Ifigenia fece suonare il campanello verso le cinque, quando
era già buio; corsi ad aprire il portone,
perché ero impaziente di fare l’amore; ma, come la vidi, mi fermai
stupito, senza toccarla, senza invitarla a entrare, senza dire parola: non
avevo mai visto una tale unione di inverno, colore e calore di vita: i capelli
bruni bruni, bagnati, a tratti innevati, le scorrevano giù per le spalle come
un ruscello montano cupo di gelide ombre , e aspro di pietre biancastre,
facendola rabbrividire, ma gli occhi violacei, lucenti mi versavano addosso una
morbida luce che fluiva calda dal cuore. La osservavo in silenzio, mentre i
fiocchi larghi continuavano a caderle addosso, evidenziandosi sulle ciocche
scure, come sulle chiome perenni degli abeti montani, e trasformando la
luminosa ragazza in una creatura dei
boschi: un dolce cerbiatto dalla pelle screziata, oppure una bella baccante che
dopo la dolce fatica della corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore
onorando il dio suo, Bacco, signore della gioia di vivere, della festa lieta,
delle grazie tutte, del desiderio. Mentre nella fredda oscurità della notte
precoce contemplavo la vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e
scaldavo di gioia. Dopo qualche momento di stupito silenzio, la ragazza disse:
“mi fai entrare? Sento un poco di freddo”.
Mi scostai dalla porta: Ifigenia entrò senza indugiare e,
poiché l’ascensore non funzionava, cominciò a salire i cinque piani di scale
spedita, facendo ondeggiare la testa, e le anche, sulle gambe robuste
molleggiate dalle caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nello sforzo di
ascendere i molti gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con leggerezza,
potenza e agilità. Le correvo dietro ammirato e felice. Quando fummo arrivati
davanti alla porta dell’appartamento, la aprii con la destra un poco tremante,
poi con la sinistra le feci segno di entrare. Ero pieno di desiderio amoroso.
Lo sentiva concordemente anche lei, poiché procedette fino alla sponda del mio
grande letto dove si svestì con rapide mosse. Mentre, con i vestiti sul
pavimento, cadeva la neve, la splendidissima amante mi chiese di spogliarmi
subito e di abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi: il marito, un
tanghero assai sospettoso, non poteva crederla a spasso nel caos bianconero
della notte nevosa, né, tanto meno, doveva immaginarsi che passasse il tempo
nell’alcova di un uomo: perciò era necessario che rientrasse non oltre mezz’ora
dopo la lezione di yoga, che finiva alle sei e distava un chilometro circa da
casa sua. Ci eravamo spogliati. L’abbracciai senza dire parola: il seno si era
già intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta dal cielo
estivo: pensai che non era il tepore domestico a renderla così calda e vivace
appena si era sottratta all’iniqua, mortificante stagione, ma il suo giovane
sangue fervido sotto la pelle ancora abbronzata e profumata dal sole che
durante la nuda estate doveva averla baciata con lucida forza amorosa,
lasciandole addosso indelebili segni di bellezza, di salute e di gioia. La
baciai anche io per succhiare una parte di quel calore celeste; quindi la
distesi sul letto inclinando il mio corpo avido, scuro e magro su quello
armonioso di lei: ne trassi piacere e voglia di vivere, eppure pensai a quando
le sue magnifiche membra, coperte dall’ultima veste, la nera terra, l’avrebbero
fatta fiorire di sanguigni papaveri, o di rose rosse, profumate di carne.
Il viaggio ciclistico in Grecia. Quasi tre anni più tardi.
Partimmo da Pesaro il 19 agosto alle sei di mattina, poiché
dovevamo arrivare al porto di Ancona e iniziare le operazioni di imbarco per
Patrasso non dopo le nove. Avevamo con noi, due piccoli zaini oltre le
biciclette. Anche Ifigenia la bella si era adattata a girare come una zingara.
Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però le condizioni emotive non
erano sane né equilibrate tra loro. Pedalavamo sulla strada statale n. 16 tra
Pesaro e Fano, io avanti lei dietro. A sinistra osservavo la costa adriatica, a
destra il colle Ardizio, poi la terra del Montefeltro: la dolce e serena
campagna raffigurata alle spalle di femmine umane, serene e armoniose anche
loro, da quel grande amante del classico e delle donne che fu Raffaello
urbinate. Dopo qualche chilometro, a fosso Sejore, mentre guardavo il sole che
cercava di uscire dal mare, mi sembrò non ne avesse la forza: anzi, quando il
suo svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, sembrò dovesse
fermarsi così dimezzato: al posto dell’emisfero inferiore imprigionato nella
distesa marina si vedeva riflessa nell’acqua l’immagine rossa della metà
superiore. Mi fece l’impressione sinistra di un paralitico che passa il tempo seduto in una poltrona tenendo sulle
gambe coperte e insensibili un grande specchio per vedervi riflessa la faccia
ancora bella e la testa fulvida di ricci lucenti, ultima testimonianza di tempi
migliori, quando le gambe snelle e veloci al pari di ali, lo portavano dove
voleva. Erano quasi le sette, quantunque legali. L’estate declinava pur troppo. Il sole finalmente riuscì a liberarsi
dal mare fremente, colore del vino, ma la morte cupa e dolente della bella
stagione era vicina. Non avevamo ancora parlato: era tempo di avviare almeno
uno scambio di qualche battuta; lei procedeva alquanto immusonita: poteva
essere solo assonnata, ma forse era anche scontenta di pedalare verso l’Ellade
antica con uno che non le rivolgeva parole né sguardi. “Ifigenia- dissi con
tono amichevole e volontà di farla partecipare alle mie osservazioni-guarda il
sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco; non sembra un’atomica
appena scoppiata, l’inizio forse della grande conflagrazione ignea che tutto
distrugge e tutto rinnova?”. Volevo
significarle che speravo in una salutare rigenerazione tra noi. Ma quella,
sgradevolmente colpita dall’idea apocalittica, mi guardò con rancore, fece un
gesto di scongiuro triviale e disse: “ Le tue fantasie catastrofiche copiate da
Seneca, filosofo da strapazzo, d’ora in avanti tielle per te!”.
Zittito in malo modo, meditavo sul nostro fallimento
attraversando Fano ancora un po’ addormentata. Superato l’arco di Augusto,
pensavo alla sua bellezza ancora fulgida e trionfante.
Pensavo un poco da pedante rimuginando i maestri della Stoà:
“la magnificenza corporea scompagnata dal logos e dalla virtù sfiorisce presto
e lascia solo vani rimpianti a chi, mentre la possedeva, sperava contro ragione
di conquistare il mondo brandendola quale invincibile arma: Ifigenia, da
quando, cambiati i modelli, rinnega con odio i miei insegnamenti, e ripiega sui
tangheri, commette l’errore di attribuire alla sua venustà superba un valore
eterno, assoluto e capace di farle raggiungere qualsiasi meta. Ma la bellezza
da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo di mandorlo
che il vento di aprile disfiora; è come il fiammeggiante papavero che il caldo
di giugno scolora; è come il grano nitido che brilla nell’aria odorosa di
un’umida sera di prima estate, finché la falce spietata lo miete e l’avido
agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la foglia che il primo
temporale di luglio strapazza, stacca dal ramo e trascina in una fangosa
pozzanghera. L’eterna devastazione del tempo risparmia soltanto i frutti
dell’anima: il Bene che fai, l’Amore che dai, la Giustizia che rendi, il Bello
che crei, il Vero che cerchi. Questa coscienza preziosa dei beni spirituali
l’ho trovata attraverso la gioia e il dolore dei quasi tre anni vissuti con
lei. Per me è stata la conquista più
grande, eppure non riesco a comunicargliela. La prenderebbe come un giudizio
teso a oscurare il suo splendore corporeo che invece io venero perché mi ha
dato la prima spinta verso il ricordo della bellezza eterna”.
