mercoledì 30 gennaio 2013

La transvalutazione lessicale

 Diversi autori fanno notare che nei periodi critici il valore delle parole cambia per una specie di slittamento linguistico che si accompagna a una   sorta di sdrucciolamento estetico e  morale. Credo che questi anni della nostra vita siano un tempo siffatto. Faccio prima alcuni esempi ricavati dagli antichi, poi vengo a parlare di noi.
Tucidide racconta che  durante la stavsi" , la guerra civile di Corcira [1]
ci fu una  tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:" tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni 
di partito. 
Il medesimo fenomeno rileva Sallustio nel  tempo di Catilina.
 Nella monografia sulla congiura del 63 a. C. lo storiografo ricorda che Catone, parlando in senato dopo e 
contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Se passiamo dalla storiografia alla tragedia, la Fedra di Seneca cerca di  darsi coraggio per venire meno alla  fedeltà coniugale dicendo a se stessa: “ honesta quaedam scelera successus facit " (Fedra, v. 599), il successo rende certi delitti atti di virtù.
Concludo la rassegna dei testi con una tragedia di Shakespeare che non ignora né dimentica Seneca: nel Macbeth,  la moglie di Macduff, quando viene invitata a fuggire da un messaggero, prima che arrivino i sicari del sanguinario tiranno,  risponde: “Whither should I fly?-I have done no harm. But I remember now.- I am in this earthly world where to do harm-is often laudable; to do good, sometime-accounted dangerous folly” (IV, 2), dove dovrei scappare? Io non ho fatto del male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo dove fare il male è spesso lodevole; fare il bene, talora è considerata pericolosa follia.
Ma ora, è già tempo, veniamo ai giorni nostri, e confrontiamoli con quelli pieni di speranze della gioventù che fece il ’68. Non so se era la meglio gioventù. Era comunque una gioventù che stava, si sentiva meglio.  Anche se poi le attese di allora sono state in massima parte frustrate. Noi ragazzi del ’68, quanti siamo ancora vivi, se non siamo proprio delle Silvie leopardiane, appunto perché, piuttosto attempati, respiriamo ancora, poco ci manca. Quasi tutte le nostre speranze infatti sono cadute.
Parto dunque da una parola che all’epoca era malfamata: moderato. “Tu sei un moderato” detto da una ragazza a un ragazzo era un rifiuto secco: significava per lo meno sei “un reazionario”. Ora quel significato si è ribaltato: adesso è un termine rassicurante, una qualifica positiva, anzi indispensabile all’identità di una persona per bene. Allora si rispondeva: “io moderato? Vuoi scherzare? Io sono più maoista di Mao”. Ora tutti si dichiarano moderati; nessuno è mai stato comunista, e se lo è stato fu in un altro paese e oltretutto quel giovane che errava non c’è più.
Borghese era un’altra offesa: significava nemico di classe, odioso a quelli politicamente corretti, uomo egoista e avido,  ignaro  della cultura, della bellezza,  mai allattato dalle Muse, mai scaldato dal più pazzo fuoco dell’arte. Don Milani prese parte a questa esecrazione scrivendo: ““Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se occorresse “cambiare tutto perché non cambi nulla” non esiterà a abbracciare il comunismo” [2].
All’epoca, tra noi “sessantottini”,  ci si vergognava di essere borghesi: ricordo che nel marzo del ’68 tornai a Bologna da una settimana in montagna. Ero  molto abbronzato, e, quando entrai nell’aula di un’assemblea studentesca, le compagne mi domandarono con aria inquisitoria dove fossi andato a prendere tutto quel colore. Risposi: a Cuba “a tagliare la canna da zucchero con i nostri compagni lavoratori”.
Non so se ci credettero, ma se avessi detto la verità mi avrebbero escluso dal giro.
Oggi, mentre gran parte della popolazione, scende i gradini della scala sociale degradandosi nella povertà, tutti vorrebbero essere considerati borghesi: conosco dei poveracci che si indebitano per mandare i figli a scuola di nuoto, di vela, magari di equitazione anche se i loro bambini sono negati a questi sport. Lo fanno per poterlo esibire e farsi credere appunto borghesi.
Poi c’era una volta la libertà. Significava prima di tutto, libertà di pensiero, libertà di parola, parresìa, libertà politica insomma. Quando eravamo ancora più giovani i professori fascisti ci dicevano: a scuola non si fa politica.
Tucidide per primo  mi aveva emancipato da tale servitù insegnandomi che Pericle disse: "movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Libertà era dunque prima di tutto possibilità di occuparsi della vita della polis.
Ora questa parola sacra è diventata esecrabile: adesso libertà vuol dire licenza di fare il proprio comodo, anche danneggiando il prossimo e il meno vicino. Insomma cercando di annichilire chiunque ostacoli il nostro egoismo.
Un’altra parola chiave è “rispetto”. Respicio significa osservo: rispettare vuol dire osservare una persona senza brama di possederla, di dominarla, di sottometterla.
Ora questa parola si è degradata in viltà di fronte ai luoghi comuni di moda, in reticenza davanti alle assurdità che ogni dì e ogni notte giornali e televisioni diffondono. Chi denuncia le storture, chi è fuori dal coro della pubblicità e della propaganda, è trattato come un delinquente o un pazzo.
Poi: l’amore che una volta tendeva a Dio, o a una donna, o a un uomo, o all’umanità, adesso ha come obiettivo principale il denaro.
L’amore per l’altro sesso, particolarmente quello delle donne per gli uomini, ora, quando c’è è simile a quello dei lupi per gli agnelli.
E ancora: la pace che era conseguenza della liberazione dalla tirannide e madre del benessere, è tornata a essere quella degli imperialisti romani denunciati da Calgago, il Caledone ribelle: “ Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt.  Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant "  (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari passione.  Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Si continua a commemorare il genocidio subito dagli Ebrei, giustamente, ma sarebbe altresì giusto ricordarne, biasimarne altri più recenti, e fermare quelli in corso.
Concludo con la parola uguaglianza. L’uguaglianza tra gli umani è stata una speranza, una meta da raggiungere per tante religioni, filosofie, costituzioni politiche.  Ora essa è un’utopia irrealizzabile per alcuni, una bestemmia per altri. Eppure se non c’è una sostanziale uguaglianza, non c’è vera democrazia. Adesso si accetta che un manager guadagni centinaia e centinaia di volte più di un operaio come fatto naturale. Quindi l’uguaglianza è qualche cosa di contro natura nella mente di chi considera secondo natura tali diversità abnormi.
Ecco: questi sono veri e propri ribaltamenti lessicali cui corrispondono transvalutazioni estetiche e morali
Se nichilismo significa “che i valori supremi si svalorizzano [3],
queste svalutazioni semantiche porterà a un nichilismo linguistico,
o per lo meno a quel parlare male che viene dal pensare male e che, a detta di Platone, fa male all’anima [4].

