lunedì 27 ottobre 2014

Twitter, LXVI antologia

Bologna 27 ottobre

Le varie Boschi giubilando roche protendeno il collo al vespero autunnale. Le giovani giulive aspettano il prossimo Natale e non prevedono il coltello dello scalco né le armi corruscanti della cuoca.

Renzi calza gli stivali delle 7 leghe ma rimane fermo, oppure li usa in una corsa retrograda

die Eule der Minerva, la civetta di Atena, spicca il suo volo al crepuscolo. Le civette di Renzi-Berlusconi invece al tramonto corrono alle televisioni per farsi truccare e dire bugie sceme.

Renzi è il funzionario delle banche e pure il giullare della Merkel, alla faccia dei brodtlose Arbeiter i lavoratori poveri o disoccupati che non ridono

Francesco (il santo e il papa) ci spinge a cercare una verità incorporea. Ma i corpacciuti berlusconiani e i corporei renziani pur admoniti quaerere incorpoream veritatem (cfr. Agostino, Confessiones, VII, 20), non vogliono saperne.

Il posto fisso è un diritto inalienabile di chi lavora bene. Farne una negazione ontologica è un errore politico e un crimine morale. Va punito.

Non ho il telefonino, uso le cabine telefoniche, mi muovo in bicicletta dentro Bologna ma anche fino a Troia (id est Ilio), corro a piedi, studio latino dal 1956, greco dal 1958, mi piacciono molto le donne, non ho fumato mai nemmeno una sigaretta, tengo conferenze e scrivo gratis su un blog che ha avuto188565 contatti in 620 giorni. Di tutto questo sono fiero


giovanni ghiselli

giovedì 23 ottobre 2014

Twitter, LXV antologia

23 ottobre

Le discoteche sono fogne pestifere da non frequentare nemmeno con la diarrea.

Oggi a Bologna c'è l'incensamento acritico  del film di Martone. Chi non è d'accordo, guardi il mio blog con la recensione davvero critica

L'incensamento acritico non è mai cosa buona. Il giovane favoloso poi è un film mediocre, privo di profondità, con alcune scene di pessimo gusto, e va criticato con un giudizio (krisis) acuto e tagliente. Chi lo incensa è prezzolato oppure è stupido.

Natura versa est; nulla lex utero manet (Seneca, Oedipus, 371) i genitali sono rovesciati, l'utero è anomalo. Venite a sentirmi domani 24 ottobre a Pesaro nella libreria il Catalogo.
Direte che sono un idiota o un genio; comunque non vi lascerò indifferenti perché non seguo i luoghi comuni.

Maturità è essere assennati con coraggio e coraggiosi con senno  (Aristotele, Retorica 1390 b) Cfr. i vili deputati dissennati,
 Venite a sentirmi il 30 ottobre nella biblioteca Scandellara di Bologna

La vecchiaia sarebbe argumentum stultitiae. Prova di stupidità. E’ giunta l’ora di rottamare i giovani imbecilli

Il governo di Renzi che mischia e confonde la sinistra con la destra, le ragazzotte con le ministre, i forosetti belli e brutti con i saggi, è  come la confusa domus di Oedipus  dove si mescolano, in una grande confusione,  la madre con la moglie, le figlie con le sorelle, il figlio con il marito, lo zio con il cognato.

giovanni ghiselli

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lunedì 20 ottobre 2014

Twitter, LXIV antologia

20 ottobre

Certi fiumi rovinosi, come fa la Fortuna di Machiavelli, dimostrano la loro potenza dove non sono stati ordinati e preparati argini a resisterle

Il patto di stabilità invero destabilizza siccome è scritto in bloody lines[1], in righe di sangue, sangue cavato ai poveracci.

Tutta la natura è imparentata con se stessa: il suolo sconciato, i fiumi inquinati, l'atmosfera avvelenata si rivoltano tutti insieme. Fecimus caelum nocens, come dice l’Oedipus di Seneca, incestuoso e parricida (v. 36). Abbiamo reso dannoso il cielo

La  Brambilla ha detto che i cani vanno protetti dai barboni e da altri individui miserabili e privi di scrupoli. Costei per contrappasso finirà all'inferno mendica e accerchiata  dai cani.

Ancora sulla Brambilla e i suoi simili: gente spietata, ignorante, portatrice di male,  di deformità, di odiosissima peste morale, persone presunte che inquinano e mortificano questo nostro  paese.

giovanni ghiselli

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venerdì prossimo, 24 ottobre alle 18, 30, terrò una conferenza nella libreria Il catalogo di Pesaro su Edipo re di Sofocle e Oedipus di Seneca
Il 30 ottobre terrò una conferenza nella biblioteca Scandellara di Bologna. Presenterò il libro Generazioni di Remo Bodei




[1] Cfr, il Tito Andronico di Shakespeare (V, II) e i suoi macelli ultr senecani

venerdì 17 ottobre 2014

Il film di Martone su Leopardi

Il film di Martone, Il giovane favoloso  è deludente: non aggiunge sapere né sentimenti a chi ha fatto una lettura anche solo scolastica del poeta di Recanati.

