mercoledì 26 dicembre 2012

Il colpo di stato - di Giovanni Ghiselli

Da più di un anno la democrazia è stata negata di fatto da un colpo di Stato in nome della tecnocrazia, di quel potere dei tecnici dalla parola e dallo sguardo freddo, gli umbratici doctores, i professori cresciuti nell’ombra, dai quali ci aspettiamo rassegnati l’imposizione di quei 
sacrifici che non abbiamo permesso ci venissero addossati dal ludico, alquanto ridicolo dominus  già tramontato. Costui era un magister ludi che ci ha fatto anche ridere con i suoi innumerevoli cachinni,
non sine candidis et nigris puellis.
Ora si mette di nuovo in gioco.

Questi sdegnosi servitori della finanza, se pure negano di averci spremuto sangue con lacrime, di sicuro non ci hanno fatto ridere. Siedono freddi nell’ombra fredda,  molti uccelli giacciono spennati ai loro piedi.
Uccelli piccoli e deboli del resto. Mi sembra dunque il momento di passare in rassegna pregi e difetti, elogi e biasimi della democrazia, il regime che si fa derivar dalla costituzione e dal governo di quel grande e vero signore che fu Pericle.
Finché questo stratego visse, ad Atene vigeva un’aristocrazia con il consenso della massa, secondo la
definizione data da Aspasia nel Menesseno di Platone (238d). Inoltre questo governo era un regime educativo, tale che non escludeva nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei
padri; e neppure preferiva alcuno per i motivi contrari. Chi era reputato saggio e onesto, otteneva il consenso e le cariche. Questo era possibile poiché i cittadini nascevano uguali, ossia con le medesime possibilità di sviluppo.
Aspasia compose tale discorso encomiastico perché venisse recitato da Pericle, secondo Socrate.

Infatti gli stessi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dal grande stratego ateniese nel discorso che Tucidide gli fa pronunciare, in encomio dei caduti nel primo anno di guerra, e in elogio di Atene, la scuola dell’Ellade. Vediamo alcune frasi iniziali del lógos epitáfios di Pericle: “In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia: per legge c’è una condizione di uguaglianza per tutti, e uno viene preferito alle cariche pubbliche, secondo la reputazione, per come viene stimato in qualche campo, non per il partito di
provenienza più che per il suo valore; né d’altra parte, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale” (Storie, II, 37, 1).
In altre parole nessuno era avvantaggiato, né svantaggiato per il partito da cui proveniva, né alcuno
veniva inceppato dalla povertà o dalla modesta posizione sociale, se poteva fare qualche cosa di buono per la comunità. Questo principio sacro, attualmente profanato, si trova altresì nell’articolo 3 della Costituzione italiana.
I nostri padri costituenti, che sicuramente avevano letto Tucidide, stabilirono che “Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Entrambe le costituzioni ricordate evidenziano il fatto che se non c’è l’uguaglianza, non c’è vera libertà. Lo ripeterà Giacomo Leopardi nello Zibaldone (923). Di  certo questi tecnocrati, banchieri e finanzieri vari, non si sono adoperati in favore dell’uguaglianza e delle pari opportunità per tutti, condizioni senza le quali non c’è vera democrazia.
Dopo l’encomio, sentiamo alcune opinioni contrarie al regime celebrato da Pericle.
Severo critico della democrazia demagogica, radicale e sfrenata, è Platone che nell’VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà di questa politeia che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi si vanta di essere amico del popolo. E’ una costituzione anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (558c). In questo passo c’è l’idea che l’uguaglianza imposta a persone diverse e disuguali sia opera di un regime privo di giustizia.
Può sembrare un’idea elitaria e reazionaria, ma la presenta anche Don Milani, in un contesto tutt’altro che elitario: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”.
Le commedie di Aristofane mettono in rilievo e in ridicolo l’impudenza dei demagoghi succeduti a Pericle,
in particolare quella di Cleone, e la parzialità del tribunale popolare dell’Eliea che avrebbe perseguitato i ricchi e i nobili. Come con Berlusconi c’è stata la psicosi del comunismo, allora c’era la fobia della tirannide.
Diffuse, entrambe, per coprire malaffare e malefatte. 

