possit; at ex omni me premit ipse deus./…Unum erit auxilium: mutatis Cinthya terris/Quantum oculis, animo tam procul ibit amor./ Nunc agite, o socii, propellite in aequore navem "III, 21, 1 - 6; 8 - 10), sono costretto a partire per un grande viaggio verso la dotta Atene perché un lungo tragitto mi liberi da quest'amore opprimente. Cresce infatti continuamente osservandola il tormento della ragazza: Amore si fornisce da solo l'alimento più grande. Le ho tentate tutte, da qualunque parte si potesse mettere in fuga; ma da ogni parte mi opprime lo stesso dio…resterà solo un rimedio: mutato luogo, Cinzia, quanto dagli occhi tanto lontano andrà Amore dal cuore. Ora avanti, compagni, spingete nel mare la nave.

Da Ovidio e Properzio dunque viene ribaltato il topos dell'inutilità della mutatio locorum che si trova in Orazio: "Caelum, non animum, mutant qui trans mare currunt/strenua nos exercet inertia " (Epistole, 1, 11, 27 - 28), cambiano il cielo, non lo stato d'animo quelli che corrono al di là del mare, un'irrequieta indolenza ci tiene in ansia.
 Quindi Seneca scriverà:" Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster, "terraeque urbesque recedant" [27], sequentur te quocumque perveneris vitia " (Ep. a Lucilio , 28, 1), l'animo devi cambiare, non il cielo. Anche se avrai attraversato il mare immenso, anche se, come dice il nostro Virgilio, "terre e città si allontanano", dovunque sarai giunto ti seguiranno i vizi.
 E ancora: "Nullum tibi opem feret iste discursus; peregrinaris enim cum adfectibus tuis et mala te tua sequuntur…Quid ergo? animum tot locis fractum et extortum credis locorum mutatione posse sanari? Maius est istud malum quam ut gestatione curetur ...Nullum est, mihi crede, iter quod te extra cupiditates, extra iras, extra metus sistat " (Ep. a Lucilio , 104, 17 - 19), questo correre qua e là non ti porterà nessun vantaggio; infatti vai in giro con le tue passioni e i tuoi vizi ti seguono… che dunque? credi che l'animo in tanti luoghi ferito e slogato possa sanarsi col cambiar luogo? Il male è troppo grande per essere guarito con una passeggiata...Non c'è viaggio, credimi, che ti metta al riparo dalle passioni, dall'ira, dal timore.

Tra i contemporanei Galimberti dubita che il viaggiare da turisti possa davvero scuoterci l'anima:"La gente viaggia (diceva Orazio:"Non è cambiando il cielo che si cambia animo") probabilmente per un bisogno di evasione, per dare una scossa alla propria condizione psicologica. Evasione vuol dire "uscir fuori", ma non mi pare che nei viaggi si esca davvero fuori". Infatti è tutto prenotato, codificato, previsto. "Del viaggio perdiamo dunque l'ultimo scrigno segreto che potrebbe offrirci: lo spaesamento"[28].

 “I “bennati” sentivano se stessi come “felici”…poi essi, uomini superdotati di forza e perciò stesso necessariamente attivi, riuscivano a non separare l’agire dalla felicità - l’essere attivi era per loro considerato come qualcosa di attinente necessariamente alla felicità (da cui eu\ pravttein) - tutto ciò in netto contrasto con la “felicità” a livello degli impotenti, degli oppressi, dei piagati”[29]
L’Edipo a Colono , l’eroe della passivitàdi Sofocle però mostra ancora nel modo più puro l’accento di una conciliazione proveniente da un altro mondo. Ismene dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj ojrqou`si, provsqe d’ w[llusan (394)

Dopo Sofocle non c’è più consolazione metafisica, indicata da Nietzshe in La nascita della tragedia, bensì l’eroe che fa un buon matrimonio o, come il gladiatore, viene prima scorticato poi riceve la libertà. E al posto della consolazione metafisica subentra il
deus ex machina. La consolazione metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa voglia di vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda serenità è la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e utilizza il dio delle macchine e dei crogiuoli.
E’ il credere a una correzione del mondo per mezzo del sapere, credere a una vita guidata dalla scienza. Una canuta o calva assennatezza.