La feci passare davanti. Volevo esaminare il suo corpo in
movimento per coglierne l’essenziale, l’universale, l’esemplarmente umano, e
sottrarlo alla rovina del tempo irremeabile, all’annientamento dell’inesorabile
morte, alle offese degli uomini ottusi, delle malattie voraci, dei dispiaceri
crudeli.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le
membra nel pedalare la bicicletta. Consideravo una per una le parti del corpo
dove nel primo anno del nostro amore avevo visto qualcosa di sovrumano: un
somatizzarsi dell’adorata luce solare. Poi quello splendore celeste si era
offuscato, anche per colpa mia, e le belle membra erano diventate meno vibranti
di gioia spirituale e divina; tuttavia umanamente erano ancora perfette. La
piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e
sottile, oscillava soavemente sulle spalle forti e rotonde; gli occhi a
mandorla, violacei, grandi e profondi nel volto dagli zigomi in luminoso rilievo,
ogni tanto si volgevano indietro per controllare la mia tenuta al ritmo
frequente delle gambe che spingevano i pedali con forza; quegli occhi
interrogativi, circondati dai folti capelli neri, sembravano laghi montani
cinti da foreste ombrose, densi di misteri inquietanti. I seni sodi e cospicui
sotto la maglietta leggera fendevano l’aria seguendo i movimenti dell’agile
busto senza perdere nulla della loro compattezza rotonda; avrei voluto
succhiargleli per trarne la forza di parlare alla creatura già mia con il suo
stesso linguaggio che non comprendevo più da quando nuovi crucci e dolori
antichi le avevano torto la mente con la favella. La vita sottile connettendo
con la sua cavità le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in
risalto; le natiche belle appoggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si
schiacciavano né subivano deformazione alcuna, tanto erano sode e compatte:
quando la giovane donna si alzava sui pedali per superare qualche breve salita
o per contrastare le folate del vento contrario, la carne dei glutei,
divinamente compatta dal vincolo dell’armonia, parzialmente visibile sotto i
calzoncini azzurri e succinti, non faceva una piega. Quando tornava a pedalare
seduta, usava soprattutto le cosce per imprimere energiche spinte al veicolo;
allora la carne fiorente, in splendida copia sopra le ossa sottili, si tendeva
con sano vigore abbronzandosi al sole alzatosi intanto nel cielo; il piccolo
disco delle ginocchia armonizzava la tensione della coscia carnosa con il
turgore del sodo polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa
trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa e concorde ai piccoli
piedi calzati di rosse scarpette. La osservavo e con il pensiero le rivolgevo
mute ma accorate parole: “Bella sei bella, creatura; sei l’idea stessa della
Bellezza incarnata che voglio raffigurare prima che la tua carne si perda per
sempre inghiottita dal tempo edace che tutto divora. Eppure tu non sei
Ifigenia, la fanciulla eroica che crea con forza valori morali e sociali.
Piuttosto sei Elena che spinge i poeti a cantare la Bellezza della forma
femminile perfetta. Non è nemesi soffrire tanti dolori per una donna del
genere. Ma tu vuoi drammatizzarti da sola. Ora non parli con me perché temi che
io disapprovi le parti non buone che vuoi comunque provare sul tuo
palcoscenico. Forse hai ragione: in ogni caso faresti bene a indagare te stessa
profondamente. Nei baratri cupi e limacciosi del tuo carattere però non
dimenticare la luce, non affogare; dopo averli osservati, creatura, risali.
Voglio vederti riemergere trionfalmente quando avrai decifrato il codice arcano
del tuo destino non comune. Ti voglio vedere felice”. Così arrivammo ad Ancona.
Mangiammo un frutto dell’ultima estate, e, sempre senza parlare, salimmo sul
traghetto greco.
Il sogno sul
traghetto.
La notte tra il 19 e il 20 agosto, mentre dormivamo
nell’angusta cabina che solcava le onde dell’abisso salato, feci un sogno
angoscioso. Io e Ifigenia ci amavamo con passione impetuosa.