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it  Bologna 30 gennaio 2013




[1]  427-425 a. C.
[2] La frase fra virgolette è nel romanzo “Il Gattopardo”. La dice un principe siciliano all’arrivo dei garibaldini (1860). Poi fa il garibaldino anche lui e così non perde né i soldi né il potere.  Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa, p. 74.
[3] Nietzsche,  Frammenti postumi, autunno 1887, 9 (35).
[4] Lo afferma Socrate  nel Fedone :" euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[4], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

lunedì 28 gennaio 2013

Come il testo antico parli ai lettori di oggi

Come il testo antico parli ai lettori di oggi"  

corso che il Prof. Giovanni Ghiselli terrà presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, dell’Università di Bologna, via Zamboni 32,
tutti i martedì dal 5 febbraio al 5 marzo, ore 17- 19, aula Guglielmi.
Il seminario è aperto anche ad un pubblico esterno.

I Lezione martedì 5 febbraio. Istituto di italianistica e di filologia classica. Via Zamboni, 32.  Aula Guglielmi 17-19.
Metodologia.
Come leggere gli autori greci e latini con la prospettiva della cultura europea.
Questa lezione metodologica farà subito riferimento ad alcuni dei testi che verranno letti e commentati nelle lezioni successive. In queste darò maggiore spazio  ai testi e agli autori per i quali gli ascoltatori avranno mostrato maggiore interesse e gradimento.

II lezione martedì 12 febbraio. Aula Guglielmi 17-19.
La poesia epica come antecedente della storia. L’Odissea di Omero e le varie riapparizioni di Ulisse. Lettura dei primi versi del poema omerico.
Il poema di Apollonio Rodio. Virgilio e Ovidio.

III Lezione martedì 19 febbraio. Aula Guglielmi 17-19.
La storiografia. Quintessenze di Erodoto, Tucidide, Senofonte, Plutarco, Polibio, Sallustio, Tito Livio,  Tacito.
Lettura del proemio di Erodoto, di quello di Tucidide e di alcuni capitoli metodologici della storia politica di questo autore che, in campo storiografico, “legiferò”.

IV Lezione martedì 26 febbraio. Aula Guglielmi 17-19
La tragedia. Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca . Lettura di alcuni versi, dell’Edipo re di Sofocle, della Medea di Euripide  e, a richiesta, di altre tragedie.

V Lezione martedì 5 marzo. Aula Guglielmi 17-19
La presenza dei poeti, degli storiografi, dei filosofi greci e latini nell’opera di Nietzsche e in altri autori moderni.

Ogni lezione può durare un’ora abbondante ed essere seguita da domande di chiarimento e di sviluppo .
A chi ne farà richiesta, verrà inviato, ovviamente gratis, il file con il materiale che per ragioni di tempo non è stato possibile esporre a lezione.

Giovanni Ghiselli   g.ghiselli@tin.it

Sintesi del Curriculum
Giovanni Ghiselli ha studiato al Liceo classico Mamiani di Pesaro, poi all’Università di Bologna dove si è laureato in Lettere classiche.
Ha insegnato nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, poi nei licei classici di Imola (Rambaldi) e di Bologna (Minghetti e Galvani). Ha tenuto il laboratorio di didattica della letteratura greca nella SSIS dell’Università di Bologna dal 2000 al 2010.
Ha tenuto un corso di cultura generale all’Università di Bolzano-Bressanone
Quest’anno tiene un seminario di civiltà greca all’Università di Bologna e un laboratorio di didattica generale in quella di Urbino.
Ha tenuto conferenze in vari Licei, Università, convegni, festival di filosofia, filologia, letteratura.
Ha pubblicato traduzioni e commenti dei classici con Loffredo (Edipo reAntigone , un’antologia di Omero, una degli Storiografi greci), con Cappelli (Medea di Euripide) e con Canova (SatyriconBaccanti di Euripide).
Ha collaborato e collabora con diversi giornali: quotidiani cartacei e riviste on-line.

domenica 27 gennaio 2013

La crisi


Krivsi~ (Krísis) in greco significa “giudizio”. Si tratta dunque anche di un’opportunità per riflettere, per giudicare (krivnein krínein). Uno dei “giudizi” più ricordati è quello sulle armi di Achille che spettavano ad Aiace, ma siccome questo guerriero, secondo soltanto al fatato Pelide, era incapace di parlare, il linguacciuto Odisseo convinse i capi dell’esercito ad attribuire la prestigiosa armatura a lui, ingiustamente. Nella Nemea VIII, Pindaro ricorda il torto subito dal grande guerriero a[glwsso~ (v. 24), privo lingua eloquente: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole dell’Itacese.
Il Telamonio allora impazzì e si uccise, come racconta la cara tragedia di Sofocle a lui intitolata. Prima di gettarsi sulla spada, l’eroe che aveva recuperato il senno ma credeva di avere perso l’identità di secondo dell’armata ellenica, dice: “ il nobile deve  vivere con stile, o con stile morire” (v.479).
Comunque alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei” (Dei Sepolcri, vv. 221-225). Questo è il giudizio di Foscolo.
Ebbene, ora siamo in crisi, si dice. Credo che questo impoverimento di noi tutti ci offra davvero l’occasione per fare alcune riflessioni e dare qualche giudizio nostro. Un’occasione che va acciuffata poiché essa, come sappiamo, è ben chiomata davanti, ma del tutto calva di dietro.
La prima considerazione è che siamo stati governati a lungo, pur troppo a lungo, da persone inette, ossia inadatte a dirigere una grande nazione: incapaci di prevedere, incapaci di rimediare. Hanno mostrato di avere l’unica capacità di arraffare per sé. Ora è giunto il momento della krivsi~ ( krísis), del giudizio sul loro operato. Il giudice sarà il popolo italiano chiamato a votare: saremo noi tutti, e non dobbiamo astenerci, non dobbiamo sbagliare, altrimenti saremo ancora danneggiati e penalizzati da altri, o dagli stessi personaggi che imperversano sulla scena politica da troppo tempo recitando la farsa di governare e amministrare i beni pubblici.