La logica imperialistica
Alcibiade "svolge dinanzi all'assemblea popolare il disegno vertiginoso della conquista di tutta la Sicilia e del dominio su tutta la Grecia, dichiarando che lo sviluppo di una potenza come quella d'Atene non si può razionare: chi la detiene, non può conservarla che con l'estenderla sempre più, giacché la sosta significa pericolo di decadenza"[30]. Meritano di essere trascritte alcune parole di questo seduttore delle donne e del popolo :" kai; th;n povlin, eja;n me;n hJsucavzh/, trivyesqaiv[31] te aujth;n w{sper kai; a[llo ti"(VI, 18, 6) e la città, se rimarrà tranquilla si logorerà da sola, come qualsiasi altra cosa. Ecco dunque un personaggio in cui il " carattere di tutta la stirpe è genialmente personificato: ciò spiega la sua influenza irresistibile sul volgo, sebbene a questo egli fosse inviso per il suo atteggiamento presuntuoso e altezzoso nella vita privata"[32].
Cfr. I Corinzi su gli Ateniesi in Tucidide
Insomma, sintetizzano i Corinzi, se uno, riassumendo, dicesse che sono nati per non avere pace loro e non lasciare in pace[33] gli altri uomini, direbbe la verità:"w{ste ei[ ti" aujtou;" xunelw;n faivh pefukevnai ejpi; tw'/ mhvte aujtou;" e[cein hJsucivan mhvte tou;" a[llou" ajnqrwvpou" eja'n, ojrqw'" a]n ei[poi", I, 70, 9). Questo dinamismo psicologico degli Ateniesi dunque ne spiega i successi:"In contrasto con lo sfondo della lentezza e indolenza, dell'onestà di antico stampo e della ristretta perseveranza di Sparta, risalta la descrizione della vivacità ateniese, in cui si mescolano l'invidia, l'odio e l'ammirazione dei Corinzi: perpetua intraprendenza, grande slancio nel concepir disegni come nell' osare, una flessibilità che fronteggia ogni situazione e non viene meno neanche nell'insuccesso, anzi ne è spronata a più alte imprese", commenta Jaeger[34].
Gli Ateniesi assomigliano all'Edipo di Sofocle, quello attivo dell’Edipo re e del suo antefatto, non quello passivo dell’Edipo a Colono.


CONTINUA

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[11] F. Dostoevskij, L’idiota, p. 700 -
[12] Seneca, Epist., 7, 8.
[13] Seneca, Epist., 76, 3.
[14] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 92.
[15] 40ca - 104 d. C.
[16]I, 1, 6, vivere senza alcun proposito sano, secondo la docenza di Amor improbus che gli insegnò perfino a odiare le ragazze caste:"donec me docuitcastas odisse puellas " (v. 5).
[17]P. Fedeli, Introduzione a Properzio, Elegie , pp. 19 - 2O.
[18]G. B. Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 165.
[19] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[20] Capitolo VIII.
[21] La nascita della tragedia, cap. IX.
[22] F. Nietzsche. La nascita della tragedia, cap. IX
[23] G. B. Conte, introduzione a Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 39.
[24] Pronome neutro derivato da istud+ il deittico - ce.
[25] Il punitore di se stesso , commedia di Terenzio del 163 a. CJ
[26]Nel IV libro delle Storie Erodoto racconta la fallita spedizione di Dario contro gli Sciti descrivendo i costumi di questo popolo e il loro modo di guerreggiare: facevano terra bruciata e si allontanavano , una strategia non molto diversa da quella dei Russi descritti da Tolstoj che in Guerra e pace definisce ancora " piano di guerra scitica" quello "mirante ad attirare Napoleone nelle regioni interne della Russia" (p. 1031).
[27]Eneide III, 72, quando i Troiani si allontanano dalla Tracia.
[28] La lampada di Psiche , p. 48 e p. 51.
[29] Genealogia della morale, 7.
[30] Jaeger, Op. cit. p. 675.
[31] Trivbw, logoro, perdo tempo; diatribhv, conversazione, passatempo.
[32] Jaeger, Op. cit. p. 676.
[33] Cfr. la Medea di Seneca quando entra in scena Creonte che manifesta timore per la donna barbara:"cui parcet illa, quemve securum sinet?" (v. 182), chi risparmierà quella o chi lascerà in pace?

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