martedì 31 dicembre 2019

Debrecen. Capitolo 15. Un anniversario



Il 31 dicembre del 1981, qualche mese dopo la fine del nostro tumultuoso rapporto, Ifigenia mi telefonò. Voleva vedermi. Le dissi che l’aspettavo. Arrivò verso le dieci di sera. Quanto mutata da quella del novembre nevoso di tre anni prima che ho già raccontato! La vidi ingrossata nel corpo e indebolita nell’anima: parlava con sforzo e con stento. Il viso era ancora bello, sebbene alquanto afflosciato: le guance appesantite tendevano ad allungarsi cadendo verso il collo, la bocca molto dipinta era piuttosto slentata. Agli occhi mancava l’antica luce ricca di pathos. Sembrava che da quel volto non più teso e compatto fosse stato strappato un dente grande dalla radice profonda. La donna da poco tempo trentenne era pur sempre formosa e attraente ma doveva esserle accaduto qualcosa di doloroso. Avevo saputo solo che non faceva più l’insegnante e cercava un’altra strada. Sembrava non averla trovata. Mi raccontò che voleva tentare la danza, per la quale pensava di avere del genio.
Aveva già scagliato diverse frecce ma non aveva colpito il bersaglio. Le era sfuggita un’ occasione: lasciato il marito, aveva avuto una relazione con un danzatore famoso che dopo pochi passi fatti insieme l’aveva lasciata per un collega più famoso di lui. Nel raccontarmi questi fatti Ifigenia temeva il mio giudizio, ma senza ragione. Le dissi che io procedevo per la mia strada dove pure non mancavano ostacoli.
“Tu sai superarli” fece lei, benevolmente. “Finché non inciampo e vado a sbatterci contro” replicai. Sorrise.
La osservavo e la ascoltavo. Parlavamo senza infingimenti, come nel tempo dell’amore che pure era finito da tempo. Le proposi un giro sui colli.
La notte, stranamente, era dolce: soffiava uno scirocco caldo, quasi afoso e innaturale per l’ultimo giorno dell’anno
“Nell’aria c’è qualche cosa di magico” disse.
“Sì, andiamo sul monte Donato, quello della nostra salita ciclistica. Là potremo sentire  meglio gli odori di questo vento fatato”. Salimmo per via Siepelunga con la bianca Volkswagen. Arrivati sul colle, uscimmo dall’automobile e camminammo un poco nell’oscurità afosa e bagnata. Il cielo era marrone e striato di bianco, sebbene assai buio: potevamo vedere soltanto alcuni alberi lungo la strada.
“Sembrano soldati in marcia verso un massacro” disse.
La guardavo intensamente per vederla e comprenderla il più possibile prima di perderne la visione reale per chissà quanto tempo, magari per sempre. Le correnti della vita ci avevano allontanati già molto l’uno dall’altro e ci stavano portando in direzioni diverse, né potevano essere fermate.
Mi piaceva ancora, sebbene fosse molto lontana  dalla sua forma migliore
Il vento sciroccale le aveva appesantito i capelli che si trovavano schiacciati nella faccia e sul cranio, simili ad alghe marine. L’umidità della notte le aveva reso viscide e lucide le guance imbellettate, mentre la bocca, grande e amara, vistosamente dipinta, semi aperta, sembrava vicina a disfarsi. Tutto il suo volto ai miei occhi e al mio sentimento appariva come una maschera tragica.
“Dio salvala tu - pregavo - dalla rovina. Ti ho voluto bene, creatura, ho fatto tutto quanto potevo per aiutarti. Troppo poco. Tu non sei diventata la donna geniale e sicura che promettevi, non ti sei realizzata in maniera artistica come speravi: adesso, arrivata vicino ai trent’anni mi fai l’impressione una proletaria sviata. Nella tua debolezza, nei tuoi fallimenti però, conservi  comunque qualche cosa di bello”. Questo pensavo mentre la riaccompagnavo a casa. Poi sono tornato a casa mia, sono andato a letto e ho pensato con dolore e  rimorso al patrimonio di forza, di salute, di intelligenza, di gioia che avevamo sciupato e perduto negli anni passati insieme e finiti per sempre


lunedì 30 dicembre 2019

Un ringraziamento a Papa Francesco e all’uomo Bergoglio



Quale uomo studioso, sportivo, amante della scuola, dell’educazione, delle donne,  del sole e della vita, quale uomo antico insomma, sono disorientato di fronte a chi maneggia i telefonini e mi considera troppo romito e strano per il fatto che non ne ho mai avuto uno né saprei usarlo.  Oggi trovo conforto in queste parole di Papa Francesco, un uomo per il quale da tempo provo grande stima e sento una forte simpatia: “Nella tua famiglia sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno col telefonino, mentre stanno chattando?” Papa Francesco. Il messaggio dell’Angelus di ieri.
 Bravo Bergoglio, sei davvero un fratello e un compagno!
Gianni il poverello di Pesaro.