La seconda opportunità offerta dalla crisi è quella di riflettere se rinunciare ad alcuni consumi sia davvero un male e un danno. E’ certamente male non potersi curare la salute, istruire, nutrire, riscaldare e soddisfare tutte quelle esigenze, materiali e spirituali, che Epicuro chiama “desideri necessari e naturali”.
Ma poi ci sono i cosiddetti “desideri vuoti”, ossia c’è lo spreco di chi sente il bisogno di riempire un vuoto interiore con un eccesso di cibo e bevande, con tanti telefonini, televisori, automobili e così via. L’ideologia vigente, la più diffusa, se non addirittura l’unica, è che il valore dei valori, il valore che avvalora tutti gli zeri successivi è il denaro. Quello che Shakespeare chiama  la "maledetta mota, comune bagascia del genere umano"[1] riceve un vero e proprio culto. La cosa triste è che i sacerdoti più intransigenti di questa orrenda superstizione, quelli costantemente genuflessi davanti all’empio tabernacolo delle banche, gli adoratori più acritici dell’obeso idolo sporco dello spreco, sono i quasi poveri che si vergognano della loro situazione sociale e vogliono apparire ricchi, e imitano i ricchi, e votano i politici al servizio dei ricchi.
Si indebitano per mandare i figli a scuola, di vela magari, come pensano che facciano i figli dei “signori”.
Conosco persone, dei poveretti, che lamentano di non avere denaro per i libri, per il ticket dei farmaci e per il cinema, però hanno tre telefonini e due televisori. E fanno i mutui per comprare orrende automobili vistose.
 Don Milani ha scritto parole sante :"la pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie sono necessarie"[2].
E Zafón"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[3].
Questa smania consumistica inoculata nei più come un germe patogeno letale, è arrivata a inficiare perfino l’istinto più forte di noi umani.
Il calo demografico non è solo un tramontare delle nascite, ma un declino dell’amore, nel senso di intesa tra un uomo e una donna e nel senso di desiderio. Quello che era, doveva essere, l’eterno richiamo dei sessi, ora ha bisogno del viagra. Provate a pensare che cosa significa! Vuol dire andare contro natura.
Il problema di fondo, e questo è il mio giudizio, la mia krivsi~ ( krísis), è che la maggior parte degli italiani manca di educazione e istruzione: la scuola non funziona, o funziona male; la televisione non informa e non educa come potrebbe fare. Pasolini parlò addirittura di “genocidio culturale” in un contesto più ampio che opponeva lo sviluppo materiale,  ancora in corso nel 1975, al progresso culturale, estetico, morale, già allora inesistente:"E' in corso nel nostro paese…una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani"[4].
Pasolini aveva capito e “sapeva”. Sapeva tante cose scomode al potere: per questo l’anno ammazzato quella lugubre notte di novembre.
Ora è un vecchio che scrive, un vecchio che da giovane ha visto uno dei suoi maestri fisicamente disfatto dai sicari di un potere furente.
La maggior parte della gente non legge, e, pertanto, ha la mente infarcita dei luoghi comuni della pubblicità che incita al consumo di oggetti per lo più inutile se non anche dannosi, allo spreco, e insegna con metodo criminale, il disprezzo di chi non è bello, non è giovane, non è ricco. Molte persone, troppe, hanno messo il cervello in soffitta. Lo stile volgare della réclame è stato assunto, per ignoranza, dagli sprovvisti di buone letture, e, maliziosamente, dai politici che li assecondano. Imperversano i luoghi comuni che hanno esautorato la capacità critica, di giudizio.
Faccio un esempio: i partiti si vantano di avere messo in lista le donne e i giovani, o, unificando le due categorie, tante giovani donne. Ora, criticamente, chiedo: non sarebbe necessario per lo meno aggiungere “oneste, preparate,  capaci”? Che siano giovani e belle non guasta, per carità, ma non è necessario per governare un popolo.
 Nel governo Berlusconi e nei consigli regionali abbiamo visto giovani donne che magari erano bellocce ma non avevano particolari talenti per dirigere una nazione o amministrare una regione. Certamente i De Gasperi, i Moro, i Berlinguer, sebbene maschi, sebbene attempati, erano più adatti a farlo. Da questi, quando ero bambino, poi  da ragazzo, da adulto, ho imparato qualche cosa; dalle giovani donne, da Maria Stella Gelmini, e, a fortiori, da Nicole Minetti non ho imparato niente, niente di buono. Un politico, dico, deve essere anche un saggio e un educatore. Un uomo e una donna devono essere delle persone, con delle qualità, delle capacità, dell’umanità, prima che dei personaggi, delle maschere da commedia.
Una donna compiuta, una persona dalla quale mi sarei sentito onorato di essere governato, o di essere invitato a cena, era Rita Levi Montalcini.
Questo è un giudizio modesto, da persona qualunque, eppure i pifferai di tutti i partiti incantano le teste vuote soffiando nel piffero delle banalità e delle menzogne. La più grossa di tutte, continuamente sbandierata, è che siamo stati salvati dal baratro. Io personalmente, e come me tante persone, la stragrande maggioranza di noi Italiani, gente brava ma a volte ingenua e credulona, siamo stati impoveriti e non di poco. Ora in conclusione, siamo più poveri in molti, noi sfortunati molti, sventurati troppi, mentre gli speculatori delle banche, della finanza, i padroni del mercato, si arricchiscono a dismisura, e i loro cani, sciacalli e iene da guardia, cui gettano gli ossi del banchetto trimalcionesco ,  se la ridono,  alle nostre spalle. E magari si credono pure il sale della terra.
  [ Errete, andate  in malora voi, prole funesta dell’avidità, della malizia e dell’ignoranza,  prima di mandare del tutto in rovina questa nostra bella terra così sinistramente sconciata dai vostri  innumerevoli misfatti!

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it



[1]  Timone d'Atene,  (IV, 3).