Per esempio: se uno voleva comprare degli scorfani, il venditore di sardelle che non li aveva, accusava
l’appassionato di scorfani di volerne fare provvista per la tirannide (Vespe, 495). Se uno chiedeva una cipolla per condire le alici, l’ortolana, sprovvista di cipolle, gli domandava minacciosamente se voleva una cipolla per la tirannide (498). Sicché gli Eliasti, i giudici popolari, che valutavano in modo arbitrario tali denunce assurde, erano corteggiati e lusingati da tutti.Una critica più seria, sostenuta da diversi autori (oltre Platone, Isocrate, Aristotele, Senofonte, lo Pseudosenofonte, Polibio) sosteneva che il demos (popolo) non voleva sottostare alla legge e che il suo krátos (potere) in realtà era una forma di strapotere svantaggioso per le persone educate e abbienti. La demokratía ateniese, secondo il giurista Guido Fassò, era una specie di dittatura del proletariato molto prima di Lenin.
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa
lasciandola libera, ma non si faceva condurre più di quanto la conducesse lui (II, 65, 8). Morto Pericle nel 429, però le cose cambiarono in peggio. Dopo la battaglia delle Arginuse (del 406) il popolo voleva condannare a morte gli strateghi che pure vincitori, non avevano salvato la flotta e molti marinai dal
naufragio.

La proposta era illegale in quanto non prevedeva di distinguere, secondo la legge, le responsabilità
individuali degli accusati. Durante il processo ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva (Senofonte, Elleniche, I, 7, 12). E’ questa la formula che caratterizza la degenerazione della democrazia secondo Polibio il quale sostiene che non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, lo è quella politeia presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi. Quando prevale il parere dei più, allora possiamo parlare di democrazia (Storie, 6, 4, 4).
Nel 2012 il parere del popolo, di tutto il popolo sul governo del paese, non è mai stato richiesto, e
quest’anno in Italia non c’è stata democrazia. L’apparenza ha coperto e violentato la verità, come altre volte nella storia, e la sbandierata giustizia è stata, di fatto, l’utile dei più ricchi.
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it