Il disboscamento dei monti denunciato da Stazio (I secolo d. C.)





Nella Tebaide  di Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110-111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi non vogliono lasciarli: “nec amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113).

Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426-428), in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia.

L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.
La prossima estate cercherò di abbassare il tempo.
Gianni

p. s
Alla povera piccola Greta ora viene attribuito anche il ruolo della mosca cocchiera:“Effetto Greta in Austria. I Verdi pronti a governare con i conservatori” (“la Repubblica”, 30 settembre 2019, p. 11)

Alle sardine

Cercate di  non cadere in una socievolezza egoistica tipo quella dei porcospini della parabola di Schopenhauer

Nietzsche, "La nascita della tragedia". Sommario. Capitoli I-X


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Sommario di  La nascita della tragedia (1872) di Nietzsche.

Postfazione.
 Tentativo di un’autocritica del 1886
L’autore fa un’abiura delle formule schopenhauriane e kantiane del suo scritto giovanile. Soprattutto non crede più che la tragedia insegni la rassegnazione e fornisca una consolazione metafisica.
Rimangono valide invece due intuizioni.
 In Ecce homo[1] il filosofo le rivendica “ innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci-il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca.
L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[2].
Cfr. Penteo nelle Baccanti travolto dalla irrazionalità che ha cercato di combattere oppure Aschenbach di T. Mann. La morte a Venezia.
Inoltre la giustificazione estetica della vita

La nascita della tragedia

I Capitolo
Apollineo e Dionisiaco.
Apollineo: sogno, principium individuationis, volontà di potenza, conosci te stesso, nulla di troppo, scultura, architettura, immagini dell’epos
Dionisiaco: ebbrezza, sentimento dell’unità, musica.
Apollo impone la misura anche in maniera rigida, Dioniso la spezza e manda la gente in strada a tamburellare ditirambi (cfr. il Maggiore Barbara di Bernard Shaw del 1905).
L’inno alla gioia di Beethoven con le parole di Schiller evocano il dionisiaco. (Nona sinfonia, quarto movimento).

Gioia, bella scintilla divina,
Freude, schöner Götterfunken
figlia di Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.

Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò
tutti gli uomini diventano fratelli
dove la tua ala soave freme.
Deine Zauber binden wieder
Was die Mode streng geteilt;

Alle Menschen werden Brüder,
Wo dein sanfter Flügel weilt.

Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;

Freude trinken alle Wesen
An den Brüsten der Natur;

 
II capitolo
Dioniso viene dall’Asia, ma là il suo culto era un orrendo miscuglio di crudeltà e voluttà., Quando giunge in Grecia, diventa fenomeno artistico.

III capitolo
Il mondo olimpico di Apollo è preceduto dalla sapienza silenica.
Excursus sulla sapienza silenica:  Erodoto, Teognide, Bacchilide, Sofocle, Euripide, Leopardi, Menandro, Lucrezio, Cicerone, Seneca, Petronio, T.S. Eliot
Nel canto dei morti dell’Odissea (XI) c’è il rovesciamento della sapienza silenica. L’indice dei libri e dei passi proibiti nella Repubblica di Platone.

IV Capitolo
La sapienza silenica e l’apollineo riscontrabili pure nella Trasfigurazione di Raffaello. Il titanico e il barbarico compaiono anche nelle varie gigantomachie: dalle metope del Partendone, al fregio dell’altare di Pergamo, e nella centauro-lapitomachia del maestro di Olimpia dove del resto compare anche Apollo che li domina.
Nella civiltà greca abbiamo dunque diverse fasi. Queste trovano la sintesi nella tragedia greca

V Capitolo
Omero e Archiloco: i due archetipi della poesia greca. L’artista non può essere soggettivo: deve dare voce all’Uno originario, all’Universale.

VI Capitolo
Il linguaggio teso della lirica. ( cfr. Leopardi su Pindaro)

VII Capitolo
La tragedia nasce dal coro. Interpretazioni del coro. Schlegel-lo spettatore ideale-, Schiller- il muro vivente-, Leopardi-poetica dell’indefinito, del lontano-, Manzoni-il cantuccio che l’autore riserva a sé stesso. L’arte ci salva dalla buddistica-o amletica- negazione della volontà. Trasforma l’atroce in sublime e il grottesco in comico.

VIII Capitolo
Il satiro è il simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura. Degenerazione del satiro è il pastore falso e agghindato della poesia ellenistica e latina.
Il drammaturgo quando scrive, si immedesima in altre persone. Cfr. Leopardi e il suo mettere al terzo posto il genere drammatico.

