domenica 21 ottobre 2012

Giovinezza, giovinezza - di Giovanni Ghiselli













Oggi la politica, dati gli
pseudo-politici che si occupano degli affari propri e non di quelli della polis , ha disgustato la maggior parte
degli Italiani. E’ di gran moda far credere che la gestione della cosa pubblica
andrebbe rinnovata e purificata affidandola ai giovani e alle donne, comunque
siano costoro. Non importa se ignoranti o farabutti.


 Basta che siano giovani o donne. Il massimo
sarebbe venire governati da donne giovani, magari ragazze di 18 anni appena
compiuti, a un passo dall’esame di maturità.






Trasformerebbero le aule  sorde e grigie dei due rami del parlamento in
un allegro passeraio pieno di lieti cinguettìi e allegri svolazzi.


Voglio andare contro
corrente, essere inattuale in maniera provocatoria, e confutare tali idiozie
condivise quasi da tutti.





Partiamo dai giovani. Prendo
spunto da una lettura del libro Destini
personali
di Remo Bodei
(Feltrinelli, 2009).


L’autore mi ha fatto tornare
in mente che la “giovinezza” era un mito dei fascisti e che il loro canto di
battaglia inneggiava a questa stagione della vita. Ma sentiamo Bodei:


Sebbene ripreso da un precedente canto goliardico, lo stesso inno
Giovinezza, giovinezza, esprime l’ideale della lotta contro la decadenza, sotto
la guida di un uomo che rappresenta l’Italia “maschia e guerriera” di Vittorio
Veneto, di un politico che nel 1922,
a
trentanove anni, divenne il più giovane presidente del
consiglio che l’Italia abbia mai avuto
”.


Più o meno l’età di Renzi.


La Serracchiani l’ha già superata. Ma, rispetto all’età non più così
verde, questa quarantenne ha l’attenuante di essere una donna, non stupida e
carina per giunta.





Una dotta nota del bel libro
di Bodei ci spiega la genesi di questo canto che fu molto popolare: “ ‘La
Marsigliese
della
quarta Italia’ (secondo la definizione del quadrumviro De Vecchi), che veniva
eseguita in tutte le occasioni ufficiali, non è originale. Riprende un canto
goliardico, composto a Torino nel 1909 con musica di Giuseppe Blanc e testo di
Nino Oxilia, riformulato poi varie volte. L’inizio della seconda strofa, nella
versione approntata da Salvator Gotta nel 1922, suona significativamente così:
“Dell’Italia nei confini/son rifatti gli Italiani/li ha rifatti Mussolini/per
la guerra di domani
”.


 Questa volta sarà il bellicoso Matteo Renzi a
ri-fare


noi Italiani ? Tutto può
essere.





Ora non voglio negare che la
giovinezza in sé sia una bella età e che la vecchiaia un poco alla volta ci
tolga qualche cosa.


Ma, d’altra parte, qualche
cosa aggiunge.


Riporto alcuni encomi, non
fascisti, della giovinezza, associati a biasimi della vecchiaia. Seguirà una
difesa dell’età provetta.


 Mimnermo, un poeta greco della seconda metà del VII
secolo a. C.


 considera la
vita umana indegna di essere protratta quando la giovinezza è spenta, e i
giorni non hanno più l'unica giustificazione che li rendeva desiderabili:
quella erotica, in parole povere quella del letto.





"Quale
vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite?


Vorrei essere
morto, una volta che non mi importi più di questi beni,


l'amore
furtivo e i dolci doni e il letto:


che sono i
soli fiori fugaci di giovinezza


per gli uomini
e per le donne; poi quando sia giunta penosa


la vecchiaia
che rende l'uomo turpe e insieme cattivo,


sempre penosi
affanni lo consumano nell'animo,


e non prova
piacere neppure alla vista dei raggi del sole,


ma è odioso ai
ragazzi, spregevole per le donne;


così
tremenda  rese la vecchiaia un dio
".





Leggiamo qualche altro frammento di questo poeta
elegiaco


:"Come le
foglie[1]
che genera la fiorita stagione


di primavera,
quando crescono in fretta ai raggi del sole, noi, simili a quelle, per il tempo
di un cubito, godiamo dei fiori


di giovinezza,
senza conoscere dagli dèi né il male


né il bene.
Destini neri ci stanno accanto


uno che ha il
termine della vecchiaia tremenda,


l'altro di
morte: un attimo dura il frutto


di giovinezza,
per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.


Ma quando
questo termine di tempo sia trapassato,


subito essere
morto è meglio della vita:


infatti molti
mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le
vicende dolorose della povertà:


 a un altro poi mancano figli, di cui
soprattutto


sentendo il
desiderio va sotto terra nell'Ade;


un altro ha
una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno


degli uomini,
cui Zeus non dia molti mali
".





E ancora


:A Titone , Zeus diede da
sopportare, male immortale,


la vecchiaia, che è anche più raccapricciante della morte tremenda.


Ma di breve durata è come un sogno


la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme


vecchiaia subito sul capo è sospesa,


odiosa insieme e spregiata, che rende l'uomo irriconoscibile,


e danneggia gli occhi e la mente versandosi attorno."





La conclusione è l’auspicio
di morire a sessant’anni:


 “Vorrei
che senza malattie e preoccupazioni tremende


il destino di morte mi cogliesse a sessant’anni”.





D’Alema e  Bersani, per non dire di Napolitano, non
hanno più questa uscita di sicurezza, la Finocchiaro se vuole approfittarne, ha ancora
qualche anno. Parlo di morte politica naturalmente.





Riporto una difesa degli
ultrasessantenni, categoria alla quale appartengo, indegnamente forse ma anche
per fortuna, altrimenti sarei morto già da un po’ di tempo.