lunedì 24 dicembre 2012

Contro i filmacci natalizi - di Giovanni Ghiselli

Un simbolo del degrado culturale in cui è caduta l’Italia può essere costituito dai filmacci natalizi interpretati  da furbetti che fanno gli idioti, veri ossimori viventi.
Queste pellicole sembrano contraddire la festa della nascita di Cristo, o il dies natalis solis invicti, la rinascita del dio Sole, come i pagani consideravano le prime avvisaglie dell’allungarsi del dì.
Era l’eterno ritorno della luce, la più rallegrante delle cose visibili, simbolo di salvezza e di vita eterna.
Questi orribili film annualmente ricorrenti, ora per fortuna al tramonto, significano  l’eterno ritorno del cattivo gusto, della volgarità meno e peggio che plebea. Anticipo la domanda e l’obiezione che mi si potrebbe fare: “ma tu, ne hai mai visto almeno uno?”. Devo ammettere che non ho mai avuto lo stomaco di vederne uno intero, poiché la ripugnanza istintiva è scattata come una molla alla vista degli spezzoni nauseabondi mostrati in qualche programma televisivo. Lo stile di tali sottoprodotti disgustosi è il rovescio del bello con semplicità, amato da chi ha un minimo di educazione estetica e mentale. Si rimane sbalorditi e schifati dalla mancanza totale di idee, di sentimenti, di parole che esprimano un pensiero. Parlare male fa male all’anima:. Lo afferma Socrate nel Fedone platonico (115 e): “ sappi bene, ottimo Critone, che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime”
Aggiungerei che parlare male è pure un sacrilegio poiché “in principio c’era la Parola, e la Parola era con
Dio e la Parola era Dio (Vangelo di Giovanni, 1, 1).
Il cattivo agire è la prassi del cattivo parlare che è dunque la teoria del malaffare. L’incapacità di parlare
prelude alla violenza. Si pensi alle parole, al tono, allo stile con cui gli sciacalli e le iene commentavano il terremoto dell’Aquila.
La cosa peggiore di tali filmacci è che tali porcate generano la cattiva educazione in gente indifesa dalla
cultura. 
Ci sono tuttavia tanti giovani e non giovani desiderosi di cultura, addirittura bramosi di imparare cose belle e buone, magari anche difficili, ma utili a potenziare l’identità umana dell’uomo.
Partecipo tutti gli anni, anche come relatore, al festival della filosofia di Modena, a quello bresciano dei filosofi lungo l’Oglio e ad altre iniziative di alta cultura come il festival del dramma antico di Siracusa e  quello rossiniano di Pesaro; ebbene in tali occasioni di crescita mentale convergono nelle città  che le offrono migliaia di persone entusiaste, motivate  a sapere.
Le persone un poco attrezzate  capiscono e sentono che la cultura è davvero potenziamento della natura. Non è tanto l’erudizione, il sapere neutro (tò sofón) che produce e incrementa la vita, quanto la sapienza (sofìafemminile) una vera e propria alma mater.
Il gusto di quanti desiderano la sapienza è sensibile a un’educazione che pone dei fini al di là degli slogan
pubblicitari e delle mode. Anche le scuole, tutte le scuole, dovrebbero dotarsi di tale forza educativa. “Amiamo il bello con semplicità e la cultura senza mollezza”, dice il Pericle di Tucidide. Gli Ateniesi della sua polis venivano educati a teatro, e nell’agorá, da oratori e da poeti a loro volta stimolati dalla prospettiva di un popolo avido di sapienza e di bellezza.
Ebbene, credo che anche in Italia ci sia una parte non minima di popolazione che cambierebbe volentieri la volgarità propinata da tali presunti film, e da tanta televisione spazzatura, con cicli di conferenze tenute da studiosi bravi, con rappresentazioni frequenti di drammi e melodrammi, con visioni di film d’ autore magari anche commentati da critici dotati di gusto e competenza. Un poco alla volta cambierebbero in meglio i gusti di tutti. E pure l’etica generale ne trarrebbe vantaggio. Poiché la cultura rende migliori le persone, mentre
l’ignoranza degrada la natura della gente, e la carenza di idee, argomenti, parole, produce violenza.

Chi non è in grado di parlare da persona educata, usa le mani e i piedi per colpire il prossimo.
In effetti Cnemone, il Dyskolos di Menandro, invece di colloquiare, tira pietre e zolle a chi gli si avvicina
P. P. Pasolini aveva capito che la povertà del linguaggio è una forma di impotenza che prelude alla violenza:
“Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata” (Scritti corsari, p. 187).
Le porcate filmiche e televisive, in conclusione, tendono a corromperre il pensiero la lingua, e siccome noi
siamo animali linguistici, animali pensanti, se ci tolgono la lingua e, con questa squisita facoltà umana, il pensiero, rimaniamo animali senz’altro.
Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it

domenica 23 dicembre 2012

Natale - di Giovanni Ghiselli

Sta per  arrivare il 25 dicembre, il giorno della nascita di Cristo secondo i Cristiani; secondo i Pagani invece era il dì della rinascita del sole, il dies natalis solis invicti, nella loro concezione ciclica del tempo. Vedevano
aumentare i minuti della luce pomeridiana e capivano che la fiamma nutrice
della vita, il più benefico fra gli dèi, insomma Elio che tutto vede e tutto
sente, non si era spento.

In questi giorni di solstizio invernale, che di fatto costituisce l’inizio della
primavera, anche se una mente distorta1 lo ha classificato come il principio dell’inverno, vediamo allungarsi le giornate con un sospiro di sollievo.
D’altra parte la giostra eterna in cui tutto ritorna, il cerchio, il sentiero ricurvo
dell’eternità, ci riporta, sotto il cammino delle stelle, una serie di
scandali, mentre  tetre facce patibolari appaiono nelle televisioni per giurare sulla loro innocenza e sulla malizia di chi attribuisce loro intrighi e prepotenze.