IX Capitolo
La chiarezza delle figure apollinee sono macchie luminose che ci appaiono dopo che abbiamo guardato nel fondo terribile della natura dove c’è un’orrenda notte.
Edipo è l’eroe della passività (nell’Edipo a Colono). Invece quando agiva ha sconvolto la natura confondendo le generazioni.
La propria passività viene proclamata da Edipo ai vecchi di Colono:" ejpei; ta; e[rga mou-peponqovt j ejsti; ma'llon  h] dedrakovta" (Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state subite piuttosto che fatte. Lo stesso afferma "the lunatic King "[3] di Shakespeare:" I am a man/more sinned against than sinning" (King Lear, III, 2), sono uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.

Prometeo invece è l’eroe dell’attività. Il suo è un peccato attivo e pure rivendicato dallo stesso Titano.
Le Oceanine si impietosiscono per la sorte di Prometeo e lo stesso Titano si sente meritevole di tanta compassione ( Prometeo incatenato, v.246), eppure è tutt'altro che pentito e prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(265-267).
  
X Capitolo
Dioniso è un dio che lotta e soffre il dolore dell’individuazione. Nonno di Panopoli (V sec. Dionisiache)  racconta che fu fatto a pezzi dai Titani.
Del resto Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio (le Baccanti di Euripide) e di un dio mite e dolce (Iliade VI) Nelle Rane è addirittura un buffone e un vigliacco. Varietà dei personaggi nei miti.
L’individuazione è dolorosa e l’arte ci dà la speranza di una ripristinata unità. Nel Prometeo liberato infatti la cultura titanica viene riportata dal Tartaro alla luce. Come nelle Eumenidi. Con Eschilo il mito si risolleva dalla pretesa di renderlo storico e di ucciderlo. Ma poi arrivò il sacrilego Euripide





[1] Del 1888.
[2] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia,  p.  49.
[3] Il re matto (Re Lear, III, 7)

domenica 29 dicembre 2019

Saffo. Parte 3. "Io amo la delicatezza"

Saffo

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Una caratteristica di Saffo è la delicatezza. Saffo,  nel fr. 58 Voigt, nota delicatamente la sua sopraggiunta vecchiaia gh'ra" che toglie luce alla pelle e colore ai capelli: “leu'kai d jj ejgenovnto trivce" ejk melaivnan”, i capelli da neri sono diventati biannchi. Quindi menziona Titono che Aurora dalle braccia di rosa portò ai confini del modo. E infine: e[gw de; fivlhmm j ajbrosuvnan. Io amo la delicatezza.
Eros a me ha fatto ottenere la bellezza e la luce del sole.

Ricordo delicatezza di Euridice la quale non si lamenta poiché un’amante non può lamentarsi di essere amata: “flexit amans oculos: et protinus illa relapsa est/bracchiaque intendens prendique et prendere certans/nil nisi cedentes infelix adripit auras./Iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam/questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)/supremumque “vale”, quod iam vix auribus ille/acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est” (X, vv. 56-63), girò indietro gli occhi l’amante: e subito lei cadde, e sebbene lui tendesse le braccia lottando per essere preso e prendere, nulla afferrò l’infelice se non soffi fugaci. E lei mentre già moriva per la seconda volta non emise un lamento sul coniuge suo (di che cosa infatti si sarebbe lamentata se non di essere amata?) e gli disse l’ultimo “addio” che oramai quello appena prendeva nelle orecchie, poi cadde di nuovo nel luogo di prima.
Questi versi vengono letti dalle due ragazze amanti reciproche del film Ritratto della donna in fiamme
Si pensi viceversa alla moglie della satira sesta di Giovenale: quando si trova sulla nave dove l’ha fatta salire il marito, gli vomita addosso, se invece segue l’amante, sta bene di stomaco, pranza in mezzo ai marinai, passeggia per la poppa e gode nel maneggiare le dure funi: “quae moechum sequitur, stomacho valet; illa maritum/convomit; haec inter nautas et prandet et errat/per puppem et duros gaudet tractare rudentis” (vv. 100-102) .    


Cui prodest?