[2]Lettera a una professoressa , nota 56 di p. 69.
[3] Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.
[4] Scritti corsari, p. 286.

sabato 26 gennaio 2013

Articoli e racconti su Atuttascuola

venerdì 25 gennaio 2013

Presentazione del libro Il rivoluzionario di V. Varesi


Ieri ho assistito alla presentazione del bel libro di Valerio Varesi: Il rivoluzionario appena uscito con Frassinelli. Lo presentavano l’autore stesso, Eugenio Riccomini, illustre storico dell’arte e docente universitario emerito, e Gianmario Anselmi direttore del dipartimento di filologia classica e italianistica,  
Ha parlato per primo l’autore. 
Valerio Varesi ha detto che il suo libro è un romanzo storico che ha per protagonisti i comunisti. 
Rievoca il periodo che va dall’aprile del 1945 all’agosto del 1980. Trentacinque anni che trascorrono, come le nuvole nel cielo, dalle grandi speranze del dopoguerra al liberismo economico della Tatcher e di  Reagan quando comincia lo smantellamento dello stato sociale, comincia l’oggi. Ma le carenze della giustizia iniziano subito. Il fascismo in Italia non ha avuto una Norimberga.  Nei comunisti bolognesi c’era una vocazione rivoluzionaria che venne imbrigliata. Quando spararono a Togliatti, la città fu sull’orlo della rivoluzione. Con il sindaco Fanti si aprì una nuova fase: cominciò a prefigurarsi il compromesso storico. Nel ’68 poi Lercaro,  che pure era anticomunista, si incontrò con i comunisti sul tema del pacifismo.
Il cardinale condannò i bombardamenti americani sul Vietnam e venne silurato. Segue il ’77 con l’uccisione di Lorusso e la frattura tra il PCI e il movimento giovanile. Infine la bomba alla stazione del 2 agosto del 1980 ha segnato la fine delle grandi speranze. Oscar Montuschi, il protagonista, passa attraverso le vicende della città, poi si stanca dell’attendismo togliattiano, va a Mosca e in Mozambico a combattere per la liberazione.
Il romanzo finisce mantenendo viva la fiammella dell’uguaglianza, se non del comunismo che economicamente ha fallito.
Aggiungo una nota di Leopardi il quale nello Zibaldone (923) scrive che in India non c’è la schiavitù, ma ci sono le caste, e dove non c’è uguaglianza  non solo non c’è democrazia  ma “non c’è vera libertà”.
Varesi ha concluso questo primo intervento deplorando la sconfitta culturale della sinistra: è passata una sottocultura di gente che considera valore unico il denaro. Gente come Trimalchione, dico, e gli altri liberti del Satyriconubi sola pecunia regnat” (14).

Quindi ha parlato Eugenio Riccomini. Lo storico dell’arte  ha detto che ha divorato il libro. Montuschi rispecchia tutti i comunisti di Bologna. Quelli che speravano e ritenevano di camminare procedendo verso un mondo migliore come le persone raffigurate nel quadro Il quarto stato di Pellizza da Volpedo.
 Bisognerebbe riprendere il cammino verso un mondo migliore.
A me sembra, aggiungo, che le stragi e tutta la decadenza di cui racconta il libro, abbiano progressivamente, anzi regressivamente, annientato il quarto stato, sostituendolo con il quinto, quello degli schiavi.
Ma torniamo a Riccomini, Ha  ricordato come il PCI si è suicidato dando vita al PDS. Poi è sparita la P che indicava il partito per antonomasia poiché quando si diceva “il partito” non c’era bisogno di specificare quale partito fosse. Ora è PD. Ma democratico non significa nulla, non definisce niente: oggi tutti si dichiarano democratici, anche i tiranni.
Riccomini ha raccomandato al pubblico che riempiva il salone di Palazzo Marescotti di leggere il libro perché racconta le nostre vite e l’antefatto delle vite dei giovani.

Poi ha parlato l’italianista Anselmi. Ha definito il libro un romanzo storico con personaggi inventati ma inseriti in un contesto ricostruito con minuzia. Sul genere di I promessi sposi, per intenderci. Il rivoluzionario racconta la storia della Bologna comunista, dalla fine della guerra alla strage della stazione, senza nascondere le contraddizioni della guerra civile sovrappostasi alla guerra mondiale e del suo prolungamento nel periodo successivo.
Tucidide sostiene che la stasi~ la guerra civile, è il più terribile delle guerre, un conflitto che stravolge tutti i valori, perfino quello delle parole (III, 82).
Anselmi ha trovato particolarmente interessante il confronto fra tre generazioni: il sindaco Dozza con il giovane Oscar Montuschi, poi, con il passare degli anni che portano via tutto, l’incontro con la generazione successiva, quella del ’68.
Il libro è l’esposizione vivace e avvincente, anche per i pregi formali, di quello che è stato il comunismo in Emilia. E’ interessante a leggersi e utile a conoscere, a capire, ora che si usa il termine comunista a vanvera, come si faceva nel Medioevo con la qualifica di “epicureo” per dire un greve materialista, quasi un maiale come si legge anche nella Commedia di Dante che ha preso troppo alla lettera Orazio[1].
Il protagonista, Oscar è irriducibile nella volontà di realizzare i suoi ideali. Ed è una persona colta, come erano  i dirigenti e non pochi militanti dell’epoca, quando i comunisti leggevano. Togliatti pensava che fosse indispensabile che la gente leggesse e fu lui  il fondatore  della collana dei classici  della Einaudi. Nella classe politica di oggi non c’è cultura, spesso non c’è coscienza. Dobbiamo riconquistare questi valori politici e umani.

Ha concluso l’autore del romanzo con un secondo intervento che sul contesto storico si è documentato ma i personaggi ha dovuto immaginarli e questo lo ha alleggerito della zavorra dell’autobiografia.
Ha quindi esposto tre sue tesi che oggi possono andare contro corrente: le vendette seguite alla caduta del fascismo, quelle vendette sulle quali una pubblicistica interessata ha gettato fango, sono poca cosa rispetto a quelle perpetrate dallo Stato nei confronti della classe operaia. Infatti i dirigenti della polizia, dei carabinieri, dei servizi segreti, erano rimasti gli stessi del periodo fascista. Sono stati ricordati i morti di Portella della Ginestra, di Reggio Emilia, di Modena. Omicidi commessi da gente che direttamente o indirettamente rappresentava lo Stato, Varesi ha quindi esposto una sua ipotesi sulle brigate rosse: esse nascono come movimento rivoluzionario, ma poi  diventano uno strumento per disinnescare il compromesso storico.  I brigatisti vengono lasciati agire perché Moro doveva essere ucciso: la strategia politica dello statista pugliese di fatto non piaceva a Cossiga, non piaceva a Giulio Andreotti, e, quello che più conta, non piaceva  agli Americani, Nemmeno ai Russi piaceva.
“Moro voleva sfuggire alla logica dominante”[2].
Aggiungo che Monsignor Bettazzi, il vescovo di Ivrea, aveva sentito dire da un altissimo prelato del Vaticano: “expedit ut unus moriatur homo”. E’ l’espressione dell’ ipocrita ferocia di Caifas ( Vangelo secondo Giovanni, 11, 50).
Oscar Montuschi crede nella cooperazione, “in un’organizzazione del lavoro in cui tutti sono contemporaneamente padroni e lavoratori senza più contrapposizione. Un sogno egalitario che il rivoluzionario coltiva per la vita intera e che tenta di realizzare nella Bologna della ricostruzione prima, nella Mosca poststaliniana poi, e infine in Mozambico, nell’Africa rivoluzionaria all’indomani del crollo degli imperi coloniali”.
Ma lo strapotere del denaro annienta tutti gli ideali e gli idealismi.
E quando tu perdi i tuoi valori e quelli degli altri diventano i tuoi, sei perduto” ha concluso Varesi.