A un tratto, dalla mia bocca uscirono schizzi di calce viva
che in breve tempo corrosero gli occhi della ragazza lasciandole due buchi
profondi fin dentro la testa. Ifigenia mi rimproverava con un singhiozzo; poi,
senza ascoltare le mie invocazioni, indossato un mantello, si allontanava incamminandosi
per una via deserta, sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano
con fragore cattivo, si agitavano rabbiosamente e sembravano volere qualche
cosa con furibonda violenza: infatti, a un tratto, si lanciarono addosso alla
fanciulla già orbata e presero a beccarla sulla testa, nel volto, sulle piccole
mani protese in un tentativo di vana difesa; altri si diedero a duellare
squarciandosi i petti a vicenda, altri si laceravano il corpo da soli con il
becco aguzzo, oppure scagliandosi contro pezzi acuminati di ferro. Dopo qualche
minuto Ifigenia, non potendo difendersi dai colpi di quei rostri furenti, si
mise a scappare con tutte le forze che le rimanevano; allora il mantello le
cadde di dosso, e il suo splendidissimo corpo apparve più luminoso che mai
sotto la testa sconciata da quelle bestie pazze e crudeli. La vedevo correre
nuda, veloce, lontana dagli uccelli assassini e speravo che, perduta la testa,
potesse salvare almeno il corpo splendente; ma ecco che, invece, la carne delle
braccia tornite, del collo liscio, del florido seno, delle cosce morbide,
profumate e lucenti, cominciò a liquefarsi, a gocciolare, non come un sudore
acquoso, bensì come un grasso opaco, denso, biancastro che scivolava
copiosamente nel suolo impregnandolo e fertilizzandolo. In poco tempo la polpa
del corpo si ridusse a una povera buccia grinzosa, quindi venne annientata da
quello struggimento crudele: dalle gocce cadute a terra però spuntarono piccole
rose rosse, socchiuse da foglie lucenti, sorrette da gambi diritti e sottili,
umide di fresca rugiada, illuminate da un sole mattutino e primaverile: nitide
di verginale bellezza. Cercai di coglierne una per tenderla a Ifigenia e dirle:
“Tu per me sei ancora simile a questa”. Ma il gambo era di ferro e non riuscivo
a spezzarlo. Intanto la mia povera, cara creatura, ridotta allo scheletro solo,
si era fermata in mezzo al giardino nato dalla sua carne versatosi
completamente nel suolo. Finalmente rivolse la testa dalla mia parte e mi fissò
con le occhiaie, manifestando immenso rimpianto delle sue membra liquefatte e
del nostro amore sconciato. Io volevo avvicinarmi alla miseranda figura per
consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare il povero teschio, con la
sinistra indicavo il variopinto giardino nato dal suo struggimento; ma
Ifigenia, prima che potessi toccarla, disse con un filo di voce: “Lascia
perdere, amore. Non vedi che sono già morta?”.
Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il Signore di Delfi,
che, devoti, andavamo a pregare, mi aveva mandato una visione notturna dal
contenuto latente facile da svelare: volevo la morte della mia compagna o per
lo meno un suo rinnovamento. Così com’era non potevo più tollerarla. Mi posi
gli occhiali sul volto e cominciai a scrivere il sogno mentre l’odiata-amata compagna
dormiva ancora. Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi
le lenti a contatto: a lei con gli occhiali non piacevo punto, e a me non
piacerle sembrava il peccato più brutto: peggiore della stupidità, della
volgarità e del crimine stesso. Infatti quando si svegliò e mi vide con gli
occhi invetriati, intuì che non stavo annotando pensieri propizi. Mi guardò un
momento, poi disse a bruciapelo che non avrebbe più fatto l’amore con me poiché
le confondeva la mente.
La pedalata contro vento
e la notte di Galaxidion.