 Non è un gran film e nemmeno un filmaccio: è piuttosto un filmetto ordinario con qualche parte discreta, alcune accettabili, altre peggio che scadenti. Discreta, quasi buona, è l’ambientazione nello studio del palazzo Leopardi di Recanati, mentre gli esterni recanatesi o pseudo recanatesi sono insignificanti se non proprio brutti.
Il paesaggio risulta piuttosto nebbioso e confuso: non una volta che appaia chiaro il fiume[1]  nella valle sotto il colle di Recanati.
Non si vedono mai “quinci il mare da lungi e quindi il monte”[2]
Il paese marchigiano non ha neanche un centesimo della parte ricevuta  dal suo figliolo pur critico e ribelle nei confronti del “natio borgo selvaggio”[3].  
La luna inquadrata spesso, non pende  su selva[4] recanatese,  né scende “sovra campagne inargentate ed acque”[5], né “di lontan rivela/ serena ogni montagna”[6]. Insomma la “graziosa luna”[7] il cui volto appariva al poeta “nebuloso e tremulo dal pianto”[8] che gli sorgeva sul ciglio, la “solinga, eterna peregrina”[9]  rimane un  satellite del tutto  privo di significati nel film.
Addirittura ridicola  è la scena in cui Germano, pur bravo in altri momenti, sussurra L’infinito. Non si capisce perché Leopardi avrebbe dovuto recitare una propria poesia, con tanto di mosse, sguardi e pose attoriali, in un prato fosco e umido di nebbia. Altra scena ridicola, con l’aggravante che vorrebbe essere  patetica, è quella di Silvia, una ragazzotta grassottella, la quale  tossisce alla finestra prospiciente quella del poeta che la osserva accorato. Leopardi vede uno snello tesorino delicato e prossimo alla morte per tosse[10] in una forosetta paffuta. La ragazza scelta da Martone non poteva essere meno adatta al ruolo dalla fanciulla divenuta la più famosa adolescente della letteratura italiana.
Gli esterni in generale sono malfatti. Una sequenza grottesca, da Satyricon ottocentesco, è quella dell’orrendo bordello napoletano dove  Ranieri, del resto premuroso, porta l’amico per farlo sverginare, e poco ci manca che il disgraziato perda la sua castità anale per opera di un maschio travestito da prostituta. Il poveretto  deve fuggire, per giunta sbeffeggiato e minacciato da una canèa di lazzaroni maligni che gli latrano contro insulti osceni.
 Un’altra parte pessima è l’amore fiorentino del Recanatese per  Fanny Targioni Tozzetti rappresentata da un’attrice dall’aspetto tutt’altro che identificabile con l’angelica forma[11] che ha fatto innamorare il Nostro .
Nelle intenzioni del regista questa Aspasia, invero del tutto improbabile,   viene rappresentata quando la “dotta allettatrice” scocca “fervidi sonanti baci nelle curve labbra dei suoi bambini”[12] per sedurre il poeta il quale prima ne soffre assai, poi ci ripensa  e rinnega  il proprio sentimento frustrato. Leopardi-Germano, per significare questa conversione dall’amore dolente al disprezzo irridente, quando si accorge che Fanny se la intende con Ranieri, si rannicchia annientato su una riva dell’Arno, come il bambino reietto dalla madre e abbandonato alla corrente del fiume, poi però in una scena successiva il salvato dalle acque, recita gli ultimi versi della sua  apostasia erotica  con un sorriso amaro: “su l’erba/qui neghittoso immobile giacendo,/il mar la terra e il ciel miro e sorrido”[13].
Abbastanza buona è comunque, tutto sommato la recitazione di Elio Germano. In particolare quando inveisce contro una Natura rappresentata d’altra parte, in una scena di cattivo gusto e del tutto inappropriata[14],  come un colosso di argilla che, ritto sui piedi, si sgretola nelle braccia e ha gli occhi della madre del poeta, la fredda, arcigna, bigotta Adelaide Antici. Giacomo dunque le rinfaccia con alte grida il fatto di essere “nemica scoperta degli uomini”[15].  
Ma il film ribadisco, non accresce conoscenza né commozione a una lettura anche  dilettantesca di Leopardi.
Vediamo qualche aspetto della trama. Il poeta tenta di scappare dal palazzo paterno, senza riuscirci, in seguito ottiene il permesso di partire, e va a Firenze, a Roma dagli zii Antici, e in altri luoghi non chiaramente riconoscibili,  cita alcune frasi delle Operette morali[16], si trova in contrasto ideologico con i vari credenti in Dio e nel progresso, quelli delle “magnifiche sorti e progressive”[17], si aggira per una Napoli afflitta dal colera mangiando come un lupo[18], finisce in un’osteria ridendo e scherzando con dei popolani compagnoni, viene portato in un bordello da basso impero, in tante sequenze  collegate male tra loro. Molti argomenti senza approfondimento e una serie disordinata di situazioni. Alla fine c’è un’eruzione   del Vesuvio che sa di finto, e Germano che la osserva e, interpretando il poeta malato a morte , recita comunque piuttosto bene alcuni versi di La ginestra .
Carine e brave, se vogliamo salvare qualche cosa oltre gli interni recanatesi e certe espressioni del buon Germano, sono le due Paoline, la sorella del poeta e la sorella o “suora di carità”[19] di Ranieri.
Insomma il film può essere visto per curiosità o per una prima, generica informazione su Leopardi, ma la vita del “pover’uomo” come lo chiama Fanny nel film e nel ricordo di Ranieri che ebbe maggior successo dell’amico con la donna e nel resto, è trattata senza profondità, e a tratti anche con cattivo gusto. Mi dispiace. Mi aspettavo molto, come lettore amantissimo del Leopardi e anche come marchigiano[20]. Pare che la regione abbia messo parecchi soldi nel film. A proposito di tagli agli sprechi. Sarebbe stato più produttivo da ogni punto di vista impiegare quel denaro nella organizzazione di una serie di conferenze su Leopardi. Ci sono tante persone, giovani e non giovani, desiderose, anzi affamate di cultura.  

giovanni ghiselli  
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[1] Cfr. La quiete dopo la tempesta, 7.
[2] Cfr A Silvia, 25
[3] Le ricordanze, 30.
[4] Cfr. Alla luna, 4
[5]Cfr. Il tramonto della luna, v. 2
[6]  La sera del dì di festa, 3-4
[7] Alla luna, 1.
[8] Alla luna, 6
[9] Canto notturno  di un pastore errante dell’Asia, 61
[10] L’innamorato beffeggiato da Lucrezio stravede in modo opposto "Ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit/prae macie; rhadine verost iam mortua tussi ", De rerum natura, IV, 1166-1167), diventa uno snello tesorino, quando non può vivere per la magrezza; poi è delicata quella che crepa dalla tosse
[11] Aspasia, 18.
[12] Cfr. Aspasia, vv. 19 ss.
[13] Aspasia, vv. 110-112
[14] Nel Dialogo della natura e di un islandese è “una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi”
[15] Dialogo della natura e di un islandese
[16] Per esempio dal Dialogo di Tristano e di un amico dove Tristano-Leopardi definisce quest’opera: “ “un libro di sogni poetici, d’invenzioni e capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore”
Nello Zibaldone (1394) invece aveva  scritto a proposito sempre delle Operette morali:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando”
Nel film C’è un accenno anche all’Elogio degli uccelli.
[17] Verso citato in La ginestra (51) dal cugino pescarese Terenzio Mamiani che aveva premesso queste parole nella Dedica dei suoi Inni sacri (1832). Martone fa vedere Tommaseo che in una serata  promossa da Viesseux a Firenze infama Leopardi il quale a sua volta, racconta Ranieri “mi dettò spiattellatamene che Vincenzo Monti usava d’esclamare, in un significato singolarissimo: mi dolgono i Tommasei” (Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, XXVII)
[18] “Le cose dolci, ed assolutamente, i gelati. Bramosissimo delle une e degli altri, egli, lasciata dall’un dei lati ogni apprensione, perseverava i più incredibili eccessi: il caffè, sciroppo di caffè; la limonea, sciroppo di limonr; il cioccolate, sciroppo di cioccolate (e non senza le vaniglie, rigorosamente vietategli); e così via” (Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, cap. XXV.
[19] Vedi il capitolo XV di Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, un libello di Antonio Ranieri a tratti encomiastico, a tratti invece diffamatorio nei confronti del poeta
[20] Non mi trattengo dal vantarmi, forse con cattivo gusto anche io, di una mia parentela, pur solo acquisita con Leopardi: la sorella della mia bisnonna materna, Tommasa Carancini, ha sposato Rodolfo Antici, nipote di Adelaide. Quest’estate sono andato in bicicletta da Pesaro a Recanati per rivedere i luoghi che ho conosciuto e bazzicato fin da bambino. Ho rivisto il palazzo Leopardi, ovviamente, il palazzo Antici, il palazzo Carancini tutti dentro il paese, e a tre chilometri da Recanati, verso Loreto, il “Palazzo bello” che era la residenza estiva dei Carancini ed è nominato nella prima pagina dello Zibaldone del nostro poeta.