Facciamo l’esempio dello sport più popolare: il calcio.
Una volta c’era, e forse c’è ancora, chi  voleva certi manipolatori di risultati “santi subito”, in un tripudio che ispirava ai tifosi delle  squadre favorite e vincenti pirriche frenetiche, vorticosi fandanghi e carole circolanti, con scellerata allegria, attorno ai troppi trofei figli di madre truffa. I tifosi del pallone in Italia sono certamente più numerosi degli adoratori del Sole, forse anche più numerosi, almeno tra i maschi, dei seguaci di Cristo; ebbene, in questi giorni di mezzo inverno, costoro, invece di gioire per il prossimo allungarsi delle giornate dopo sei mesi di malinconico declino della splendidissima fiamma solare, devono ancora una volta rattristarsi per la caduta di alcuni dei loro astri, precipitati, come Lucifero, dal cielo stellato all’inferno delle quaestiones perpetuae, le inchieste permanenti dei tribunali italiani che indagano su tangentopoli, calciopoli, escortopoli, lenonopoli, e così via. Chi crede nella purezza del calcio, chi pensa, come l’antico poeta Pindaro, che gli atleti siano eroi di stirpe divina o semidivina, subisce un brutto colpo, poi si rassegna o si abitua; chi,
cinicamente, brama soltanto la vittoria della “sua” squadra poiché dal tifare per lei ricava una identità, sia pure gregaria e becera assai, difende a oltranza gli idoli infranti e già dissacrati. Ma l’idolo supremo, quello cui si prostrano diversi presunti eroi degli stadi, l’idolo degli idoli dei tifosi sedotti, è il denaro.
L’uomo che pratica il culto dei soldi, fa parte del branco degli idolatri che già la Bibbia condanna:”Gli idoli
dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c’è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Salmi, 135, 15-18). Del resto sono diversi gli autori europei, antichi e moderni, che vedono nell’oro e nel denaro intascato illecitamente il grande demone corruttore dell’umanità. Molti uomini e donne, che leggono poco, vengono sedotti dalla pubblicità, la sirena maligna per obbedire alla quale è necessario procurarsi i quattrini con qualsiasi mezzo. Se la poesia di Sofocle, o la musica di Mozart, o i quadri di Piero della Francesca sono imitatio dei, la pubblicità è imitatio diaboli: mi stupisco che non sia proibita, almeno dagli uomini di chiesa.
Sentiamo alcune voci di autori che gridano, se non proprio nel deserto, per poche persone oramai. Tra cui io stesso e voi che mi leggete: “We few, we happy few, we band of brothers”[1].

Virgilio considera la brama dell’oro quale motore di efferati delitti, come quello perpetrato dal re di Tracia nei confronti dell’ospite troiano affidato alle sue cure dal padre Priamo :” Polydorum obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis , /auri sacra fames!”[2], massacra Polidoro e con violenza si
impossessa dell’oro. A cosa non spingi i cuori umani, maledetta fame dell’oro!
L’anatema di Seneca è meno violento, ma forse più appropriato alla fattispecie attuale. Il maestro di Nerone che, come noi, ha visto porcate di tutti i colori, scrive: 
“quello che può toccare agli uomini più spregevoli e infami non è un bene; ora le ricchezze toccano a un lenone e a un maestro di gladiatori; dunque non sono un bene[3]
E, poco più avanti :” il denaro va a finire nella tasca di certi uomini come una moneta in una fogna (quomodo denarius in cloacam[4].