Il pomeriggio partimmo da Delfi scendendo a Itea, poi
volgemmo le biciclette su S. Nicolas, il piccolo e ameno porto della baia di
Crisa da dove si prende il traghetto per Egion. Il vento soffiava contro di
noi. Per pedalare con efficacia contro quella forza ostile non bastano gambe e polmoni robusti; ci
vogliono carattere, metodo, e anche intelligenza. E’ come trovare il modo di
piacere a una donna che non sente attrazione immediata per te. Devi insegnarle
a trovarti accettabile prima, poi gradevole, poi unico e meraviglioso. Non è
impossibile. Pedalando contro vento è necessario trovare la posizione raccolta
e il ritmo costante da opporre alle follia senza metodo delle folate. Ifigenia
invece obbediva agli impulsi violenti e irregolari dei furibondi soffi contrari
al nostro progresso: si lasciava deviare dalla linea diritta, rallentare, e
talora, se la forza delle spinte regressive aumentava, persino fermare. Oppure
sbagliava i cambi e pedalava scomposta disperdendo energie con rabbia furente
anche contro di me che l’avevo portata su quella strada infernale: oscillava,
sbandava, sbuffava, metteva un piede a terra, imprecava. Oppure seguiva visioni
e miraggi: bramosa di porre termine alla sua folle fatica voleva imboccare ogni
strada sterrata che menava sulla riva sassosa del mare, dove l’allucinata
ragazza vedeva inesistenti traghetti dirigersi su inesistenti villaggi. Dovevo
contraddirla aspramente e sgridarla, o dissuaderla con dolci parole e dare
l’esempio. Pensavo: “pedala come affronta la vita: col vento a favore procede
spedita; con il vento contrario perde coraggio, disperde le forze, si ferma,
poi scivola indietro. Adesso ha bisogno di buoni successi. Altrimenti
regredisce e si guasta”. Provavo risentimento per quella debolezza mentale che
voleva inceppare anche me e cavarmi le forze. Ma quando Ifigenia ottenne una
sosta per un bagno che fece in mutande, e uscì dall’abbraccio marino con le
membra perfette gocciolanti di acqua salata, e iridescenti nel sole, “me
beato-pensai-per il dono che ho avuto dei tuoi anni migliori, creatura divina,
venuta a illuminarmi la vita altrimenti tetra e priva del sommo conforto,
Ifigenia ricordo dell’eterna bellezza celeste!”
Al tramonto ci fermammo in un borgo del golfo di Crisa.
Galaxidion si chiama. Prendemmo una camera con letto matrimoniale e cenammo. La
giornata ventosa e tormentata era finita in una notte calma, dolce e serena di
ultima estate. Dopo cena andammo a sederci sulla riva del mare. Si vedevano
cadere le stelle. Ifigenia temeva che il firmamento ne restasse sguarnito.
Invece era sempre più ricco di fuochi. “Vedi tesoro-dissi-donando si acquista”.
Anche il golfo di Crisa era pieno di luci. Sul mare si muovevano lenti i
piccoli lumi delle barche uscite a pescare. Un gradino più sopra si vedevano le
lampadine di Itea, più in alto quelle di Crisa, poi la luce santa di Delfi, la
meta del nostro pellegrinaggio devoto. Due fari lontani, appena visibili,
segnavano, forse, la duplice cima del sacro Parnaso; sopra c’era solo il cielo
stellato. La via Lattea spiccava nel mezzo. Ifigenia ridendo disse che
Galaxidion si chiama così per la Galassia che là si vede brillare come in
nessun altro luogo. Bellina, bambina, rideva. Brillava, brillava anche lei. Mi
fece pensare ai suoi vent’anni quando la carne nitida e profumata le lievitava
addosso come una pasta preziosa. Eravamo contenti. Finalmente potevamo
permetterci di stare in pace, di essere quasi felici. Da un locale notturno
venivano le note di un valzer di Strauss, Storie
del bosco viennese; dalla campagna alle spalle il tremulo verso perpetuo
dei grilli. Tutto questo non può essere soltanto caso e materia, dicemmo. Ci
venne in mente la morte del lunatico re di Baviera amato da noi per la sua
volontà di Bellezza e di Arte contro il mondo, sconciato, già allora, da
industrie, commerci e cannoni. Ci sovvenne il nostro pellegrinaggio pasquale ai
castelli teatrali del lunatico re sodomita, al cupo lago increspato dove un
cigno segnava di bianco il punto della morte per acqua che Ludwig prigioniero non aveva temuto. “In questi
momenti di fuga, di memorie, di sogni, siamo due amanti felici-dissi-ma
sull’arte e la vita oramai abbiamo opinioni diverse. E vogliamo vivere in modo