giovedì 16 ottobre 2014

La tematica del potere in letteratura

Il cristiano Alessandro Manzoni vede nel potere un nucleo di male che può essere annullato solo se  l’uomo che ha potere lo impiega  in favore e al servizio dei suoi concittadini, capovolgendosi di fatto da padrone a servitore.

 Nella tragedia Adelchi il protagonista eponimo ferito a morte  dice al padre Desiderio, il re dei Longobardi sconfitto dai Franchi di Carlo Magno:"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto (V, 8)  ..".
La sventura del re e del principe dunque è la stessa ossimorica “provvida sventura” che ha collocato la loro figlia e sorella Ermengarda “in fra gli oppressi” cioè tra le “orbate spose dal brando” e le “vergini indarno fidanzate”, le “madri che i nati videro/trafitti impallidir” (Adelchi, II Coro)
Perdere il potere dunque è un fatto positivo poiché il potere è un’occasione per esercitare la prepotenza.
A questo proposito, Platone   chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou""(525e), puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" ( Repubblica, 526a) quelli malvagi assai.
 
A meno che, dicevo, il potere non sia un servizio.
Sentiamo come lo dice Manzoni in I Promessi sposi presentando il Cardinale Federigo Borromeo :" egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; ché poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché  non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa  " (cap. XXII).
 Edipo nella più famosa tragedia di Sofocle lamenta gli intrighi che circondano il potere “O ricchezza e potere e arte[1] che prevale/ sull'arte[2] nella vita piena di competizione/quanta invidia si serba accanto a voi,/ se per questo regno che, regalato,/non richiesto, la città mise nelle mani mie/ da questo, Creonte, il fedele, l'amico della prima ora/fattomisi sotto di nascosto, desidera cacciarmi/dopo avere subornato un tale astrologo [3], tessitore di frodi/ imbroglione, accattone, che nei lucri/ soltanto ha imparato a vedere, ma quanto all'arte è cieco di natura.   (Edipo re, vv. 380-389).
 
Il potere viene smontato anche dallo Ione  di Euripide, dove il protagonista   sostiene la superiorità della vita ritirata su quella oberata dalle cariche :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore  (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;"-zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621-628).
Anche una grande quanità di denaro non interessa a Ione  che non vuole stare a sentire rumori( yovfou~ kluvein, 630) né avere pene cercando di salvare la ricchezza: preferisce un benessere moderato senza dolore (ei[h
g  jj  ejmoiv (me;n)  mevtria mh; lupoumevnw/ 632).
  
 Giocasta nelle Fenicie di Euripide  si oppone al figlio Eteocle il quale “incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[4].
 La madre obietta:"tiv d  j e[sti to; plevon; o[nom  j e[cei monon:/ejpei; tav g  j ajrkounq  j  iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
 Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi i quali quando vogliono, a  turno[5], ce le portano via di nuovo. Infatti i mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo (vv. 555-556).
  
Pure Isocrate maledice ricchezza e potere: cfr. Areopagitico[6], 4 :" ajlla; suntevtaktai kai; sunakolouqei' toi'" me;n plou'toi" kai; dunasteivai" a[noia kai; meta; tauvth" ajkolasiva", ma alla ricchezza e al potere è coordinata e segue la pazzia e con questa la licenza.
 
Del resto, e torniamo alle Fenicie di Euripide  Giocasta propugna l'uguaglianza più in generale:"kei'no kavllion, tevknon,-ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536),  quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t  j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[7], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d  j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd  j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

Nelle Fenicie di Seneca,  Giocasta aggrava la negatività del potere dicendo a Polinice  che Eteocle pagherà a caro prezzo il fio della sua prepotenza  con il fatto di essere re:"poenas, et quidem solvet graves:/ regnabit. Est haec poena. Questo è  il fio da pagare "(v.645-646).
  
 Un altro anatema del "bene fallace" costituito dal potere si trova nell'Oedipus  di Seneca:"Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum,/quantum malorum fronte quam blanda tegis "(vv. 6-7), qualcuno gioisce del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto un'apparenza così lusinghiera!.
  
L’uomo di è assediato dalla paura: il metus del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, in quanto il despota  fa paura e  ne ha. Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus  di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era una donna furente che alla fine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.  
Con il potere che si raggiunge attraverso l'ambitio è più indulgente Sallustio:"quod tamen vitium propius virtutem erat ", l’ambizione (rispetto alla avarizia, l’avidità di denaro) era un vizio  tuttavia  più vicino alla virtù ( De coniuratione Catilinae, 11).
 
Abbiamo visto nel Manzoni che il potere è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi.
Vediamo alcune espressioni simili in altri autori.
   Nelle Epistole a Lucilio  il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto:" Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
Seneca aveva  indirizzato il De clementia a Nerone cercando di convincerlo che il potere deve essere gestito in favore dei sudditi.  Questo aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia[8] cui il regnare apparve un “onorevole servizio”, e[ndoxo" douleiva[9].  
Recentemente anche Don Luigi Ciotti ha detto: "il potere deve essere un servizio, non un privilegio"

Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea  di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà" (p. 299).
 La protagonista dell'Antigone di Brecht si propone come tale tipo paradigmatico in antitesi a Creonte il quale le domanda:"Di' dunque perché sei così ostinata". E la ragazza risponde:"Solo per dare un esempio".
Il potere del resto secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di sé:"Perché chi beve il potere/Beve acqua salsa, non può smettere, e seguita/Per forza a bere".
“Sono rari i sovrani che apprendono la saggezza nella sovranità. Al contrario, l’occupazione del potere suscita un delirio di potenza, e la sete di potere suscita il più delle volte ambizioni smisurate. Così intorno al potere si moltiplicano colpi di stato, assassini, fratricidi, patricidi, così ben descritti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, mentre la follia insita nel potere è stata mirabilmente mostrata da Calderón de la Barca ne La vita è sogno. Minacciati da rivali o da pretendenti, i despoti diventano patologicamente diffidenti di tutto”[10].