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it





[1] Epist. I, 4, 15-16: “me pinguem et nitidum bene curata cute vises/cum ridere voles Epicuri de grege porcum”,  
[2] V. Varesi, Il rivoluzionario, p. 467.

giovedì 17 gennaio 2013

La violenza contro la natura - di Giovanni Ghiselli



La nave dei veleni denunciata dal documentario di Claudio Metallo L'avvelenata - cronaca di una deriva mi offre lo spunto per divulgare un toposun luogo comune a molti autori classici e moderni secondo i quali l’avvelenamento di una città, di una regione, della sua terra, del suo mare e perfino del suo cielo deriva dalla malattia mentale e morale di chi governa
questo paese.
In effetti“Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso, obliquo, mostruoso, quando ciò avviene”[1].
"Dunque, poiché tutte le cose sono causate e causanti, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte sono
legate da un vincolo naturale e insensibile che unisce le più lontane e le più disparate, ritengo che sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere le parti"[2].
Molto prima di Pascal[3] , Platone [4] aveva detto che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh", Menone, 81d).
Dostoevskij fa dire allo stariez Zossima che "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di
modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu
fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore"[5].
Per quanto riguarda il nostro argomento, c’è  connessione organica tra il Capo e la sua
gente, come ci insegnano gli autori greci e latini sulle cui spalle noi dobbiamo salire, come nani sugli omeri di giganti[6], se vogliamo avere un’ampia prospettiva della storia europea.
Nel prologo dell'Edipore di Sofocle viene descritta la sterilità della terra tebana sconciata e resa malata dai delitti di Edipo, vero miasma, contaminazione della sua polis (v. 353). Edipo, come si sa, ha ucciso il proprio padre e sposato la propria madre offendendo la natura.
Se rimaniamo nella dura luce delle tragedie di Sofocle, vediamo che nell’ Antigone , il vate tebano Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale (v. 1015). Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di homo piacularis  uomo che contamina la città.
Insomma i costumi, le virtù, i vizi e perfino le malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.
Questa affermazione risale ai poemi omerici dell’VIII sec. a. C.,  la ritroviamo poco dopo in Esiodo, quindi nelle tragedie del V secolo, e nell’oratoria del IV secolo: Isocrate nell' Encomio di Elena[7]  chiama i despoti che cercano di dominare i concittadini con la forza, “non capi ma pesti delle città” (oujk a[rconta"
ajlla; noshvmata tw'n povlewn,  34).
C’entra con noi il dispotismo? Sì, c’entra perché abbiamo un governo che non è stato eletto dal
popolo e, comunque, anche le prossime elezioni pongono sbarramenti che tolgono a centinaia di migliaia di persone la possibilità di avere una loro rappresentanza. E chi blatera dicendo che è arcaica la distinzione tra destra e
sinistra, vuole imporre l’ammucchiata sotto la sua guida. La distinzione c’è, eccome, ed è la divisione tra chi fa politica in favore dei meno abbienti, dei poveri, e chi sostiene l’interesse dei ricchi.
Quando non ci sarà più questa disuguaglianza antiumana e anticristiana, allora potranno scomparire anche la destra e la sinistra e magari pure lo stato Leviatano. Un’altra distinzione presente e forte è quella
tra chi offende e chi difende la natura. Monti è andato a inaugurare una stazione dell’alta velocità.
Parecchi manifestanti NO TAV l’hanno contestato e sono stati caricati dalla polizia. Non c’è alcuna differenza tra loro?  Il caporione Monti che suggerisce di reprimere le pulsioni istintive e i suoi compari credono di rappresentarci tutti? Abbiamo avuto, e abbiamo, governanti che per motivi di lucro hanno reso
malati il mare e il cielo, oltre la terra, la madre terra che, come nel Macbeth [8] di Shakespeare, ogni tanto si scuote, piena di risentimenti per come viene maltrattata. Nella tragedia del drammaturgo elisabettiano un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:" the earth was
feverous, and did shake
" (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato. 
Quindi un altro nobile, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo, quasi
sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man's act), minaccia la sua scena sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti, risponde l'old man:" 'Tis unnatural, Even like the deed that ' s done" (II, 4), è un fatto innaturale, come l'azione che è stata perpetrata.
Innaturali sono le disuguaglianze tra le persone ridotte in miseria e quelle che sguazzano nel lusso, innaturale è l’avvelenamento dell’ambiente, innaturale lo squarciamento di montagne, la devastazione dei paesaggi,
l’uccisione di centinaia e centinaia di pedoni e ciclisti ogni anno da parte delle automobili. Ingiusto è che gli assassini al volante, e gli altri malfattori,  non vengano puniti. Monti ha un solo occhio ciclopico puntato su un tipo di economia, quello della disuguaglianza, delle sperequazioni  e dell’ingiustizia che vuole dividere l’umanità in due categorie: quella enorme dei miserabili e quella ristretta  degli straricchi. Anche questo disegno da guerci è contro natura.
Se non torniamo a vivere secondo natura, se non ritroviamo la sintonia con il cosmo, la nostra specie non potrà sopravvivere. Noi infatti respiriamo con il cosmo, con l’ordine della natura, e se continueremo a
sconvolgerlo, il caos, il vuoto immenso, ci inghiottirà.
Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine del mondo; e quando l'ordine cosmico e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia 
Perché la terra, il cielo, il mare si purifichino e si restauri la naturalezza, è necessario che il capi malati vengano esautorati e capovolti a farmakói, a medicine umane. La prima fase della cura sarà mandarli via, molto lontano da noi. 
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it