diverso. Tu vuoi privilegiare l’istinto; io agli impulsi caotici voglio
anteporre un logos appassionato e commosso, ma anche ordinato e diretto a una
meta precisa”. Ifigenia mi corresse: “Io privilegio l’intuizione geniale
tesoro, non l’istinto bestiale. “Le intuizioni senza concetti sono
cieche-pensai- e la bellezza senza intelligenza e volontà di bene può fare
male”. Eravamo contenti che la notte stellata dopo le fatiche diurni ci avesse
resi più tolleranti, più umani. A un tratto Ifigenia volle andare a dormire: la
lunga lotta col vento implacabile me l’aveva stremata. Bellina. L’accompagnai,
ma davanti alla camera le chiesi il permesso di girare da solo nella notte
odorosa. Volevo guardare ancora le luci sacre e annusare la brezza, che,
profumata di mare e di pini, mi dava carezze quasi lascive sul corpo già
beneficato dal sole.
“ Sì-mi dicevo- c’è piacere, bellezza e giustizia nel cosmo.
C’è un creatore. Il re popolare e demente nella fredda, piovosa Baviera, nella
sua reclusione dal mondo reale, dentro quei castelli pacchiani, circondato da
servi avidi e perfidi , l’aveva perduto di vista. Non voglio forzare questa
giovane donna a diventare diversa da quello che è, chiunque ella sia. Né posso
impedirle di fare i suoi sbagli, se proprio ci tiene. Però mi piacerebbe
vederla felice. Vederla diventare se stessa. Adesso lei, eliminato il tanghero
e presto anche me, vuole cercare da sola la strada che la conduca a se stessa.
Spero che riesca a percorrerla tutta, senza fermarsi né deviare, anche se
dovesse incontrarvi un fiero vento contrario”. Tornai alla camera. Entrai senza
fare rumore. Ma Ifigenia era sveglia: mi aspettava con il volto illuminato
dagli occhi ridenti . Un’espressione che non le vedevo da tempo. Facemmo
l’amore più volte. Eravamo felici.
La corriera per
Atene. I due bruti: Calibano e Trinculo. Il dialogo tragico nell’albergo.
Lasciammo le biciclette nell’agenzia di Patrasso dove
avevamo comprato i biglietti per il ritorno in Italia, poi cercammo la corriera
per Atene. Verso le quattro partimmo. Mi mancava la bici e mi spiaceva assai
perdere il sole già declinante di quella giornata dell’estate quasi finita. Mi
pesava parecchio la rinuncia a pedalare sotto il sole che si avviava a sparire
dentro le brume autunnali, di un autunno oltretutto che non sarebbe stato
illuminato e scaldato dall’amore della baccante innevata, come quello di tre
anni prima. Provavo un forte risentimento per la ragazza pigra che mi faceva
perdere l’ultimo sole dell’estate morente, e durante l’inverno mi avrebbe
lasciato solo in una Bologna tetra. Tra noi non c’era più molto di buono: ciascuno,
facendo un sacrificio anche piccolo in favore dell’altro, se non ne otteneva un
vantaggio immediato anche per sé, ne ricavava un senso di spreco: nessuno dei
due rinunciava a uno qualunque dei comodi suoi, delle sue abitudini, in
beneficio del compagno, senza soffrire e odiare il beneficato. Che razza di
coppia squilibrata e scellerata eravamo? In tale contesto provare piacere
insieme nel letto era un’offesa all’amore. Quando fummo arrivati ad Atene e
scesi dalla corriera, ci guardammo intorno nella stazione gremita e ci
chiedemmo dove e a che ora avremmo preso la corsa per tornare a Patrasso, tre
giorni dopo. Da soli non riuscivamo a capirlo, né sapeva dircelo alcuno nella
confusa stazione. Sicché decidemmo di risalire nel nostro autobus per chiederlo
al bigliettaio. Il caos di Atene non ci faceva una buona impressione e non
volevamo correre il rischio di rimanervi più a lungo del prestabilito, perdendo
per giunta la nave che doveva riportarci in Italia. Così risalimmo nella
corriera e io domandai all’uomo rimasto là dentro, in italiano, a quale ora e
da dove partisse la corsa Atene-Patrasso. Costui, appena sentì la domanda,
ripeté a voce alta “Patrasso, Patrasso!”, più volte, attirando un energumeno
con il ceffo coperto da grandi occhiali scuri; anche questo, appena salito, si
mise a gridare “Patrasso, Patrasso!”. Poi chiuse la porta, si accostò a
Ifigenia che guardava il bigliettaio con cupo stupore, e con un’immonda manata
osò profanare le cosce della ragazza, nude sotto i calzoncini bianchi talmente
succinti da lasciare vedere l’orlo delle mutandine celesti.