Giovanni Ghiselli


[1]Quella di Edipo che ha risolto l’enigma
[2]. Quella millantata dal profeta
[3] Detto con disprezzo di Tiresia.
[4]Lanza, op. cit., p. 53.
[5] Luogo simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam  (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
[6] Del 356.
[7] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.  
[8] 276-239 a. C.
[9] Eliano, Var. hist.  II 20.
[10] E. Morin, L’identità umana, p. 164.

mercoledì 15 ottobre 2014

Ancora su Leopardi

Biblioteca Leopardi
Ancora su Leopardi.
In attesa del fil di Martone che commenterò.


La poetica dell’indefinito
Nello Zibaldone di Leopardi leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» (Zibaldone, 1789).
E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto corale, a più voci, entra in questa poetica del vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (Zibaldone, 2804).

Elogio della la brevità
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).

Il maestro deve sapere comunicare. Per questo è necessario che si metta nei panni di chi lo ascolta o lo legge.
“gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile,non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”1.
E più avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza ec.”2.

Senza uguaglianza non c’è vera libertà
Leopardi nello Zibaldone, commentando l’ Indiké di Arriano (9, 10 sgg.) riflette sull’assenza della schiavitù tra gli Indiani. Il Recanatese sostiene che il sistema delle caste preserva gli Indiani dalla schiavitù: “Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza” (919). Tale libertà però è limitata assai, poiché senza uguaglianza non può esserci piena libertà. Questa divisione in caste elimina le speranze di avanzamento e non presenta “i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. (921)…. una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorché libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore” (922)... “ nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera…così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti che distruggono appoco appoco l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica” (923).

L’originalità si conquista, paradossalmente, moltiplicando i modelli.
Leopardi dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) "3

Gli Italiani reputati all’estero custodi di Musei
Leopardi considera malinconicamente la reputazione che hanno gli Italiani all’estero di essere “tanti custodi di un museo”, quando va bene: “Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii, per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec. (31 Marzo 1827)”4.

La traduzione perfetta.
L’italiano, come il greco, è un aggregato di lingue
“La perfezion della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone, 2134). La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717)

Amiamo il bello con semplicità
Leopardi avverte che la semplicità viene fraintesa dagli imbecilli: “E’ curioso vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze, 31 Maggio 1831)”5.
“La semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama il semplice…La semplicità è bella perché spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perché è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a se stessa, e alla natura”6.

La bellissima negligenza degli autori sommi.
Sulla “negligenza” dei sommi scrittori, da Omero in avanti, Leopardi dà un giudizio positivo: “ Così i poeti antichi non solamente non pensavano al pericolo in cui erano di errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano con quella bellissima negligenza che accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti agli occhi l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al pericolo…non ci arrischiamo di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici…ma da quelle regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi né mai osiamo alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri…insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” (Zibaldone, 9-10).
Ancora: “Non solo, come ho spiegato altrove, si fa male quello che si fa con troppa cura, ma se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente fare, e per giungere a fare bisogna rimettere alquanto della cura e della intenzione di farlo (24 Agosto 1821)” (Zibaldone, 1854).

Condanna dell’affettazione, della posa, dello snobismo che è maleducazione.
“Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” (Zibaldone, 2682).
“L’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)7.

Elogio del dubbio
Leopardi cita Cartesio a proposito della necessità del dubbio: “Le verità contenute nel mio sistema non saranno certo ricevute generalmente, perché gli uomini sono avvezzi a pensare altrimenti, e al contrario, né si trovano molti che seguono il precetto di Cartesio: l’amico della verità debbe una volta in sua vita dubitar di tutto. Precetto fondamentale per li progressi dello spirito umano. Ma se le verità ch’io stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi si avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perché sien vere, quanto per l’assuefazione”8.
Concludo questa parte con Leopardi: “Piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio”9.
Le discussioni di Socrate iniziavano e finivano sempre con delle domande10

giovanni ghiselli

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1 Zibaldone, 1376.
2 Zibaldone, 1473.
3Zibaldone , 2185-2186.
4 Zibaldone, 4267.
5 Zibaldone, p. 4523.
6 Zibaldone, 1411-1412.
7 Zibaldone 705.
8 Zibaldone, 1720.
9 Zibaldone, 1392.

10 “I miei film non mirano ad avere un senso compiuto. Finiscono sempre con una domanda” ( Pasolini, Tutte le Opere, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1319 )

martedì 14 ottobre 2014

Il perdono dell’adultera nel Vangelo e il topos del "to pàthei màthos" in due commedie di Menandro

Busto di Menandro

Il perdono dell’adultera nel Vangelo e il topos del  tw̃/ pavqei mavqoς in due commedie di Menandro


Carisio, il protagonista degli  jEpitrevponte" [1], di Menandro (342-291 a. C.) è un giovane uomo  che ha ripudiato la moglie Panfile per un  presunto errore sessuale di lei. Tornato da un viaggio, ha saputo da un servo che la donna ha partorito un bambino e lo ha abbandonato. Sicché  Carisio lascia la moglie. 
Quando sente che Panfile  gli manca e gli dicono che lui manca a lei,  il marito ironizza sulla propria innocenza di uomo offeso nell’orgoglio:" ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn", io, uno senza peccato, attento alla reputazione (v.588), e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v.594).  Panfila infatti era rimasta incinta in seguito alla violenza sessuale subita durante le Tauripolie. Si viene poi a scoprire che oltretutto  la ragazza era stata ingravidata dallo stesso Carisio, senza che i due si riconoscessero, data la confusione della festa notturna. Un esempio di mavqoς , di comprensione, in seguito alla pena della separazione dalla persona amata.

Nel Vangelo di Giovanni (VIII) troviamo, in un contesto non dissimile , lo stesso aggettivo ajnamavrthto",  composto da ajnav, prefisso negativo,  e aJmartavnw, “ commetto uno sbaglio”.
L’episodio è notissimo: mentre Gesù parlava nel tempio ascoltato dal popolo, gli scribi e i Farisei gli portarono una donna còlta in adulterio ( gunaĩka ejpi; moiceiva/ kateilhmmevnhn, mulierem in adulterio deprehensam VIII, 3). Quindi questi provocatori chiesero al Maestro che cosa dicesse a proposito della legge di Mosé che prescrive la lapidazione di tali donne. Costoro parlavano  tentantes eum, ut possent accusare eum (VIII, 6), tentandolo per poterlo accusare. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con un dito in terra. Quelli però continuavano a interrogarlo. Allora il Cristo si rizzò “et dixit eis: Qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem incidat, " oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon, quello di voi senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, (VIII, 7), Poi, chinatosi di nuovo, riprese a scrivere in terra. Quelli uscirono uno alla volta, a cominciare dai più vecchi. Il Cristo restò solo con la donna rimasta lì in mezzo. Rizzandosi ancora, Gesù disse: Mulier, ubi sunt? Nemo te condemnavit?” E lei “Nemo, Domine”. E Gesù: “Nec ego te condemno; vade et amplius iam noli peccareoujde; ejgw; se katakrivnw: poreuvou kai; ajpo; toũ nũn mhkevti aJmavrtane[2]. Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata? –Nessuno Signore-Nemmeno io ti condanno. Vai e non peccare più.
Posto che potesse scegliere, sarà andata dal marito o dall’amante? Nessuno lo sa.