Se vi chiedete che cosa procacci l’inverno con i suoi ghiacci, ve lo dico subito. Ai poveri, ai barboni e ai derelitti procaccia pene, malattie e morte; a certi giornalisti che strombazzao e sbandierano i luoghi comuni invece procura il brodo caldo, la pagnotta e il companatico.
Sentite questa. Nel settimanale “L’Espresso” distribuito oggi 29 dicembre 2019 con il quotidiano “la Repubblica”, c’è un articolo di tal Fabrizio Gatti intitolato “A Milano non fa freddo”. Quasi subito però ci troviamo spostati  a sessanta chilometri dalla metropoli lombarda e leggiamo di alture e di un “davanzale mozzafiato”, un aggettivo che da solo toglie ogni credito a chi scrive. Comunque da questo davanzale affacciato sulla pianura padana “il sole di dicembre colora i prati di erba primaverile”. Sulle strade “per salire a pian del Tivano “Anche quando nevica, non gela come prima e le strade restano pulite” rivela l’autista di un pullman.
 Il proprietario di un ristorante  situato nelle montagne  a sua volta menziona un fatto che secondo il cronista  preannuncia la catastrofe: “Prima un palo non lo piantavi d’inverno, tanto il terreno era gelato, duro come il cemento. Due anni fa invece stavamo fuori in maniche corte a gennaio. Da noi crescevano solo broccoli, verze e isalata. Oggi coltiviamo pomodori,  cetrioli, peperoncino piccante”. Io ne sarei contento e probabilmente anche l’autista e il ristoratore lo sono.  Il gazzettiere no. Egli presenta tutto questo come preannuncio di qualche vicino sfacelo già quasi presente in pianura, sui monti e nel cielo.
A me l’erba primaverile i cetrioli et cetera sembrano  cose buone. Oltre dare sollievo ai poveri morsi dal freddo e rosi dalla fame,  l’aria meno cruda risente in maniera positiva del bisogno di una minore necessità di riscaldamento artificiale da parte dei fragili effimeri che siamo. Ma ora è di moda esecrare il caldo il sole, la luce, che è la più rallegrante delle cose, e la vita stessa. Sono fiero di non seguire questa moda e denunciarla quale sorella e amica della morte.

giannetto il poverello di Pesaro dove oggi fa freddo.
 Mi sono congelato mentre, straziato dal vento, pedalavo affamato lungo la ciclabile  verso la  povera mensa di Fano a me sì cara.

Cristianesimo, Comunismo, Capitalismo, Umanesimo





Il Cristianesimo ha promesso agli ultimi un capolgimento di stato.
Essi vedranno  realizzata la loro potenziale beatitudine diventando i primi in un regno spirituale, non politico e in una dimensione morale, non istituzionale.

Il Comunismo ha promesso agli sfruttati di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo abolendo le classi e favorendo l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. 
Cristianesimo e omunismo sono rimaste utopie ancora da realizzare

Il Capitalismo permette agli sfruttatori di continuare a sfruttare, e fa sperare e promette agli sfruttati poveri che diventeranno a loro volta sfruttatori e ricchi.
Di fatto in questi ultimi anni i ricchi sono diventati sempre più ricchi e sempre meno numerosi, i poveri sempre più  poveri e più numerosi.

L’Umanesimo insegna all’uomo come si diventa davvero uomo indicando che cosa è umano e come si evita di cadere nella condizione di animale bruto con il grugno rivolto costantemente in basso. Tale umanizzazione ho sempre cercato e cercherò di promuovere finché avrò vita. Le mie fatiche, umanamente spese, fino a oggi non sono andate tutte perdute

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giovanni ghiselli

sabato 28 dicembre 2019

Saffo. Parte 2. La cosa più bella

Guido Reni, Ratto di Elena (particolare

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Passiamo all'ode più ideologica della produzione di Saffo, quella, non completa chiamata "La cosa più bella" (fr. 27D.):

"alcuni una schiera di cavalieri, altri di fanti,
altri di navi dicono che sulla terra nera
sia la cosa più bella, io quello
che uno ama.

Ed è facile assai rendere questo
comprensibile a ognuno: infatti quella che di gran lunga superava
nella bellezza gli esseri umani, Elena, dopo avere lasciato il marito, 
che pure era il più valoroso di tutti,

andò a Troia navigando
e non si ricordò per niente della figlia
né dei suoi genitori, ma Cipride la
trascinò, in preda all'amore.

...
...

Anche a me ora ha fatto ricordare
di Anattoria assente.

Di lei ora vorrei vedere l'amabile
passo e il fulgido scintillio del volto
piuttosto che i carri dei Lidi e i fanti
che combattono nell'armatura".
Strofe saffiche

Fromm in Marx e Freud (1962) afferma che l’intelligenza è espressione di indipendenza, coraggio, vitalità, mentre la stupidità è sottomissione. Per l’intelligente vivere è un’avventura, non è solo evitare il dolore. Gli intelligenti sono indipendenti intraprendenti, innamorati della vita. Si progredisce soltanto sviluppando la propria razionalità e la propria capacità affettiva (p. 176).