Faccio solo un esempio tra i moderni, utilizzando di nuovo uno dei massimi autori di teatro. Shakespeare, nelTimone di Atene, definisce l’oro “uno schiavo giallo” che “cucirà e romperà ogni fede, benedirà il
maledetto e farà adorare la livida lebbra, collocherà in alto il ladro e gli darà titoli, genuflessioni ed encomio sul banco dei senatori”. Si pensi ai parlamentari italiani indagati per crimini vari. Quindi, subito dopo, il nostro
barbaro non privo di ingegno aggiunge :”Maledetta mota, comune bagascia del genere umano che metti a soqquadro la marmaglia dei popoli”[5] 

Il soqquadro attuale è il ribaltamento di tutti i valori.
Pare che il candidato Monti  si intenda di economia, eppure non capisce, o finge di non capire, che il regime diretto e riproposto da lui spreca il bene più prezioso che è lo spirito.
Giovanni ghiselli  g.ghiselli@tin.it



1 “E’ una beffa! A partire dall’inverno i giorni si allungano, e quando arriva il

più lungo, il 21 giugno, ossia l’inizio dell’estate, subito cominciano a
calare, si accorciano e si va verso l’inverno…E’ come se un buffone avesse
arrangiato le cose in modo tale da far cominciare la primavera all’inizio
dell’inverno e l’autunno all’inizio dell’estate” (T. Mann, La montagna incantata, cap. VI,
[1] Shakespeare, Enrico V,  IV, 3
[2] Eneide, III, 55-57
[3] Ep , 87, 15
[4] Ep , 87, 16
[5]Timone di AteneIV, 3.

sabato 15 dicembre 2012

Stefano Cucchi - di Giovanni Ghiselli






La questione morale non
può prescindere da un ritrovato e rinnovato umanesimo, nel senso di “amore per
l’umanità”.


Il decadere dell’umanesimo, il suo tramonto,
comportano l’insorgere dell’immoralità appunto, della sopraffazione, della
violenza sadica. Come quella di cui abbiamo triste, ripetuta notizia, e che non
dobbiamo smettere di denunciare, perpetrata su persone come Stefano Cucchi,
Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi massacrati al pari dell’Ecce homo dei Vangeli.






 Le loro ferite sono povere bocche tutt’altro
che mute. Chissà quante, del resto, sono rimaste silenziose e sconosciute. Temo
non siano poche, dato che, in questa folle rabbia antiumana c’è del metodo, e
c’è un’abitudine. La parola metodo contiene odós,
che significa “strada”. La strada della violenza va vietata per sempre; la mala
abitudine deve essere confutata e soppressa. Certe esplosioni di furia peggio
che bestiale da parte di chi è arruolato per garantire l’ordine e casomai
aiutare gli esseri umani in difficoltà, tali delitti contro l’umanità devono
subire castighi esemplari quando hanno già causato morti con lutti, ed essere
costantemente prevenuti con un’opera di educazione. “So di essere uomo e in
quanto tale mi sento in dovere di aiutarti. Anche io ho sofferto”, risponde
Teseo nell’Edipo a Colono al vecchio
mendico cieco, vagabondo incestuoso e parricida, che, cacciato da Tebe, gli ha
domandato come mai, lui che è re di Atene, ascolti e voglia esaudire le
preghiere provenienti dall’ultimo degli uomini. I picchiatori sadici, i
sanitari indifferenti o complici, gli addetti alle indagini frettolosi e
distratti dovrebbero acquisire proprio questa coscienza di essere uomo senza la
quale non c’è fondamento ma  l’abisso del
caos. Un’altra creatura di Sofocle, una ragazza, una sorella coraggiosa,
Antigone, si ribella al tiranno dicendo: “io non sono nata per condividere
l’odio ma l’amore”. E sacrifica la propria vita per dare sepoltura al fratello
Polinice inviso al despota, compiendo quell’ atto di pietas estrema rinnovato in questi giorni da Ilaria, la brava
sorella di Stefano Cucchi.


I massacratori
dovrebbero imparare a  mettersi nei panni
degli altri. Andrebbero educati con questo rimedio, una terapia  già suggerita da Pirandello nel saggio L’umorismo. La mancanza di riflessione
ci impedisce di immaginare il dolore del prossimo, le sue difficoltà, la sua
stessa umanità.