Un esempio  di comprensione in seguito a un dolore, uno dei tanti esempi nella letteratura europea, si trova nel Duvskolo" , un’altra commedia[3] di Menandro dove troviamo di nuovo aJmartavnw : il vecchio Cnemone solitario, scontroso e misantropo, dyskolos appunto,  dopo una caduta in un pozzo dal quale non riesce a uscire se non con il soccorso di due giovani che aveva maltrattato, il figliastro e il pretendente della figlia,  comprende che nessuno   può cavarsela sempre senza l'aiuto del  prossimo, e deve ammettere:" e{n d j i[sw" h{marton[4] o{sti" tw'n aJpavntwn wj/ovmhn-aujto;" aujtavrkh" ti"  ei\nai kai; dehvsesq  j oujdenov"", in una cosa probabilmente ho sbagliato io che ho creduto di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno (vv.713-714).
Il vecchio, in seguito alle esperienze avute in precedenza aveva pensato che non esistesse alcun uomo capace di benevolenza verso un altro.
In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si può imparare  diventare meno egocentrici.

giovanni ghiselli
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Ieri ho iniziato il mio corso sugli archetipi all’Università Primo Levi di Bologna. Ho trovato dieci allievi adulti molto interessati e motivati a imparare. Ne sono felice.
Le mie fatiche “umanamente spese” non vanno affatto perdute, poiché la terra non è popolata solo da Calibani. Ci sono ancora persone desiderose e caaci di imparare. Io lavoro, con gioia, per loro e per me stesso.





[1] L’arbitrato
[2] Imperativo di aJmartavnw.
[3] Del 317 a. C. Questa è l’unica commedia databile con sicurezza. E’ un’opera giovanile
[4] Aoristo di aJmartavnw appunto

domenica 12 ottobre 2014

Il culto del sole nella letteratura europea

Omero, Eschilo, Sofocle, Aristofane, Prodico di Ceo, Platone, Ennio, Cicerone,  Virgilio, Seneca,  Giuliano Augusto, Ovidio, Apuleio,  Longo Sofista, Ammiano Marcellino, Francesco d’Assisi,  Dante, Shakespeare, Alfieri, Hölderlin, Foscolo,  Manzoni, Ibsen, Freud, T. Mann

Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature  loda Dio  
Laudato sie, mi’ Signore,  cum  tucte le tue creature”,
 e, tra queste, per prima
  " spetialmente messor lo frate sole/lo quale è iorno, et allumini noi per lui./E ellu è , bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione".
 
L'elogio del sole, il dio che vede, ode tutto, e nutre la vita,   percorre parte della letteratura greca e prosegue  in quella europea. Voglio indicarne alcune espressioni.
Già Omero, nell' Iliade  ,  gli attribuisce la facoltà di vedere e ascoltare tutto:"  jHevliov" q  j, o{" pant  j ejfora'/" kai; pavnt  j ejpakouvei""[1] (III, 277); una formula che torna un poco variata in Odissea  (XI, 109) :"  jHelivou,   o{" pavnt  jejfora'/ kai; pavnt  j ejpakouvei"[2].
Nell'Inno "omerico" a Demetra , quando Persefone venne rapita da Ade , solo Ecate ed Elio signore , splendido figlio di Iperione ( " jHevliov" te a[nax  JUperivono" ajglao;" uiJov"" v.26), udirono la fanciulla che invocava il padre Cronide.
Nel Prometeo incatenato  di Eschilo  il titano invoca, tra gli altri, "to;n panovpthn kuvklon hJlivou"(v. 91), il disco del sole che tutto vede.
Nelle Supplici   il coro delle Danaidi   chiede aiuto ai raggi del sole che danno salvezza (kalou'men aujga;" hJlivou swthrivou", v. 213).

nella Parodo dell’ Antigone  di Sofocle, il coro dei Tebani  esprime gratitudine alla luce del Sole per la vittoria sugli Argivi:" raggio di sole, la luce/più bella apparsa su Tebe dalle sette porte/tra quelle di prima" (vv. 100-102) e più avanti  la protagonista condannata a morte lo saluta e rimpiange quale "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.
 Nell' Edipo re  il sole è" pavntwn qew'n provmo"" (660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell' Edipo a Colono  è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn  {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto.
Nella Parodo delle Trachinie   il Coro di donne di Trachis prega Elio, perché annunzi dove si trova Eracle, invocandolo come "kratisteuvwn kat  j o[mma" (v. 102), tu che superi tutti con il tuo sguardo, come interpreta lo scoliaste:"w\ nikw'n pavnta" tou;" qeou;" kata; to; ojptikovn", tu che vinci tutti gli dèi nel potere visivo.  