Saffo afferma il proprio gusto di persona e di donna: al mondo maschile della guerra, quando la Lidia era la grande potenza militare dell'epoca, ella contrappone quello femminile dell'amore, e non dell'amore matrimoniale, bensì dell'Eros come rapimento dei sensi e dell'anima travolti da Afrodite.
Comincia di qui la palinodia su Elena (la quale nell'Odissea , IV, 145, tornata a essere buona moglie, brava regina di sparta e avveduta padrona di casa, pentita dei propri trascorsi, chiama se stessa kunw'pi~, "faccia di cagna").
Una rivalutazione questa di Saffo che non ha bisogno, come quelle operate da Stesicoro e da Euripide di affermare che la bella donna in realtà rimase fedele a Menelao, siccome a Troia andò solo un fantasma, né adduce il motivo patriottico, come farà Isocrate (Elena , 67) sostenendo che la splendidissima fu la causa dell'unità del mondo greco contro la barbarie asiatica in una guerra che prefigurò quella preparata da Filippo di Macedonia, né deve accumulare una disordinata caterva di giustificazioni come Gorgia, il maestro di Isocrate, nell'Encomio di Elena :" ella in ogni caso sfugge all'accusa poiché fu presa da amore, fu persuasa dalla parola, fu rapita con la violenza, e fu costretta da necessità divina"(20).
 Saffo è semplice e diretta: la poetessa approva la scelta amorosa della donna che ha seguito il richiamo della cosa più bella, senza tenere conto di convenzioni sociali, convenienze economiche o pastoie di qualsiasi genere.

Questa prima affermazione di indipendenza della donna risuonerà nelle parole dei drammi greci, e procederà a mano a mano fino ad arrivare alla Nora di Ibsen (1879):"io devo, anzitutto, pensare ad educare me stessa. Ma tu non sapresti aiutarmi..per questo ti lascio." E quando il marito le obietta:"prima di ogni altra cosa, tu sei sposa e madre", ella risponde:"Non credo più a questi miti. Credo di essere anzitutto un essere umano, come lo sei tu..So che la maggioranza degli uomini ti darà ragione, e che anche nei libri dev'esserci scritto che hai ragione. Ma io non posso più ascoltare gli uomini, né badare a quello ch'è stampato nei libri. Ho bisogno di idee mie e di vederci chiaro" (Una casa di bambola , atto terzo).

“Come si vede, si tratta di una riabilitazione di Elena basata su una vera e propria rivoluzione di valori etici e però ben maggiore della riabilitazione razionalistica operata da Stesicoro, che nasce semplicemente da una variante narrativa”[1].

La conclusione di Saffo del resto anticipa quanto scriverà Virgilio nella decima bucolica:"omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori "(v. 69), l'amore vince tutto, cediamo all'amore anche noi.
 Entrambe le odi di Saffo qui presentate hanno una "struttura ad anello" in quanto gli ultimi versi tornano sul tema dei primi, secondo quel movimento circolare che gli antichi notavano nell'eterno volgersi delle stagioni e nell'intera natura.
Riporto, per contrasto anche alcune condanne dell’adulterio, in particolare di quello femminile
Scegliete voi. Io ho frequentato adultere e non ne sono pentito siccome considero il matrimonio una istituzione innaturale, almeno per me e per quanti praticano l’adulterio

Riporto anche alcune condanne dell'adulterio.
Teocrito nell' Encomio di Tolomeo (XVII) fa l'elogio del padre e della madre del Filadelfo ossia di Tolomeo I Soter e Berenice che si piacevano e amavano reciprocamente: mai nessuna donna piacque al marito quanto Tolomeo amò la sua sposa. Ebbene lei lo contraccambiò e questa è la condizione per la quale un uomo può affidare la casa ai figli:"oJppovte ken filevwn baivnh/ levco" ej" fileouvsh"". (XVII, 42), quando innamorato entri nel letto di lei innamorata.
Le nozze, seppure endogamiche, dei loro figli Tolomeo II Filadelfo e Arsinoe sono altrettanto santeanzi il loro iJero;" gavmo" (XVII, 130) matrimonio sacro è assimilato alla ierogamia di Era e Zeus, fratello e sorella anche loro .
 Altrimenti c'è la rovina del gevno" : l'animo di una donna che non ama è rivolto sempre a uno di fuori, i parti sono facili e i figli non assomigliano al padre (vv. 43 - 44). La moglie fedele dunque è necessaria per garantire la trasmissione del patrimonio accumulato a figli "di paternità indiscussa".
Secondo F. Engels (1820 - 1895) è questa la ragione più vera della famiglia monogamica e della sottomissione della donna:"la monogamia nasce dalla concentrazione di più ricchezze in una mano sola, precisamente quella di un uomo, e dal bisogno di trasmettere in eredità tali ricchezze ai figli di quest'uomo e a nessun altro"[2].
Ma torniamo alla fedeltà delle spose dei primi Tolomei. 
Catullo nel carme 66 traduce la Chioma di Berenice di Callimaco e aggiunge cinque distici ( 79 - 88) che contengono un biasimo dell'adulterio. La storia d'amore è nota. La regina aveva promesso di offrire la propria capigliatura al tempio di Arsinoe Zefirite se suo marito Tolomeo III Evergete (246 - 221) fosse tornato sano e salvo dalla spedizione contro Seleuco II re di Siria (246 a. C.). Sciolto il voto, la treccia sparì e l'astronomo Conone affermò di averla scoperta in cielo in una costellazione dove gli dèi l'avevano assunta.
 Callimaco per assecondare questo elogio cortigianesco raccontò l'episodio in distici elegiaci e lo inserì negli Aitia . "Questo poeta rese omaggio anche in altre occasioni alle donne della famiglia reale, e quando l'astronomo di corte Conone riscoprì in cielo, trasformata in costellazione, la ciocca di capelli che la moglie dell'Evergete aveva deposto in un tempio come offerta votiva per il felice ritorno del marito, il poeta, ormai vecchio, dedicò alla giovane regina un galante carme augurale, la Chioma di Berenice, che dovette indubbiamente esser letto con la stessa sorridente intelligenza con cui era stato composto. Da allora, nel regno tolemaico, le donne ebbero sempre una posizione di rilievo nella politica, fino alla diabolica Cleopatra, che seppe incantare con i suoi vezzi un Cesare e arrivò a sognare di stabilirsi, signora del mondo, sul Campidoglio a fianco di Antonio"[3].
 Dunque Berenice maior era la moglie di Tolomeo I Sotèr; Arsinoe di Tolomeo II Filadelfo; Berenice minor di Tolomeo III Evergete.