Così acconciata era eccitante anche per me che avevo fatto
l’amore con lei senza risparmio alcuno. Mi venne in mente che quando pedalava
sulla salita di Delfi alzandosi sopra il sellino, veniva acclamata dai maschi
che ci superavano con le automobili; omaggi che in certi momenti di difficoltà
potevano averle fatto piacere, o infuso coraggio, ma quel pomeriggio nella
corriera chiusa, la libidine scatenata dalle sue cosce nitide nei due forsennati
le diede fastidio e le fece paura. Infatti, sentendosi così brutalmente
toccata, si voltò con ira e cercò di scagliarsi verso l’uscita, ma il mostro
occhialuto aprì le braccia per sbarrarle la strada; l’altro intanto, afferrata
una chiave inglese, avanzava verso di me latrando sempre: “Patrasso,
Patrasso!”. Mentre pensavo a come difendermi dall’impeto omicida del
bigliettaio, Ifigenia, con presenza di spirito, fece cadere un pezzetto di
carta davanti ai piedi dell’animale
losco, poi cominciò a chinarsi come se volesse raccoglierlo; quel bieco, tratto
in inganno, credendo che si trattasse di cosa importante, prima lo calpestò,
poi si chinò in fretta per raccattarlo; la ragazza allora si raddrizzò di
scatto e scavalcò la bestia con un balzo; quindi aprì la porta e saltò giù
dalla corriera infernale. Il mostro occhialuto, deluso per avere perduto la
preda ghiotta, si mise a ululare e a sputare con ira; l’altro lasciò cadere la
chiave inglese e bestemmiò in italiano; io avanzai verso la porta aperta e
quando fui arrivato vicino a quel Polifemo orbo di mente, gli dissi: “Scostati.
Voglio uscire di qui”. Quello urlò ancora: “Patrasso, Patrasso!”, ghignò, poi
mi lasciò passare. Così potei scendere da quella cavernosa corriera e riunirmi
alla bella che stava aspettando l’esito della scena grottesca e sgradevole,
incerta se chiedere aiuto. Per fortuna non era scorso del sangue. Ci
allontanammo mentre quei due Ciclopi frenetici, o Calibano e Trinculo che
fossero, chiamavano i loro colleghi, magari per lamentare un’aggressione subita
da noi.
Giovanni
ghiselli g.ghiselli@tin.it
Qui, se potessi cambiare il costo di tutta la fede. Hai bisogno di aiuto spirituale, incantatore per curare tutti i tipi di malattie incantesimo di gravidanza, incantesimo finanziario, incantesimo di promozione aziendale, incantesimo di lotteria, ex incantesimo, incantesimo d'amore, incantesimo di vendetta, lupus e molti altri. Allora sei il benvenuto nella mia casa di erbe. DM ?? per qualsiasi aiuto spirituale, contattami su WhatsApp: +2348129175848 o e-mail: ededetemple@gmail.com
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