Sul sole onniveggente torna Ennio nella Medea (fr. 148, v. 1):"Iuppiter tuque adeo summe Sol qui omnis res inspicis ", Giove e tu in particolare, sommo sole che vedi tutto)  poi,  all'inizio dell'Asino d'oro , Apuleio quando Aristomene giura che sta per raccontare la verità (I, 5):"sed tibi prius deierabo solem istum omnividentem deum ".
Nelle Metamorfosi  di Ovidio, il sole identificato con Febo, vide per primo l’adulterio di Venere con Marte[3]. Infatti videt hic deus omnia primus (IV, 172). Ne ebbe dolore e denunciò la tresca a Vulcano che incatenò i due amanti i quali si trovarono a giacere ligati- turpiter (186-187) oscenamente legati. Allora Venere volle vendicarsi e dice: “Nempe, tuis omnes qui terras ignibus uris/ureris igne novo, quique omnia cernere debes,/Leucothoën spectas et virgine figis in una,/quos mundo debes, oculos” (194-197), certo, tu che con i tuoi fuochi bruci tutte le terre, sei infiammato da insolito fuoco, e tu che devi vedere ogni cosa, Leucotoe[4] contempli e fissi solo su quella ragazza gli occhi che devi puntare sul mondo.
Quindi il Sole va a corteggiare la ragazza  con queste parole :"ille ego sum-dixit-qui longum metior annum,/omnia qui video, per quam videt omnia tellus,/mundi oculus: mihi, crede, places !" (IV, 226-228), io sono quello, disse, che misuro il lungo anno, che vedo tutto, per cui vede tutto la terra, sono l'occhio dell'universo: abbi fiducia , mi piaci!". La fanciulla, vinta dallo splendore del dio si arrese senza lamentarsi
L'espressione si ritrova pure in  Shakespeare:"the all-seeing sun ne'er saw her match, since first the world begun " , il sole che tutto vede non ha mai visto una sua pari da quando il mondo è cominciato, dice Romeo all’amico Benvolio[5].
Ma torniamo a Ovidio
Quando Circe, figlia del Sole cerca, invano, di indurre Pico ad unirsi con lei, gli chiede di accogliere come suocero il Sole che  vede tutto con chiarezza ("et socerum, qui pervidet omnia, Solem/accipe ", XIV, 375-376),
Pico era figlio di Saturno e padre di Fauno. Era bello e sposò la ninfa Canente. Circe lo vide e lo corteggiò. Ma Pico la rifiutò. Circe si infurò: “laesaque quid faciat, quid amans, quid femina disces/rebus- ait- sed amans et laesa et femina Circe” (Ovidio, Metamorfosi, XVI, 384-385), imparerai con i fatti che cosa può fare una donna amante offesa, disse, e l’amante offesa è Circe.
 Quindi trasformò Pico in picchio (pennas in corpore vidit)
Poi Circe convoca la Notte e gli dèi della Notte dall’Erebo e dal Caos e prega Ecate con ululati lunghi
Convocat et longis Hecaten ululatibus orat (405). Infine trasforma I compagni di Pico in mostri.
  
La luce del sole è sacra per quanti sono iniziati ai misteri nelle Rane  di Aristofane (hJmi'n h{lio"-kai; fevggo" iJerovn ejstin,-o{vsoi memuhvmeq& ",454-456).

L'"ateo" Prodico di Ceo chiama dèi i quattro elementi[6] e poi il sole e la luna. Infatti affermava che da questi ha esistenza per tutti la forza vitalr:"ta; tevssera stoicei'a qeou;" kalei' ei\ta h{lion kai; selhvnhn. ejk ga;r touvtwn pa'si to; zwtiko;n e[legen uJpavrcein"[7]
 Nella Repubblica  di Platone dove si narra il mito della caverna, la luce del sole nel visibile (e[n tw̃/ oJratw̃/ fw̃ς ) è generata dall’idea suprema  del bene nel campo conoscibile  ( ejn tw̃/ gnwstw̃/ teleutaiva hJ tou' ajgaqou' ijdeva, 517c) che a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
E’ questa idea del bene dunque che fa apparire il sole, signore della luce, ed è lei la signora (kuriva)  che nell’intellegibile (e[n te nohtw̃/)   elargisce la verità e l’intelligenza

Cicerone nel Somnium Scipionis (VI, 17)  chiama il Sole"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi[8] et temperatio, tanta magnitudine ut cuncta sua luce lustret et compleat ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del mondo e principio regolatore, seguendo un misticismo solare di origine pitagorica, tanto grande da rischiarare e riempire tutto con la sua luce (cfr. Virgilio, Eneide, IV, 607)

Uno degli autori del romanzo greco, Longo Sofista (probabilmente del II secolo d. C.) fa del sole un esteta che per volontà di bellezza spoglia tutti i belli:"ei[kasen a[n ti"...to;n hJvlion filovkalon o[nta pavnta" ajpoduvein", Le avventure pastorali di Dafni e Cloe , 1, 23. sembrò che il sole, amante della bellezza, spingesse tutti a spogliarsi. Il romanzo greco che " ha usato e rifuso nella propria struttura quasi tutti i generi della letteratura antica"[9] non ha tralasciato l'elogio del sole.
Giuliano Augusto l'imperatore calunniato dai Cristiani con l'infamante epiteto di "Apostata" riassume questi elogi dell'antichità in termini neoplatonici nella orazione A Helios re  dedicata a Salustio. Questo "sermone natalizio" fu redatto alla fine del 362 d. C. per  celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti . Elio  è visto come il signore del mondo intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo assai simile al Bene preesistente a tutte le cose. Giuliano cita  la Repubblica  di Platone dove (508c) si dice che il Sole è figlio del Bene ("tou' ajgaqou' e[kgonon") che il Bene generò simile a sè ("oJ;n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/") e ciò che è il Bene nel mondo intellegibile rispetto all'intelletto e agli intellegibili è Helios nel mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21).   L’Uno (e{n) o il Bene (tajgaqovn), come lo chiama Platone, ha rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene identificato con Zeus e con Apollo (31)
Alla fine (44) Giuliano prega Elio, to;n basileva tw̃n o{lwn, di accordargli una vita virtuosa, una intelligenza più piena e una mente divina. E alla fine della vita di congiungersi a lui.

Nelle Storie di Ammiano Marcellino i vaticini[10] dicevano che Costanzo sarebbe morto presto e Giuliano si preparava ad attaccarlo. Gli auspici si traggono dagli uccelli non perché loro conoscano il futuro sed volatus avium dirĭgit deus (21, 1, 9).
Anche il rostrum sonans dà segni. Anche le viscere degli animali (exta pecŭdum) . Inventore di questa aruspicina fu Tagete che balzò improvvisamente dal suolo in terra etrusca.
Quando sono in effervescenza (cum aestuant) anche i corda hominum prevedono il futuro ma per loro bocca parla la divinità.
 Il sole è la mens mundi, ut aiunt physici, e  rende coscienti le nostre menti quando le incendia con maggiore violenza spargendo da sé come scintille nostras mentes ex sese velut scintillas diffundĭtans, cum eas incenderit vehementius, futuri conscias reddit (Ammaini Marcellini, Rerum Gestarum XXI, 1, 11).
  
I segni del Sole sono veritieri: Virgilio, nella prima Georgica (463-464), afferma la sincerità del sole nel dare segni:"Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe chiamarlo falso?

 Al Sole dobbiamo gratitudine:  Seneca in una lettera a Lucilio (73, 6)  esprime personale riconoscenza al sole e alla luna che pure sorgono per tutti:"Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur ". Cfr, sotto Hölderlin.

Questa riconoscenza per il sole interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, percorre vari momenti della letteratura europea.
Dante ne fa il simbolo della grazia divina: il sole è il “pianeta/che mena dritto altrui per ogni calle” (Inferno, I, 17, 18), La luce del sole è il simbolo della grazia divina e guida verso la salvezza; infatti la lupa simbolo dell’avarizia risospingeva Dante “là dove il sol tace” (v. 61)
Nel Purgatorio torna questa identificazione del sole con la grazia divina in questa preghiera di Virgilio:
" O dolce lume a cui fidanza[11] i’ entro
Per lo novo cammin, tu ne conduci,
-dicea-, come condur si vuol quinc’entro
Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci:
s'altra ragione in contrario non pronta,
essere dien sempre li tuoi raggi duci[12]"(Purgatorio , XIII, 19-21).
   Anche nel Convivio Dante esprime questa idea:  
Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l sole (…)
Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica (…) così Iddio tutte le cose vivifica in bontade ” ( III, 12).