[1] E. Rossi, R. Nicolai, Letteratura greca, 1 L’età arcaica, p. 361.
[2] F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) , p.86 e p. 100.
[3] M. Pohlenz, L'uomo greco, p. 735.

Saffo. Parte 1. Traduzione e commento dell’Ode 1 D


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"Immortale Afrodite dal trono variopinto,
figlia di Zeus tessitrice di inganni (dolovploke), ti prego
non domarmi il cuore con affanni
né angosce, o signora,

ma vieni qua, se mai anche l'altra volta
udendo la mia voce da lontano
mi desti ascolto, e, lasciata la casa d'oro dovmon livpoisa cruvsion
del padre, giungesti

aggiogato il carro; passeri belli
 ti portavano veloci sopra la nera terra
fitte roteando le ali dal cielo
nel mezzo dell'aria.

Subito giunsero, e tu, o beata,
sorridendo nel volto immortale
chiedesti che cosa soffrissi di nuovo e perché
di nuovo chiamassi

e che cosa più di tutto volevo che mi toccasse
nel folle cuore: "chi debbo ancora persuadere per te,
in modo da condurlo di nuovo al tuo amore? chi ti fa
torto o Saffo?

E infatti se fugge, presto inseguirà
(kai; ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei),
se non accetta doni, anzi li farà,
e se non ama, presto amerà
anche se non vuole.

Vieni da me anche ora (e[lqe moi kai; nu'n), liberami dai tormentosi
 affanni, e quanto il mio cuore
desidera compiere, compilo, e tu stessa
sii alleata".
Strofe saffiche

Commentiamo il v. 21: kai; ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei
Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor . (Ovidio, Amores, 2, 20, 36)

 E' questo il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue. Tale locus ha un' ampia presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue.
 Nell'XI idillio lo stesso Ciclope dà a se stresso il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
 Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è, come Callimaco, un rappresentante di una poesia cosiddetta postfilosofica:"Post - filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si rivolgono con amore al particolare"[1]. Lo stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia al particolare"[2] (p. 141). La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale. Post - filosofica o almeno postilluministica sarebbe anche quella di Goethe: "Callimaco e Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica; al tramonto di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica, interiormente commossa"[3]

 "Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12, 102) liberamente tradotto per l'occasione in versi latini, è in Orazio il ritornello caro a questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa anche l'amante che oltrepassa a volo ciò che è alla portata di tutti e cerca di prendere quello che fugge: "Meus est amor huic similis: nam/transvŏlat in medio posita et fugientia captat " (Sermones , 1, 2, 107s.).
Ed è proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce ad Ovidio (in un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36) "[4], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
 E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse, della non praticabilità dell'amore.

Sentiamo qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente (8, 11) a questa legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia:"nec quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10), non dare la caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato.

Nell' Hercules Oetaeus attribuito a Seneca la nutrice di Deianira per consolare la sua alumna le dice che Iole ridotta oramai a schiava è una preda oramai troppo facile per Ercole e, quindi, non più ambita:"illicita amantur; excidit quidquid licet" (v. 357), sono amate le cose non consentite, tutto quello che è concesso decade. 

Nella Gerusalemme liberata leggiamo:"Ma perché istinto è de l'umane genti/che ciò che più si vieta uom più desìa,/dispongon molti ad onta di fortuna/seguir la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76). Si tratta di Armida la maga seguita dai cavalieri cristiani

William ShakespeareThe merry wives of Windsor (del 1602)
 Love like a shadow flies when sunstance love pursues;
Pursuing that that flies, and flying what pursues (II, 2)
L'amore come un'ombra fugge l'amore reale che insegue, inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi insegue.