[1] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 298.
[2] B. Pascal, Pensieri,  p. 143.
[3] 1623-1662
[4] 427-347 a. C.
[5] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , del 1880, p.402.
[6] Mi avvalgo di un aforisma  che Giovanni di Salysbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres (Filosofo scolstico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio):"Dicebat
Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut
possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut
eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine
gigantea
" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres  che noi siamo come dei nani che
stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia  non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati  in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca
[7] Del 390 a. C.
[8] 1605-1606.

lunedì 14 gennaio 2013

F. Nodari. "Piovani interprete di Pascal" - di Giovanni Ghiselli

E’ uscito da pochi mesi un bel libro: Piovani interprete di Pascal (MassettiRodellaEditori, Brescia, ottobre 2012).
L’autrice, Francesca Nodari, è una studiosa di  valore: collabora alla
cattedra di Filosofia teoretica dell’Università Milano-Bicocca, autrice di
altri libri tra cui Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas (Morcelliana,
Brescia 2011 che abbiamo già recensito,  ed è direttore scientifico del Festival Filosofi lungo l’Oglio.
Nel Capitolo primo, Miseria e Deesse, (pp. 11-39)   l’autrice fa emergere un confronto tra la filosofia di Blaise Pascal  (1623-1662) e quella di Pietro Piovani (1922-1980), “il filosofo italiano della seconda metà del Novecento al quale dobbiamo un’originale teoresi storicistico-esistenziale”[1].
Piovani ha messo a punto un suo storicismo critico .
In esso “la conoscenza storica è, si fa coscienza morale[2], come pure è un farsi l’identità e la
libertà dell’uomo: “il mio esser  libero è un farmi libero…Il mio autentico essere è un esistere  perché è un farsi riempiendo il deesse…L’uomo è un dato che si dà”, scrive Piovani[3].
La conquista dell’identità però, il diventare se stesso, quello che era l’imperativo pindarico “diventa
quello che sei”[4], non è un compito sine cura, ma “appare nel suo aspetto di fatica grave, di pena insopportabile”[5].
Il mio contributo a questo studio non può che essere il ricordo e la citazione dei classici congruenti.
Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleiodopo lunghi e duri travagli, il protagonista Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit
satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è:” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono.
Diventare gli uomini che siamo è una grande fatica. Ma il risultato ha un grande valore. Gli dèi davanti al valore infatti hanno posto il sudore [6].
Piovani cita Amiel che paragona la vita umana alla sorte di un naufragio del battello dove siamo stati imbarcati con violenza.
La vita umana come naufragio si legge nel Satyricon dove il vecchio poeta Eumolpo davanti al cadavere dell’arcipirata monocolo  Lica, dice:"si bene calculum ponas, ubique naufragium est " (115, 17), se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto. Marìa Zambrano afferma che l'uomo, da quando ha memoria e storia, ha sempre avuto nel fondo dell'animo il sentimento del naufragio e ricorda che il suo maestro Ortega y  Gasset nei suoi corsi su "La razòn vital" descriveva "la condizione di "naufragio" come la più umana della vita umana"[7].
Ma torniamo al libro della Nodari e allo storicismo di Piovani che è critico nei confronti di quella disposizione statolatrica , di quella storia “hegelianamente intesa” che, per dirla con parole di Nietzsche, “praticamente si trasforma a ogni istante in nuda ammirazione del successo”[8].
L’uomo tende a un trascendimento continuo attraverso un faticoso tentativo d’infinitarsi, “in virtù di quell’orizzonte de-ontologico[9], che è mancanza e bisogno”[10].
L’uomo dunque sente questo deesse, questo dei`, questa mancanza di essere, e cerca di trascendersi
“nell’intento di elevare a norma la veritas che lo abita e di impossessarsi della propria soggettività-continuamente experienda- in un moto di perfezionamento che è moto du cœur[11]
Quindi giungiamo a Pascal per il quale l’uomo è “qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente
lontano dal comprendere gli estremi…egualmente incapace  di scorgere il nulla da cui è tratto, e
l’infinito in cui è inghiottito ”[12]
L’uomo dunque “ è caratterizzato da una dinamica di lacerazione, di contrasto, di incertezza, di instabilità che
sembra far capo ad una Stimmung dominante: la miseria[13].
Torniamo ai Greci.
Per alcuni versi l’uomo di Pascal ricorda quello di Sofocle che smonta il logos presuntuoso dei suoi
personaggi, in particolare di quello più noto, quando presume troppo di se stesso e della propria gnwvmh, del proprio intelletto. Edipo si illude, e pecca di presunzione, di u{bri~ intellettuale, quando dice:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo[14] feci cessare/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/// kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli" (vv.396-398).
Nell’Edipo a Colono, il protagonista, scopertosi parricida e incestuoso, trovata e accettata la propria identità, il proprio destino, trova anche la definitiva dimensione benefica: dalla sua tomba emaneranno influssi positivi su Teseo e gli Ateniesi che lo hanno accolto dandogli rifugio.
Edipo, attraverso il dolore, giunge a comprendere la limitatezza di ogni mente umana, non esclusa la sua. A Colono, il figlio di Laio è arrivato a pensare come deve pensare un uomo “L’uomo è manifestamente fatto per pensare; in questo sta tutta la sua dignità; e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel
pensare come si deve”[15].
Alla fine, Edipo, come altri personaggi di Sofocle, obbediscono alla prescrizione deifica “conosci te stesso”.
E’ la somma delle conoscenze e la conoscenza somma suggerita anche da Pascal: “Bisogna conoscere se stessi: quand’anche non servisse a trovar la verità, giova per lo meno a regolare la propria vita; e
non c’è nulla di più giusto”[16].
L’uomo pascaliano è tentato di fuggire alla disperazione attraverso il divertissement, ma in
questo modo rinuncia alla propria dignità “se è vero che la sua grandezza”[17]  “sta in ciò, che si
riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili; ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili”[18].
Altrettanto fa Edipo che non si ferma nell’indagine pericolosa sulla propria nascita, sebbene messo in guardia, avvertito da più voci sull’esito catastrofico della ricerca. E la sua grandezza, riconosciuta da lui stesso, sta proprio nell’avere voluto conoscere e soffrire fino in fondo la propria identità dolorosa e tragica. Dopo avere attraversato ogni  miseria, ed essersi punito da solo,  il cieco  rivendica, appunto,  la propria  grandezza  :" i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me" ( Edipo re, vv. 1414-1415).
L’uomo “si sottrae alla sua dubbia e carente animalità liberandosene: 