Manzoni ripete che il Sole è una guida sicura
Nell'Adelchi  di Manzoni, il diacono Martino, raccontando la sua prodigiosa traversata delle Alpi, compiuta non senza l'aiuto divino ("Dio gli accecò, Dio mi guidò", III, 2, v. 167), riconosce di essersi avvalso, di fatto, della guida del sole:"Era mia guida il sole/Io sorgeva con esso, e il suo viaggio/Seguia, rivolto al suo tramonto"(III, 2, vv. 207-209).

   F. Hölderlin nel romanzo epistolare Iperione   (1799) scrive:" l'eroica luce del sole dona gioia con i suoi raggi alla terra"(p.76), e, "il sacro sole sorrideva tra i rami, il buon sole che non posso nominare senza gioia e gratitudine, che spesso, con un solo sguardo, mi ha guarito da un profondo dolore e ha purificato la mia anima dallo scontento e dalle preoccupazioni"(p.111).

Foscolo, nell'Ortis , lo chiama"ministro maggiore della natura"(20 novembre 1797) e "sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato"(3 aprile 1798).

Leopardi nello Zibaldone (3833-3834) scrive :"Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi(ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa (5 Nov. 1823.)”.
Nel Cantico del Gallo Silvestre  leggiamo:" Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato?" 

Il sole è invocato dalle creature morenti come ultima immagine della vita terrena:  Aiace mentre combatte nella nebbia, prega Zeus di rasserenare il cielo prima di farlo morire, in modo che la sua fine avvenga ejn favei, nrlla luce ( Iliade, XVII, 645-647). L’Anonimo Sul sublime trova altamente poetica questa preghiera
Anche Alcesti morendo  cerca la luce:" blevyai pro;" aujga;" bouvletai ta;" hJlivou"(v. 206), vuole rivolgere lo sguardo ai raggi del sole.
 Altrettanto  i moribondi Foscolo ("perché gli occhi dell'uom cercan morendo/ il Sole", i Sepolcri , 121) e pure Osvald  di Ibsen:"Mamma, il sole...dammelo, dammi il sole", chiede il giovane nell'ultimo atto degli Spettri  e, chiudendo il dramma, ripete:'il sole, il sole". 

Concludo con
Il culto del sole dal faraone della XVIII dinastia Amenofi IV-Ekhnaton al Romanticismo.
La venerazione del dio-sole, della quale abbiamo mostrato molte testimonianze nei testi europei, ha avuto il suo primo apostolo nel faraone Amenofi IV della XVIII dinastia. Egli sostituì il culto di Ammone con quello del Sole e cambiò il proprio nome in Ekhnaton, gradito ad Aton, il disco solare. Al sole il faraone eretico dedicò un Inno e delle immagini. Ecco alcune parole:" le greggi sono liete nei loro pascoli/quando tu sorgi/gli alberi e le erbe verdeggiano/gli uccelli svolazzano nei loro nidi/e le loro ali ti elogiano.../i tuoi raggi penetrano fin nell'intimo del mare".
Gli autori del libro che ho consultato[13] riportano un'immagine del faraone con la moglie, la regina Nefertiti, e le figlie illuminati e benedetti dal sole, e la commentano così:"Questo bozzetto familiare raggiante sotto la benedizion del dio-Sole, Aton, è uno dei frammenti di calcare, provenienti dalla tomba del Faraone, illustranti la felicità che il culto del dio elargisce ai suoi regali adoratori. Il fluire delle linee incide nel calcare i corpi agili, sinuosi contrapposti l'un l'altro in un vivace conversare animato dall'infantile gestire delle gaie, sottili principessine. Il disco solare forma con le sue braccia raggianti[14] un triangolo secondato dalla posizione dei corpi e quasi concluso in basso".

Freud fa di questo faraone illuminato l'inventore del monoteismo e il predecessore della religione ebraica. "Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l'Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, salì al trono intorno all'anno 1375 a. C. un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi (IV) come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo nome. Questo re tentò di imporre ai suoi sudditi una nuova religione...Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere...In due inni ad Atòn, serbatici dalle iscrizioni sulle tombe rupestri e probabilmente da lui stesso composti, il sole come creatore e conservatore di tutti gli esseri viventi dentro e fuori l'Egitto, è celebrato con tale fervida fede quale si ritrova molti secoli più tardi nei Salmi  in onore del dio ebraico Yahweh. Non gli bastò tuttavia anticipare sorprendentemente la scoperta scientifica dell'effetto della radiazione solare. Non v'è dubbio che egli fece un passo avanti, onorando il sole non come oggetto materiale, bensì come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi del sole...Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhnatòn, la religione di Atòn...Entrambe sono forme rigide di monoteismo...Mosè non diede solo una nuova religione agli Ebrei; con pari sicurezza si può affermare che egli introdusse presso di loro la consuetudine della circoncisione...Erodoto, il "padre della storia", ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto[15]...e la supposizione...è tale da darci il coraggio di trarre la seguente conclusione: se Mosè diede agli Ebrei non solo una nuova religione, ma anche il precetto della circoncisione, egli non era ebreo, ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia, e precisamente, a cagione del contrasto con la religione popolare, la religione di Atòn, con cui si accorda anche la religione ebraica posteriore in alcuni punti degni di nota"[16].