Nella commedia La locandiera (del 1753) Goldoni fa dire alla protagonista, Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).

L'analogia con il cacciatore può essere estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono le ottave dell'Orlando furioso:"La verginella è simile alla rosa,/ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa,/né gregge né pastor se le avicina;/l'aura soave e l'alba rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:/gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie ornate.//Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42 - 43).

Troviamo un’occorrenza di questo topos in El burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina: “regola dell’amore/è amare chi ci odia, /sprezzare chi ci adora,/perché, se è pago, muore,/e vive se è ferito” (I, 10).

Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina:"Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e distrutto"[5]

Una situazione analoga troviamo ne Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista dichiara il suo amore a Polina in questi termini:"Lei sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[6].

Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca, conclusa negli ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi essere amato - anzi, in una certa misura, qualsiasi essere - è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[7].

Gozzano, su questa linea, sospira con ironia:" Il mio sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non colsi"[8].

Sentiamo infine C. Pavese:"Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"[9].

Questa ode chiamata Preghiera ad Afrodite , ha la struttura di un inno cletico (di invocazione). Essa consta di tre movimenti: il primo è la vera e propria chiamata della divinità con i suoi epiteti; il secondo contiene il ricordo dei meriti di chi prega o manifesta la memoria grata di un precedente aiuto ricevuto; il terzo esprime la richiesta di un nuovo intervento.
Il rapporto con la dea non è di sottomissione o umiliazione, bensì di amicizia e gratitudine. Viene in mente questa considerazione di Nietzsche:"Ciò che fa stupire nella religiosità degli antichi Greci è la copiosa abbondanza del senso di riconoscenza che emana da essa: - un tipo di uomo veramente nobile è colui che sta innanzi alla natura ed alla vita in questo atteggiamento! - In seguito, quando in Grecia la plebe ebbe il sopravvento, anche nella religione incominciò a farsi strada il timore; stava preparandosi il cristianesimo"[10].

In effetti nell'Edipo re di Sofocle troviamo un'analoga espressione di gratitudine quando il coro in preghiera invoca gli dèi affinché allontanino da Tebe il male della peste e ricorda:"se mai anche per una precedente sciagura/che si levava sulla città/metteste fuori luogo la fiamma della pena/venite anche ora “ e[lqete kai; nu'n"(vv.164 - 167) (cfr. e[lqe moi kai; nu'n, v. 25 dell’ode di Saffo.),

A conferma di questo possiamo citare un pensiero di Marco Aurelio:"getta via la tua sete di libri, perché tu possa morire non balbettando ma davvero lieto e grato agli dèi dal profondo del cuore"(
 i{lew" ajlhqw'" kai; ajpo; kardiva" eujcavristo" toi'" qeoi'" Ricordi, II, 3).

L'ode di Saffo contiene un'altra idea tipica della cultura classica, quella del ciclico avvicendarsi degli eventi
Si trova già nel fr.67 a D di Archiloco:

"Animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio
sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo
il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e quando vinci, non gloriartene davanti a tutti,
 e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa.
 Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini.”
mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~ ajnqrwvpou~ e[cei
tetrametri trocaici catalettici

 Questi versi contengono alcune norme basilari della civiltà classica e della cultura europea. Hanno qualche precedente in Omero e un seguito infinito, tanto che sembrano riecheggiare dal fondo dei secoli all'anima del lettore anche non esperto di greco. L'idea del tollerare con forza le avversità, si trova nell'Odissea , quando Ulisse, davanti allo scempio che vede in casa sua, invita il proprio cuore a sopportare i mali con il ricordo di mali ancora peggiori già superati:
"sopporta, o cuore un altro dolore più cane sopportasti una volta/ (tevtlaqi dhv kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh")
quel giorno quando, irrefrenabile possa, mi mangiava il Ciclope/
i gagliardi compagni: e tu resistevi, finché l'ingegno (mh`ti~)
ti tirò fuori dall'antro dove credevi che saresti morto"(XX, 18 - 21).
Enea dice ai suoi uomini scampati alla tempesta scatenata dai venti sul mare dove navigavano:
O socii (neque enim ignari sumus ante malorum
O passi graviora, dabit deus his quoque finem.
Vos et scylleam rabiem penitusque sonantis
Accestis scopulos, vos et cyclopea saxa
Experti: revocate animos maestumque timorem
Mittite: forsan et haec olim meminisse iuvabit
(…)
Durate et vosmet rebus servate secundis
 (Eneide, I, 198 - 203 e 207)
O sventurati compagni (né infatti siamo inesperti di mali)
O voi che ne avete provati più gravi, un dio darà una fine anche a questi
Voi avete affrontato la rabbia di Scilla e gli scogli
Profondamente urlanti, voi avete provato anche le rupi
Del Ciclope: richiamate il coraggio e mandate via l’angoscioso
Timore: forse un giorno vi piacerà ricordare anche questo
(…)
Tenete duro e salvatevi per la buona fortuna.
Cfr. anche Ovidio dove troviamo il tw'/ pavqei mavqo": “Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim/saepe tulit lassis sucus amarus opem” (Amores, III, 11, 7 - 8), sopporta e tieni duro, questo dolore un giorno ti gioverà, spesso un succo amaro ha portato aiuto agli spossati.
Un motivo che può sollevarci l'animo nelle disgrazie è il ricordo di un precedente successo.