Da una parte
 anche i carnefici che massacrano o
trascurano i ragazzi ubriachi o drogati possono suscitare una qualche forma di
pur riluttante commiserazione, se pensiamo quanta miseria mentale, quali ordini
folli e criminali, quale ambiente possono averli indotti a tanto orrore;
dall’altra a costoro, anche se non sanno quello che fanno, anche se sono
“strumenti ciechi”, e
  vittime a loro
volta di una colossale ignoranza, deve essere impedito di fare altre vittime
quando si trovano tra le mani furibonde
 
persone deboli e indifese. Vanno puniti con severità e nello stesso
tempo educati a diventare persone. Bisogna metterli davanti a
  uno specchio perché vedano l’orrore del loro
sembiante di belve
  capaci di tali  misfatti: Perseo vinse la crudele Medusa
ponendo davanti al viso stravolto dell’ibrido mostro
  uno scudo lucido come uno specchio. Atena, la
dea della sapienza, la dea pensante, guidò la sua mano.
    


 Uomini e donne non si nasce, ma si diventa
usando sensibilità e intelligenza. Una regressione verso la bestialità è sempre
possibile dove manchino educazione, riflessione, comprensione del prossimo,
insomma il possesso e l’uso delle facoltà squisitamente umane. La strada che va
percorsa ogni giorno è quella che conduce “metodicamente” al riconoscimento
della propria umanità e al rispetto di quella degli altri.





Giovanni
Ghiselli. g.ghiselli@tin.it

sabato 1 dicembre 2012

Le lacrime teatrali dei politici sono a buon mercato come le bugie - di Giovanni Ghiselli













Più
di una volta abbiamo visto i politici piangere in pubblico. Ultimamente si sono
notate le lacrime di coccodrillo della Fornero e quelle da buona comare dell’ex
compagno Pierluigi Bersani sordo al monito di Orazio: “voi che avete coraggio
virile, togliete di mezzo il lamento da femmine”[1]  






 Abbiamo visto scene per niente commoventi né
convincenti.


Possiamo
paragonarle alle lacrime presenti in letteratura, ai pianti degli eroi e delle
eroine, e ricordare la valutazione  che
ne danno diversi autori.


Partiamo
da Achille, il giovane superuomo, sicuro della propria forza, incapace di
cedere, che nondimeno, alla notizia della morte di Patroclo, si versò la cenere
in testa, si gettò nella polvere. Quindi 
“singhiozzava nel petto glorioso”[2].


 Si addice tale atteggiamento al primo dei
guerrieri greci sotto le mura di Troia?


Ebbene,
Platone nella Repubblica[3] sostiene che gesti di disperazione, pianti e lamenti
non si confanno agli eroi, e Omero non avrebbe dovuto rappresentare un Achille
pazzo e piagnone.


Il tragediografo Sofocle scolpisce personaggi di stoffa assai forte,
uomini e donne, anche molto giovani, incapaci di qualsiasi compromesso e poco
propensi a intenerirsi. Secondo questo autore religiosissimo, pascersi di lacrime è una voluttà
depravata ed empia poiché significa non riconoscere la giustizia divina.


Oltretutto lacrimare in pubblico è sconveniente per
una persona di rango: nell'Antigone  il messaggero
che ha raccontato la catastrofe della casa reale, spera che la regina di Tebe,
appreso il suicidio del figlio, se proprio deve spargere lacrime, lo faccia
sotto il suo tetto, non in pubblico[4].


Anche Tomasi di Lampedusa considera cosa indegna di un aristocratico la
spudoratezza manifestata da chi si lamenta davanti a tutti :"Questi nobili
poi hanno il pudore dei propri guai… L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia,
la querimonia, no”[5].


Ci sono del resto autori più 
indulgenti  verso i personaggi
lacrimosi.


A Leopardi, Achille  piace
più di Enea, proprio per i difetti, le debolezze e le intemperanze dell’eroe
greco.


Il poeta di Recanati infatti
sostiene che  "L'eroismo e la perfezione sono cose
contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto "[6].


All'ultimo grande tragediografo ateniese interessano
le situazioni che grondano lacrime. Vediamo dunque alcuni elogi del pianto
nelle tragedie di Euripide.