 Hauser sostiene che questa riforma religiosa portò il naturalismo nell'arte:"Amenothes IV, che legò il suo nome al grande rivolgimento spirituale, non è solo-come tutti sanno- il grande riformatore religioso, lo scopritore dell'idea monoteistica; non è solo, come fu chiamato, il "primo profeta" e il "primo individualista" della storia universale[17], ma è anche il primo consapevole rinnovatore dell'arte, il primo che fa del naturalismo il proprio programma e lo contrappone come una conquista allo stile arcaico...Ciò che l'arte gli deve e che gli artisti hanno appreso da lui, è-evidentemente-il nuovo amore della verità, la nuova nervosa sensibilità, che conduce a quello che si potrebbe definire l'impressionismo dell'arte egiziana. Alla sua lotta contro le tradizioni religiose fossilizzate e svuotate di ogni senso, corrisponde il superamento del rigido stile accademico da parte dei suoi artisti. Sotto la sua influenza il formalismo del Regno Medio lascia il posto, nella religione come nell'arte, all'amore della vita e della natura, al piacere di nuove scoperte"[18].
Concludo questo omaggio al faraone profeta del sole citando Gombrich:"Soltanto un uomo riuscì a scuotere le ferree sbarre dello stile egizio. Fu un re della diciottesima dinastia...Questo re, chiamato Amenofi IV, era un eretico. Eliminò molte consuetudini consacrate da un'antica tradizione, e non volle rendere omaggio alle numerose divinità del suo popolo, così bizzarramente raffigurate. Per lui soltanto un dio era sommo, Aton, e lo adorò e lo fece rappresentare in forma di sole. Dal nome del dio volle chiamarsi Ekhnaton e trasferì la corte per sottrarla all'influenza dei sacerdoti degli altri dèi, nell'odierna Tell el-'Amarna. I dipinti che egli ordinò devono aver colpito i suoi contemporanei per la loro novità. In essi non sopravviveva nulla della solenne e rigida dignità dei precedenti faraoni. Si era fatto raffigurare nell'atto di prendere la figlioletta sulle ginocchia e di passeggiare in giardino con la moglie, appoggiato al bastone. Alcuni ritratti ce lo mostrano brutto: forse voleva che gli artisti lo riproducessero in tutta la sua umana fragilità oppure era così convinto della sua eccezionale importanza come profeta che riteneva essenziale attenersi alla somiglianza"[19].  
Da Steiner gli Ebrei sono visti come gli inventori e i propagatori di ideali troppo duri e scomodi per i popoli dell’Europa occidentale, insomma per noi. Il primo vulnus inferto all’Europa pagana fu quello del monoteismo. Steiner cita Nietzsche: “ Nel politeismo consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità…è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”)”[20]. Seguì il marxismo.
 Nietzsche non si limitò a questo. Egli vide negli Gli Ebrei un popolo sacerdotale, il “popolo della più latente sete di vendetta sacerdotale”. E ancora: “Con gli Ebrei si inizia la rivolta degli schiavi nella morale”.
C’è una ostilità culturale piuttosto che razziale-biologica, come fa notare T. Mann: “Quando Socrate e Platone cominciarono a parlare di verità e di giustizia egli dice una volta ‘non furono più greci, ma ebrei, o che so altro’. Orbene, gli ebrei, grazie alla loro moralità, si sono dimostrati buoni e tenaci figli della vita. Con la loro fede in un Dio giusto, essi sono sopravvissuti ai millenni, mentre il piccolo, dissoluto popolo greco di esteti e di artisti è presto scomparso dalla scena della storia. Ma Nietzsche, pur lontano da ogni odio razziale antisemitico, vede nel giudaismo la culla del cristianesimo e in questo, a ragione ma con aborrimento, il germe della democrazia, della rivoluzione francese e delle odiate “idee moderne che la sua parola squillante marchia con il nome di ‘morale del gregge’…ciò che egli disprezza e maledice in queste idee è ‘utilitarismo e l’eudemonismo, il loro far della pace e della felicità terrena i beni più desiderabili ed alti, mentre l’uomo nobile, tragico, eroico, calpesta questi valori molli e volgari”[21].
Certamente non è l’eudemonismo la quintessenza della cultura ebraica. Piuttosto essa è contrassegnata dal monoteismo.
Ebbene, il rifiuto del monoteismo importato in Europa dagli Ebrei si trova in diversi autori. Sentiamo, per esempio, Vittorio Alfieri: “Nel trattato Della tirannide (del 1777) l’Astigiano distingue la religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato[22], e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).
Anche qui l’obiettivo polemico è il popolo ebraico, origine della malattia monoteistica, come si vede.
Steiner mette anche in rilievo il fatto che Freud cercò di scagionare gli Ebrei dalla “colpa” del monoteismo : “In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria… Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio-ma chi aveva scelto chi?-era troppo visibile su di loro”[23].
Il faraone Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i suoi fratelli: “Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E scostando la batista dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte interna dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!”[24].
Giovanni Ghiselli 
Il culto del Sole 12 ottobre 2014


[1] E’ Agamennone che prega nel sancire i patti prima del duello tra Menelao e Paride.
[2] Qui parla Tiresia dopo avere bevuto il sangue della vittime sgozzate da Odisseo per evocare i morti. Gli dice che deve lascire intatte nell’isola di Trinachia le floride greci del Sole che tutto vede e tutto ascolta.
[3] Viene raccontato da Demodoco nell’VIII canto dell’Odissea (vv. 266 ss.)
[4] Principessa persiana, figlia di Orcamo
[5] Romeo e Giulietta  (I, 2). Quando il sole si accieca la scena assume "an atmosphere of Juliet's tomb"[5], un'atmosfera da tomba di Giulietta  (T. S.Eliot, Portrait of a Lady, Ritratto di Signora, del 1917  
[6] Fuoco, aria, acqua, terra.
[7] Frammenti da Scritti incerti in Sofisti Testimonianze e Frammenti , a cura di Mario Untersteiner, fasc. II, p.195
[8] Cfr. Seneca, Naturales quaestiones, I, 13. Quid est deus? Mens universi
[9]        M. Bachtin, Estetica e romanzo , p. 235.
[10] Siamo nel 361 d. C.
[11] Cfr. Solem quis dicere falsum/audeat? ", citato sopra
[12] Cfr. Infermo, XXVI. Ulisse dice ai compagni “vecchi e tardi”, come lui: “non vogliate negar l’esperienza,/di retro al sol” (vv. 116-117)
[13]      Ciotti-Marzi-Kiernek, Storia dell'arte , p. 8.
[14]      Cfr. Empedocle, Poema fisico , 30 Diels-Kranz:" e[nq& ou[t& hjelivoio dieivdetai wjkeva gui'a ", là non si scorgono nemmeno le rapide membra del sole. 
[15]      Erodoto, II, 104.
[16]      S. Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica ,  in Freud  Opere 1930-1938 , pp. 350 e sgg.
[17]      J. H. Breasted, A History of Egypt , 1909,  pp. 356-377.
[18]      Storia sociale dell'arte , p. 65.
[19]      La storia dell'arte raccontata da E. H. Gombrich , pp. 54-55.
[20] G. Steiner Nel castello di Barbablù Note per la riedifinizione della cultura, p. 39.
[21] Nobiltà dello spirito.
[22] Il predominio del fato non risparmia nessuno: il Prometeo di Eschilo, afferma consolandosi del suo martirio, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(Prometeo incatenato, v. 518).  Ndr.
[23] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 41
[24] Giuseppe il nutritore (IV volume), p. 204.

Il caso Scurati.

Non giudico il valore di Scurati che non conosco e certamente mi sdegno davanti alla censura che limita la libertà di parola, la parresia ...