Giuliano Cesare quando si prepara ad attaccare dice ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21, 5, 6).



Negli Annali di Tacito si trova la pur dubbiosa constatazione del girare delle fortune, corrispondente a quello delle stagioni :"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur" ( III,55), a meno che, come è probabile, in tutte le cose non ci sia una specie di ciclo, in maniera che come le stagioni così cambiano periodicamente i costumi.

Questa coscienza dell'avvicendamento crea un distacco tra la persona e il dolore considerato, al pari della gioia e dell'amore, una parte necessaria della ruota sulla quale gira la vita.

Per quanto riguarda il rapporto con la divinità, questa non solo è invocata da Saffo con una confidenza che permette di parlare liberamente, ma è descritta con una ricchezza di particolari che deriva da Omero e che non è dato trovare nella Bibbia..

A questo proposito è interessante La cicatrice di Ulisse, il primo capitolo di Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale di Erich Auerbach. L'autore nota che Omero descrive tutto con esattezza per la "necessità ..di non lasciare nell'ombra o non finito nulla di quello che è stato accennato"(p.6), e questo avviene tanto quando racconta come Ulisse si fece la cicatrice che svela la sua identità a Euriclea (Odissea , XIX, 390 sgg.), tanto quando descrive la visita di Ermes a Calipso (Odissea , V) dove del dio in partenza dice persino che"sotto i piedi legò i sandali belli/immortali d'oro - pevdila, - ajmbrovsia cruvseia - , che lo portavano sia sul mare/sia sulla terra infinita insieme con i soffi del vento"(vv.44 - 46). Una descrizione evidentemente ricordata da Saffo. Auerbach procede con un confronto cui accenniamo perché ci sembra interessante: l'Antico Testamento, particolarmente nell'episodio del sacrificio di Isacco (Genesi , 22), invece fa sentire la voce di un dio che "inopinato ed enigmatico (…) arriva sulla scena da altezze o profondità sconosciute e grida: - Abramo!"(p.9). 

Sia in Omero (Odissea, V, 45) sia in Saffo (v. 8), abbiamo trovato la presenza dell'oro. Questo naturalmente non ha alcun valore economico, ma costituisce un aspetto della bellezza e della grazia, o quasi un riflesso del fulgore divino, come leggiamo nella Parodo dell’ Edipo re (vv.151 - 153a):
"O voce dolciloquente di Zeus
 quale mai da Pito ricca d'oro - ta'" polucruvsou - Puqw'no" -
 sei venuta alla splendida Tebe?".

 Anche Pindaro, nella Prima Olimpica ,(vv.2 - 4) mette in luce il valore estetico e spirituale, più che economico, anzi quasi antieconomico dell'oro - crusov" - che" ardendo come
fuoco brilla nella notte al di sopra di ogni superba ricchezza - diapevpei nukti; megavnoro" e[xoca plouvtou.

Anche il Cristo di Matteo splendidamente reso in immagini filmiche da Pasolini[11] mette in rilievo la sacralità che l'oro riceve dall'altare quando censura gli Scribi e i Farisei ipocriti:" Stulti et caeci! Quid enim maius est: aurum an templum, quod santificat aurum?" (23, 17), stolti e ciechi, che cosa è più grande: l'oro o il tempio che santifica l'oro? E ancora:" Caeci! Quid enim maius est: donum an altare, quod santificat donum? (23, 19), ciechi! Che cosa infatti è più grande: l'offerta o l'altare che santifica l'offerta?

Bologna 28 dicembre 2019 giovanni ghiselli




[1] Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 372.
[2] Aristotele, Poetica , 1451b.
[3]Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 371.
[4]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore , p. 43.
[5] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 366.
[6] F. Dostoevskij, Il giocatore, p. 42.
[7] M. Proust, La prigioniera, p. 183.
[8] Cocotte, vv. 67 - 69.
[9] Il mestiere di vivere, 30 settembre 1937.
[10]Di là dal bene e dal male , l’essenza religiosa, 49
[11] Il vangelo secondo Matteo, 1964.

Euripide Ippolito VIII. Afrodite è la potenza massima, ineluttabile

    Versi. 267-283 Dialogo con sticomitia- un verso a testa- tra la corifea   e la nutrice trimetri giambici. La corifea si rivolge ...