La parte conclusiva della prima lezione [1] del mio seminario verterà sul chiarimento del suggerimento
pindarico: “diventa quello che sei!” [2].
Trovare e salvaguardare la propria identità è un compito tra i più difficile e pure tra i più necessari e dovuti a noi stessi. Infatti il conformismo, i luoghi comuni, la pubblicità, la pressione possente della massa esigono la rinuncia di ciascuno alla propria individualità.
Trovare e salvaguardare la propria identità è un compito tra i più difficile e pure tra i più necessari e dovuti a noi stessi. Infatti il conformismo, i luoghi comuni, la pubblicità, la pressione possente della massa esigono la rinuncia di ciascuno alla propria individualità.
Il gregge avverte l’eccezione come pericolosa per il proprio
biascicare e ruminare. L’anomalia è ritenuta una colpa. Anche quella in meglio.
Diventare se stessi dunque è difficile, persino pericoloso, ma non
diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella
degli altri.
Sentiamo Seneca: “Niente dobbiamo fare con cura maggiore che
evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera
delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va” [3].
E ancora: “ nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di
regolarci secondo il si dice” [4].
La maggior parte delle persone non
vive la propria vita ma quella suggerita dalle mode lanciate il più delle volte
astutamente dai profittatori, ma talvolta perfino dagli imbecilli. Scrisse
giustamente Oscar Wilde: “credo che accettare i luoghi comuni della propria
epoca sia la più rozza forma di immoralità” [5].
E di infelicità aggiungo, poiché il dolore più grande consiste
nella discrepanza tra le nostre possibilità e la nostra realizzazione. Questo è
lo spread più angoscioso.
L’Asino d’oro di
Apuleio fa vedere come si possa perdere l’identità di uomo e quanto sia
difficile recuperarla. Nell’ultima parte del romanzo, il protagonista Lucio che
era diventato un asino, rivolge una preghiera alla luna, la Regina del cielo
apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, chiedendole¨”
stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei,
rendimi al Lucio che sono” [6].
Platone alla fine della Repubblica racconta il mito di Er, secondo il
quale dopo la morte torniamo sulla terra ma prima di essere trascinati alla
nuova nascita, filando veloci come stelle cadenti, dobbiamo sceglierci il
demone della vita che ci aspetta. La scelta è libera. Lachesi, la vergine
figlia di Ananche, infatti dice : “non sarà il demone a sorteggiare voi, ma voi
a scegliere il demone” [7]
Il demone (daivmwn) è il
destino ed è il carattere di ciascuno [8].
Eudaimonía (Eujdaimoniva), felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non
ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici
e saremo colpevoli della nostra infelicità: “ responsabile è chi ha fatto la
scelta, il dio non lo è”[9].
Infatti: “Molti provano penosa tristezza perché tra la loro
vita e i loro istinti c'è un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita
non è affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi:
pesi che in fin dei conti essi stessi si sono accollati"[10].
Allora per diventare se stessi bisogna prendere le distanze da
tutto quanto ci distoglie da questo obiettivo, perfino dai genitori nonostante
il rispetto comunque dovuto a loro, Non è un suggerimento blasfemo.
Lo dà anche il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice
alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -Quid
mihi et tibi mulier? " [11] (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim
separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
Nell’ Achilleide di Stazio, il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che lo
aveva fatto travestire da fanciulla perché non andasse alla guerra
di Troia. Ma il ragazzo, attirato dalle armi le dice :“ho obbedito, madre,
sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti ho obbedito troppo: vado alla
guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno cercato”[12].
Dopo il poeta latino sentiamo Erich Fromm: " Rimanendo legato alla
natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel
mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della
sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua
ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe
diventare un adulto"[13].
Achille sceglie la gloria e con essa la morte precoce pur di
emanciparsi dalla madre.
"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro
che questo, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di
morire"[14].
Per questo l'Adriano della Yourcenar ha voluto conquistare il
potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani,
per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per
essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi
realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro
opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei
pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[15].
Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che
cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede
forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse il
melograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[16].
Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di
virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà
assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[17].
Cercare il compimento del proprio destino che è una piccola parte
del fato universale, significa accettare l’ordine del cosmo. Il fato si compie
comunque: bisogna trasformare la necessità in una scelta
“Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist meine innerste Natur ”[18].
L’uomo non solo è infelice ma anche disgustoso quando non
assomiglia a se stesso. Diventa ajeikhv~, sconveniente, ossia non ejoikwv~ o eijkov~, non somigliante.
"Quando è privo di ogni charis (cavri~[ (19]), l'essere umano non
assomiglia più a nulla: è aeikelios (ajeikevlio~) .Quando ne risplende, è simile
agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che
costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha
agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una
volta per tutte….Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si
dice aeikizein (ajeikivzein),rendere aeikes (ajeikhv~) o aeikelios ,
non simile"[20].
Non simile a se stesso.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[1] 5 febbraio 2013, dalle 17 alle 19, via Zamboni, 32, aula Guglielmi
dell’Istituto di italianistica e filologia classica
[3] Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur
antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur” (De vita
beata, 1, 3)
[11] T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una
madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo
che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto
incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le
parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella
riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto
perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene
mai" (p.691).
[12] Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes,/paruimus
nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo” (II, 17-19)
[13]E. Fromm, La
rivoluzione della speranza ,
p. 80.
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