Il piangere, come scarso controllo delle emozioni,
come uscita dalla realtà, può essere consolatorio: nelle Troiane, il
Coro commenta le tante lacrime versate per le case e le famiglie distrutte, con
queste parole: "come sono dolci le lacrime 
per quelli che vivono male/e i lamenti dei pianti e una musa che narri
il dolore"(vv. 608-609). La poetica del drammaturgo espressa nella Medea assegna alla  poesia la funzione di consolare le lacrime
presenti raccontando storie di pianti antichi .  


La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal
piangere che può essere addirittura piacevole: nell'Elettra, la protagonista umilita,  vestita da serva e con il capo raso, si tiene
viva con il pianto "avanti, ridesta il medesimo lamento/solleva il piacere
dalle molte lacrime "  ( vv. 125-126).


Nell'Elena,  Menelao, naufrago in Egitto, afferma: "le
lacrime sono la mia gioia: hanno più /grazia che dolore"(654-655).


Negli anni Cinquanta, ai bambini i genitori dicevano che non dovevano
farsi vedere mentre piangevano, poiché “il pianto è cosa da femmine”.


Tale affermazione, che ai tenerissimi babbi  di oggi può sembrare assurda, ha un precedente
nobile nel più grande storiografo latino. Tacito, descrivendo i costumi dei
Germani che considera  sani in confronto
ai mores corrotti dei Romani, nota
che presso  quel popolo di uomini forti,
i pianti dei maschi e quelli delle femmine 
sono reputati in modo diverso: :"Feminis lugere honestum est, viris meminisse "[7], per le donne è bello piangere, per gli uomini
ricordare.


Allora torniamo ai nostri politici e concludiamo.


Io credo che invece di piangere, chi ha del potere, dovrebbe adoperarsi
per il bene pubblico e che farebbe benissimo a impiegare il proprio pathos, la
propria commozione, tutte le proprie energie insomma, per asciugare le lacrime
della povera gente che ha ragioni molto serie, per versare lacrime vere. Quelle
degli uomini e delle donne potenti mi sembrano piuttosto dettate da esigenze di
scena.


Marziale le chiama iussae
lacrimae
[8], lacrime a comando.


Non lasciamoci impressionare dunque 
da qualche goccia che scende su quei volti mascherati: quelle  stille non sono spremute dal dolore per le
sofferenze umane e non sgorgano dal cuore: sono vane e  a buon mercato come le bugie[9].


Sia chiaro d’altra parte che nemmeno il faccione ridente con denti da
squalo giulivo di Matteo Renzi , né quello triste da pescecane che non ha
acchiappato la preda di Angiolino 
Alfano, e nemmeno la sguaiataggine becera, a volte anche disumana di
Beppe Grillo comunicano buone emozioni e buone speranze.


Con chi sto? Con quelli che lavorano per il bene comune e ce la mettono
tutta, nonostante tutto. Don Gallo, per esempio, o Ingroia.    







Note:




[1] vos quibus est virtus, muliebrem tollite luctum ,  Epodo XVI, v. 39




[2] Iliade, XVIII, 53.




[3]Repubblica , 388b.




[4] Antigone, vv. 1246-1249.




[5] Il Gattopardo, p. 135




[6] Zibaldone, 471 




[7] Germania, 27, 1.




[8] Epigrammi, I, 33.




[9] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 6.









di Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it













Contro la pena di morte - di Giovanni Ghiselli













Ho sentito che al Colosseo c’è
una
 manifestazione contro la pena di
morte.


Sacrosanta adunata di persone per
bene, da approvare senza riserve, da parteciparvi. Voglio prendervi parte con
questo modestissimo contributo da antichista, ricordando espressioni di autori
appunto antichi, eppure più civili, umani e moderni degli attuali fautori della
pena di morte.






Infatti c’è ancora gente  che considera un atto di giustizia il vero e
proprio omicidio che è l’esecuzione capitale. Sono gli stessi uomini disumani
che  plaudono ai bombardamenti sulle
abitazioni civili in nome della democrazia.