nella lotta non rimane simile fra simili in una presunta affinità di natura che lo condannerebbe, ma ne evade ammettendo la dissomiglianza ed esasperandola con diversificazione accentuata”[19].
Di nuovo Edipo di Sofocle e pure Antigone che da sola si oppone a un ordine disumano e
affronta la solitudine e il martirio rinunciando a sposare il principe di Tebe .
Alla sorella Ismene che le fa notare:" tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati", risponde: ma so di piacere a quelli cui prima tutti è necessario che io vada a genio ("ajll j oi\dj ajrevskou~ oi|" mavlisq j aJdei'n me crhv ", v. 89) mostrandosi di non curarsi dell'incomprensione della sorella più che delle minacce del tiranno. Questa
ragazza in tutta la tragedia afferma con fierezza la propria diversità.
"Come non avvertire, allora, nella miseria del moi pascaliano l'eco della dura datità che fa riscontrare al soggetto il fatto di essere un volente non volutosi ? Di più: che cosa rappresenta la mitica figura del re spodestato[20], se non" 'una suggestiva proiezione collettiva del sentimento di rifiuto dell'essere voluti, che, controllato o sfrenato, vive nelle radici di ognuno?[21]' "[22]
ll  paradigma mitico del re spodestato è il farmakov~, il re che nel corso della tragedia si capovolge a
"medicina umana" il cui allontanamento sarà la salvezza della città.  Edipo, ancora una volta, quello
di Sofocle che scopre di essere il mivasma contaminatore, e pure quello di Seneca,  che dice fecimus
coelum nocens, (Oedipus, 36).
La Nodari cita ancora Piovani  il quale ammette di essere "costretto a dire con Nietzsche "Io ho dimenticato perché mai ho cominciato ad essere"…E' una realtà che sfugge al mio essermi fatto". Ma attraverso lo
"scandaglio della rammemorazione"  emergono "alla fine, verità note, addirittura classiche". Quindi  "Posso
ripetere una frase delle Confessioni di Agostino: "Noi non ci siamo fatti"; o, alla luce di uno degli
agostiniani Pensieri di Pascal, posso osservare l'uomo smarrito nel mondo, in cui sta 'senza sapere chi ce lo ha messo' "[23].
Chi  lo ha messo e gettato nel mondo  è proprio l'oggetto della ricerca di Edipo che a un certo momento, dopo le reticenze di Giocasta che ha già capito tutto e si è allontanata, dice:"io, stimando me stesso figlio della Fortuna,/di quella che dà il bene, non rimarrò senza onore./ Questa infatti è la madre da cui sono nato e nati con me/ i mesi mi resero piccolo e grande"(vv. 1080-1083). E il coro lo asseconda.
Nel successivo terzo stasimo i coreuti invocano il Citerone, la montagna  che ha allevato Edipo e le
esprimono riconoscenza per avere svolto le funzioni benefiche di patria nutrice e madre del bambino abbandonato dai genitori.
Edipo è stato gettato dai genitori sul monte di Tebe dove però poi è stato salvato dalla compassione di un pastore.
“Lavorando, se così si può dire, sulla nozione pascaliana di divertissement [24]Piovani[25]
non esita a sottolineare che il deesse, avendo accettato di essere posto nel circolo dell’esistenza, non è da essa solutus : l’uomo è gettato, cosa tra le cose, è un inchoatus che trova la propria soggettività oggettificandosi nell’agire che si eleva a norma”[26].
E qui possiamo citare l’Aiace di Sofocle che zittisce l’amante Tecmessa (v. 293) la quale non può distoglierlo dalla decisione presa di uccidersi dopo che ha degradato la propria identità di eroe.
Telamonio prima di suicidarsi per non sopravvivere alla degradazione  aggiunge:"ajll j h] kalw'" zh'n  h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve  vivere con stile, o con stile morire.
(vv.479-480). Questa è la sua norma. 
Piovani dunque va "oltre l'Heidegger di Essere e tempo che intende"[27] "riportare l'esserci all'essere" in vista di una Totalità restauranda"[28] e "mette capo ad un'etica umanologica": "L'uomo non è, ma si fa. Si conosce esistente, verificandosi"[29].
"Un cogito, che prende sul serio l'azione del subconscio e…che porta il soggetto a trascendere la propria singolarità oggettificandosi attraverso l'azione"[30]. Mi viene in mente che in greco “stare bene”  si dice eu\  e[cein (Odissea, 24, 245 p, e). Stare coincide con “avere”, “possedere”, “conoscere”.
Allora “Chi sta nell’esistenza non può lasciarsi vivere; deve vivere. Non è, ma si fa. Se non si fa, non
è…E’ difficile dissentire da Ortega y Gasset quando, nella Storia come sistema, scrive: “La nota più ovvia, ma anche la più importante, della vita umana è che l’uomo non può fare a meno di star facendo qualche cosa per sostenersi nell’esistenza…La vita che ci è data, non ci è data fatta: dobbiamo farla da noi, ognuno la sua. La vita è qualcosa da fare”[31].
Il nobile deve vivere con nobiltà o con nobiltà (kalw`~) morire, dice l’Aiace di Sofocle prima di uccidersi (Aiace, v. 479).  Ma forse sarebbe più bello  tradurre quel kalw`~ con l’italiano “con umanità” 
Ho citato più volte Sofocle, ma se l’essere coincide con il divenire,
allora bisogna ricorrere anche a Eraclito, a Euripide con il dionisiaco, e naturalmente a Nietzsche.
 “Tutto ciò si definisce con forza, senza tentennamenti, l’essere come mobilità, divenire, continua trasfigurazione, dissoluzione dell’unum nel molteplice, scomposizione del mondo negato nella sua unità e riconosciuto nelle sue composizioni, risoluzione dell’universo nel multiverso, in base alla lezione tragica della diagnosi di Nietzsche: “ L’unità non esiste affatto nella natura del divenire”. L’esistere allora non ha altra condizione per riconoscersi che l’angoscia della sua costitutiva precarietà, della sua continua problematicità di instabile che è in quanto non è ma diviene in contatto costante con l’inesistente”[32].
 Gli ultimi versi delle Baccanti di Euripide, affermano l’imprevedibiltà degli eventi da
parte della limitatissima ragione umana. Gli dèi insomma, se pure ci sono,  fanno quello che vogliono e gli uomini non possono farci niente. Vediamoli
"Molte sono le forme della divinità
e molti eventi in modo insperato compiono gli dèi; 
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento, 
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via. 
Così è andata a finire questa azione” ( 1388-1392) 
Questo finale di 5 versi è topico. Uguale è la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena e della Medea (con una variazione al  primo verso: "Di molti casi Zeus è dispensatore sull' Olimpo", Medea, v. 1415).
Allora l'uomo deve avere una coscienza di sé, deve sapere di che cosa ha bisogno per diventare quello che è, per diventare uomo.
"E proprio perché l'uomo è deesse, ossia "bisognosità" e mancanza, che egli deve riconoscere un ordine"[33]
Il cosmo, l’ordine e il ritmo, antonimo di caos, è il massimo oggetto  di ricerca di gran parte della letteratura
greca, a partire da Archiloco [34]: 
 “animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio
sorgi e difenditi dai
malevoli, contrapponendo
il petto di fronte,
piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e quando
vinci, non gloriartene davanti a tutti,
e, vinto, non gemere buttandoti a terra in
casa.
Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo: riconosci quale
ritmo governa gli uomini. (mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~ ajnqrwvpou~ e[cei, fr. 67 aD).

