ci fu una
tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro
significato originario:" tovlma me;n ga;r
ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), infatti l'audacia
irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni
di partito.
Il medesimo fenomeno rileva Sallustio
nel tempo di Catilina.
Nella monografia sulla congiura del 63 a. C.
lo storiografo ricorda che Catone, parlando in senato dopo e
contro Cesare,
il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i
loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo
cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera
vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur,
eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente
abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni
altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica
è ridotta allo stremo.
Se passiamo dalla storiografia alla
tragedia, la Fedra di Seneca cerca di
darsi coraggio per venire meno alla fedeltà coniugale dicendo a se stessa: “ honesta quaedam scelera successus facit " (Fedra, v. 599), il successo rende certi
delitti atti di virtù.
Concludo la rassegna dei testi con una tragedia di Shakespeare che non
ignora né dimentica Seneca: nel Macbeth, la moglie di Macduff, quando viene invitata a
fuggire da un messaggero, prima che arrivino i sicari del sanguinario
tiranno, risponde: “Whither should I fly?-I have done no harm. But I remember now.- I am in this earthly world
where to do harm-is often laudable; to do good, sometime-accounted dangerous
folly” (IV, 2), dove dovrei scappare? Io non ho fatto del male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo
dove fare il male è spesso lodevole; fare il bene, talora è considerata
pericolosa follia.
Ma ora, è già tempo, veniamo ai giorni nostri, e confrontiamoli con
quelli pieni di speranze della gioventù che fece il ’68. Non so se era la
meglio gioventù. Era comunque una gioventù che stava, si sentiva meglio. Anche se poi le attese di allora sono state in
massima parte frustrate. Noi ragazzi del ’68, quanti siamo ancora vivi, se non
siamo proprio delle Silvie leopardiane, appunto perché, piuttosto attempati,
respiriamo ancora, poco ci manca. Quasi tutte le nostre speranze infatti sono
cadute.
Parto dunque da una parola che
all’epoca era malfamata: moderato. “Tu
sei un moderato” detto da una ragazza a un ragazzo era un rifiuto secco:
significava per lo meno sei “un reazionario”. Ora quel significato si è
ribaltato: adesso è un termine rassicurante, una qualifica positiva, anzi
indispensabile all’identità di una persona per bene. Allora si rispondeva: “io
moderato? Vuoi scherzare? Io sono più maoista di Mao”. Ora tutti si dichiarano
moderati; nessuno è mai stato comunista, e se lo è stato fu in un altro paese e
oltretutto quel giovane che errava non c’è più.
Borghese era
un’altra offesa: significava nemico di classe, odioso a quelli politicamente
corretti, uomo egoista e avido, ignaro della cultura, della bellezza, mai allattato dalle Muse, mai scaldato dal più
pazzo fuoco dell’arte. Don Milani prese parte a questa esecrazione scrivendo: ““Una classe che non ha
esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se
occorresse “cambiare tutto perché non cambi nulla” non esiterà a abbracciare il
comunismo” [2].
All’epoca,
tra noi “sessantottini”, ci si
vergognava di essere borghesi: ricordo che nel marzo del ’68 tornai a Bologna
da una settimana in montagna. Ero molto
abbronzato, e, quando entrai nell’aula di un’assemblea studentesca, le compagne
mi domandarono con aria inquisitoria dove fossi andato a prendere tutto quel
colore. Risposi: a Cuba “a tagliare la canna da zucchero con i nostri compagni
lavoratori”.
Non
so se ci credettero, ma se avessi detto la verità mi avrebbero escluso dal
giro.
Oggi,
mentre gran parte della popolazione, scende i gradini della scala sociale
degradandosi nella povertà, tutti vorrebbero essere considerati borghesi:
conosco dei poveracci che si indebitano per mandare i figli a scuola di nuoto,
di vela, magari di equitazione anche se i loro bambini sono negati a questi
sport. Lo fanno per poterlo esibire e farsi credere appunto borghesi.
Poi
c’era una volta la libertà.
Significava prima di tutto, libertà di pensiero, libertà di parola, parresìa, libertà politica insomma.
Quando eravamo ancora più giovani i professori fascisti ci dicevano: a scuola
non si fa politica.
Tucidide per primo mi aveva emancipato da tale servitù
insegnandomi che Pericle disse: "movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll
j ajcrei'on nomivzomen"
(Storie, II 40, 2), siamo i soli a
considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Libertà era
dunque prima di tutto possibilità di occuparsi della vita della polis.
Ora questa
parola sacra è diventata esecrabile: adesso libertà vuol dire licenza di fare
il proprio comodo, anche danneggiando il prossimo e il meno vicino. Insomma
cercando di annichilire chiunque ostacoli il nostro egoismo.
Un’altra
parola chiave è “rispetto”. Respicio significa osservo: rispettare
vuol dire osservare una persona senza brama di possederla, di dominarla, di
sottometterla.
Ora questa
parola si è degradata in viltà di fronte ai luoghi comuni di moda, in reticenza
davanti alle assurdità che ogni dì e ogni notte giornali e televisioni
diffondono. Chi denuncia le storture, chi è fuori dal coro della pubblicità e
della propaganda, è trattato come un delinquente o un pazzo.
Poi: l’amore che una volta tendeva a Dio, o a
una donna, o a un uomo, o all’umanità, adesso ha come obiettivo principale il
denaro.
L’amore
per l’altro sesso, particolarmente quello delle donne per gli uomini, ora,
quando c’è è simile a quello dei lupi per gli agnelli.
E ancora:
la pace che era conseguenza della
liberazione dalla tirannide e madre del benessere, è tornata a essere quella
degli imperialisti romani denunciati da Calgago, il Caledone ribelle: “
Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si
locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens
satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre
trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt,
pacem appellant
" (30), ladroni del mondo, dopo che
alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il
nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né
l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza
con pari passione. Rubare, massacrare,
rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Si continua a
commemorare il genocidio subito dagli Ebrei, giustamente, ma sarebbe altresì
giusto ricordarne, biasimarne altri più recenti, e fermare quelli in corso.
Concludo con la
parola uguaglianza. L’uguaglianza
tra gli umani è stata una speranza, una meta da raggiungere per tante
religioni, filosofie, costituzioni politiche. Ora essa è un’utopia irrealizzabile per
alcuni, una bestemmia per altri. Eppure se non c’è una sostanziale uguaglianza,
non c’è vera democrazia. Adesso si accetta che un manager guadagni centinaia e
centinaia di volte più di un operaio come fatto naturale. Quindi l’uguaglianza è
qualche cosa di contro natura nella mente di chi considera secondo natura tali
diversità abnormi.
Ecco: questi sono
veri e propri ribaltamenti lessicali cui corrispondono transvalutazioni
estetiche e morali
Se nichilismo significa “che
i valori supremi si svalorizzano”
[3],
queste svalutazioni
semantiche porterà a un nichilismo linguistico,
o per lo meno a quel parlare
male che viene dal pensare male e che, a detta di Platone, fa male all’anima [4].
[2] La frase fra virgolette è nel romanzo “Il Gattopardo”. La dice un principe
siciliano all’arrivo dei garibaldini (1860). Poi fa il garibaldino anche lui e
così non perde né i soldi né il potere.
Scuola di Barbiana. Lettera a una
professoressa, p. 74.
[3] Nietzsche, Frammenti postumi, autunno 1887, 9 (35).
[4]
Lo afferma Socrate
nel Fedone :" euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'"
levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[4],
ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare
bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
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