Lo
spargimento a terra del sangue umano è un’empietà tra le più terribili. C'è una
simpatia organica che lega tutti i viventi alla madre terra. Questa si offende
se una sua creatura viene ferita: "una
volta caduto a terra nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo,
chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?" domanda il Coro dell'
Agamennone di Eschilo (vv.1019-1021).


E
nelle Coefore:" quale lavacro
c'è del sangue caduto nel suolo?" (v. 48).


Alla fine dell’Orestea, Oreste, che pure ha ucciso la propria madre, non viene
condannato a morte, e le Erinni, le dèe della vendetta, sopravvivono come
Eumenidi, cioè le Benevole.


 “Dopo l’intervento razionale di Atena, le Erinni-forze
scatenate, arcaiche, istintive, della natura-sopravvivono: e sono dee, sono
immortali. Non si possono eliminare, non si possono uccidere. Si devono
trasformare, lasciando intatta la loro sostanziale irrazionalità: mutarle cioè
da “Maledizioni” in “Benedizioni”. I marxisti italiani non si sono posti,
ripeto, questo problema”[1]





Quando Caino ebbe
ucciso Abele, Dio gli pose un suo segno perché tutti vedessero che apparteneva
a lui e nessuno lo colpisse. E stabilì che chiunque avesse ucciso Caino avrebbe
subito la vendetta sette volte (Genesi,
4, 23).





La
pena di morte è l’attualizzazione nefanda dei barbarici, orrendi sacrifici
umani.


Contro questi si esprime umanamente  la vecchia regina troiana nell'Ecuba
di Euripide che accusa la disumanità dei vincitori:"forse il
dovere li spinse a immolare un essere umano/presso una tomba, dove sarebbe più
giusto ammazzare un bue? (vv. 254-261).


Ma adesso è di moda l’animalismo
per cui tanti seguaci e servi del modo di pensare dei più, esecrano
maggiormente l’uccisione di un cane che quella di un uomo.


Poco più avanti Ecuba, che ha
visto morire innumerevoli persone in guerra e nell’eccidio di Troia, supplica
Odisseo di non uccidere la figlia Polissena con un verso che è un'alta
espressione di umanesimo in favore della vita: " non ammazzatela: ce ne
sono stati abbastanza di morti (v. 278).


Oggi la vita non viene rispettata
come il valore supremo e chi guida le automobili ha praticamente la licenza di
uccidere ciclisti e pedoni. Non ne sono morti abbastanza?


Perché  nel femminicidio, giustamente esecrato, non
vengono contate le ragazze, le donne incinte e non incinte, le anziane uccise
dalle macchine a centinaia ogni anno?


Nelle tragedie di Seneca che
inorridiva davanti ai circenses dove
l’eterna plebe dell’epoca di Nerone assisteva a veri e propri omicidi, godendone,
 torna l’abominio dei sacrifici umani che
sono gli antecedenti della barbarica pena di morte. L’uomo ha inventato bibbie
e bombe: è stato mostruosamente grande quando ha fatto alcune scoperte, ed è
diventato un mostro facendone un uso omicida.


Nelle Troiane, Agamennone prende
posizione contro lo spietato Pirro che esige il sacrificio di Polissena: "
tutto ciò che può sopravvivere di Troia sconvolta, rimanga: è stato fatto
pagare abbastanza in fatto di pene, e anche troppo. Non sopporterò che la
ragazza figlia della regina muoia, e la sua vita sia donata a una tomba, e  spruzzi di sangue  le ceneri, e 
chiamino cerimonia nuziale il crimine atroce di un assassinio: la colpa
di tutti i misfatti ricade su me: chi non impedisce un delitto, quando può, è
come se lo avesse ordinato (vv.285-291).


Se deve essere fatto un
sacrificio in onore di Achille, continua il dux, "caedantur
greges/fluatque nulli flebilis matri cruor
" (vv. 296-297), si
ammazzino animali del gregge e scorra il sangue che non faccia piangere nessuna
madre umana.


Ma adesso le madri umane vengono
protette meno delle mamme gatte e delle mamme cagne.





Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it











[1]
P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p.
54.




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