Al ritmo e all’ordine “l’individuo umano obbligatoriamente si riferisce per agire una qualunque sua
attività, per far sì che le sue attività siano se stesse, cioè abbiano ognuna una loro non confusa individualità, vale a dire siano ordinate in un ordine che ordini l’intera esperienza o parte dell’esperienza”[35].
“Il deesse, che costruisce la storia costruendo se stesso, non può che cogliersi attraverso la miseria e l’inquietudine dell’agostiniano Pascal, in un circolo teso tra dialettica del bisogno e la norma”[36].
Ho concluso l’analisi del primo capitolo e per ora mi fermo poiché il libro della Nodari è molto denso e
ogni pagina dà lo spunto per riflessioni e ampi interventi. 
Se ci sarà occasione, proseguirò più avanti.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it


[1] F. Nodari, Piovani interprete di Pascal,  p. 11.
[2] F. Nodari, ivi, p. 12.
[3] P. Piovani,  Principi di una filosofia della morale, Napoli, 1972 II ed., ivi, 1989 ora in P. Piovani, Per una filosofia della morale, cit., pp.697-698.
[4]gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II,  v. 72).
[5] Piovani Op. e p. citate sopra.
[6] Questa è una dichiarazione topica: Esiodo  
dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"
(Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla
mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
[7] L'uomo e il divino , p.65 n. 9.
[8] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, cap. 8..
[9] Ricorda Piovani  “il greco dei` è soprattutto mancare, bisognare: designazione di un’insoddisfazione che chiede necessariamente di essere soddisfatta: indicazione di un’assenza”, 
[10] Natoli, Piovani interprete di Pascal, p. 14.
[11] Natoli, Op. cit., p. 16.
[12] B. Pascal, Pensieri, opuscoli, Lettere, Rusconi, Milano, 1978. fr. 84  p. 428.
[13] Nodari, Op. cit., p. 16. Le citazioni di Pascal provengono da B. Pascal, Pensieri, opuscoli, Lettere,
Rusconi, Milano, 19t8. Quella sopra si trova a p. 428.
[14] Intende il flagello della Sfinge. Nel film di Pisolini Edipo re, il mostro che cade nel burrone, grida:
“l’abisso in cui mi getti è dentro di te!”.,
[15] Pascal, Op. cit., fr. 210. p. 522
[16] Pensieri, 173,
[17] Nodari, Op. cit., p. 18.
[18] Pascal, Op. cit., fr. 255, p. 255.
[19] Piovani, Oggettivazione etica e assistenzialismo, p. 987.
[20] B.  Pascal,, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., fr. 210, p. 481
[21] P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, cit. p. 681,
[22] Nodari, Op. cit., pp. 19-20
[23] P. Piovanio, Principi di una filosofia della morale, cit. p. 680.
[24] Sul divertimento come fuga dalla propria condizione-la miseria- si rimanda ai numerosi frammenti; B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, cit. pp. 472, s., 478, ss., 482, ss.
[25] Cfr. P. Piovanil, L’etica dello stordimento, in “Nuova Antologia”, n. 210, gennaio 1976, pp 31-45.. Significativo quanto arriva a dire Piovani nel seguente passo: “Se, per distrar-si, l’uomo  distrae-sé dall’interezza della vita elevando il “perditempo” a una tetra volontà di liberarsi dal tempo col riempirlo di un’esistenza fatta di ore deliberatamente non-vissute, fermate negli attimi prolungati dalla frivolezza
assunta a un desiderio metafisico di banalizzazione, il momento ludico, che è nobiltà
dell’homo ludens , cessa di essere tale e si converte in ossessione pronta a tutti gli sforzi, a tutte le fatiche,
a tutti i parossismi, a tutte le violenze, pur di evitare che l’individuo rimanga, nel tempo, per qualche tempo solo con se stesso. Il frastuono diventa una droga morale che non è più giuoco, ma autocondanna a una
disindividualizzazione che ha una terribile serietà. Diventa la maschera grottesca della disperazione, il certificato lugubre della alienazione” (ivi, p. 37). L’immergersi nel frastuono  del gregge è l’antitesi del
Conosci te stesso di Delfi e del Diventa quello che sei di Pindaro e di Nietzsche.
[26] Nodari, Op. cit., p. 22.
[27] Nodari, ivi, p. 23.
[28] Piovani, Principi di una filosofia morale, cit., p. 672
[29] Ivi, p. 673.
[30] Nodari, ivi, p. 23.
[31] P. Piovani; principi di una filosofia della morale, cit., pp. 703-705.
[32] F. Tessitore, Dialettica delle forme morali e anti-ontologismi in Pietro Piovani, cit., p. 945
[33] Nodari, ivi, p. 29.
[34] Fiorito intorno alla metà del VII se. A. C.,
[35] Piovani, Normatività e società, p. 175.
[36] F, Nodari , ivi, p. 29, 

“il Buon Esempio”. Conferenza a Pesaro

https://fb.me/e/3Gq8ncOTM Venerdì 26 aprile alle ore 19:00 nella Galleria degli Specchi dell’ALEXANDER MUSEUM PALACE HOTEL di Pesaro seconda...