Solone, il saggio legislatore ateniese dei primi anni del VI secolo, replica
a Mimnermo confutando la stanchezza pessimistica che vuol fare punto già a
sessant'anni.


"Ma se ora finalmente vuoi darmi retta, togli
questo verso,


 e
non essere invidioso, per il fatto che ho pensato meglio di te,.


e cambialo, arguto cantore, e canta
così:


ottantenne mi colga il destino di morte


Né incompianta mi giunga la morte, ma ai
cari


 io lasci morendo dolori e gemiti.


 Invecchio imparando sempre molte cose ".


Ottant’anni
per l’epoca non erano pochi. Io però oggi vorrei salvare anche Napolitano e gli
altri della sua età: campino pure, magari non politicamente, oltre i cento
anni. Che poi non sono chissà che.


Procedo
con i biasimi della senilità


 Il secondo
stasimo della tragedia Eracle di Euripide contiene un  anatema della vecchiaia che grava sul capo
come un carico più pesante delle rupi dell'Etna.


La giovinezza-cantano i vecchi compagni d’arme di Anfitrione-  è
preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella prosperità quanto  nella povertà
” ( vv. 647-648).


Poi: “La giovinezza è il dono più grande degli dèi,
e, se questi avessero
intelligenza e sapienza (xuvnesi"-kai; sofiva) riguardo agli uomini, donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a
quanti la posseggono

( vv.661-662).


Al “sacrilego Euripide” obietto che
tutto sommato gli dèi hanno intelligenza e sapienza: chi vive in maniera
moralmente e fisicamente sana porta bene l’età.


Marziale afferma che l’uomo buono vive senza rimorsi, gode
del frutto della sua vita e ne accresce lo spazio fino a raddoppiarlo: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc
est/vivere bis, vita posse priore frui
” (X 23, 7-8).





Gli anatemi della vecchiaia
pullulano e il giovanotto Renzi è in buona compagnia. Forse ha imparato dai
libri alcune cose tra quante ne dice.


Il terzo stasimo dell’ Edipo a Colono di Sofocle che peraltro scrisse questa tragedia dopo i novant’anni,
canta:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più
presto là/ donde si venne,/  è certo il
secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie
leggere (
kouvfa"
ajfrosuvna" fevron
), /quale
travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia,
discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata
vecchiaia impotente (
ajkrate;")
,/ asociale (ajprosovmilon), priva di amici (a[filon) /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224-1238).





  Di questa
maledizione dei Greci arcaici e classici della vecchiaia, possiamo trovare  echi innumerevoli in letteratura successiva:
un frammento di Menandro  (seconda metà del IV sec.a. C.) fa:" o{n oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo", colui che gli dei amano, muore giovane".





Virgilio  chiama la vecchiaia "tristisque senectus  "(Eneide , VI, 275) e la situa in faucibus Orci (v.273), sulla bocca
dell'Orco in compagnia di pianti, rimorsi vendicatori, pallidi morbi, e  diverse altre presenze inamene.


 Leopardi è un dichiarato nemico dell’età avanzata: in
Le Ricordanze  del 1829 scrive:"E qual mortale ignaro/di sventura esser può, se a lui già scorsa/quella
vaga stagion, se il suo buon tempo,/se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
"(vv.132-135).
Quindi premette il verso di Menandro citato sopra, come epigrafe ad Amore e morte  del 1832.


In Il tramonto
della luna
, del 1836, il poeta di Recanati poco prima di morire compone
l'anatema definitivo della vecchiaia: "estremo/di
tutti i mali, ritrovàr gli eterni/la vecchiezza, ove fosse/incolume il desio,
la speme estinta,/secche le fonti del piacer, le pene/maggiori sempre, e non
più dato il bene
"(vv.45-50).





Adesso però a
così forti biasimi voglio contrapporre qualche elogio della senilità
cui
tutti siamo avviati e alla quale arriveremo se non moriremo prima, forse
schivando qualche incomodo, ma certamente perdendo parecchie occasioni, se non
altre di "imparare molte cose", come ci ha  insegnato Solone.


Un elogio della vecchiaia si trova già nell'Iliade.


 Menelao, per
fare un patto con i Troiani, esige la presenza del vecchio re Priamo poiché non
si fida dei figli del re di Troia, e dice: “ sempre svolazzano gli animi dei giovani, ma quando un vecchio (oJ gevrwn) è con loro,
vede insieme il prima e il dopo (
a}ma
provssw kai; ojpivssw-leuvssei
), come sia meglio per gli
uni e per gli altri”
( III vv. 108-110).





 Cicerone nel De
senectute
(del 44 a.
C.)  compone l'elogio più articolato
della vecchiaia, facendo dire a Catone ottantatreenne:"in moribus est culpa, non in aetate
", il difetto sta nei costumi, non nell'età; e la pena deriva dai sensi di
colpa dovuti a una vita mal vissuta:"quia
coscientia bene actae vitae multorumque benefactorum recordatio iucundissima
est
", poiché la coscienza di una vita impiegata bene e il ricordo di
molte buone azioni fatte sono fonti di dolcissima gioia.


Vengono portati esempi di vecchiaie vigorose e
produttive: Platone che morì a ottant'anni "scribens ", scrivendo ancora, Isocrate che a novantatré anni
compose il Panatenaico, poi visse
altri cinque anni, e il suo maestro Gorgia che compì centosette anni, studiando
e lavorando, tanto che disse:"Nihil
habeo quod accusem senectutem
" non ho niente da rimproverare alla
vecchiaia. Insomma, secondo l’Arpinate, c'è una montatura negativa nei
confronti della terza e quarta età. Gli indebolimenti, almeno quelli mentali,
sono dovuti alla mancanza di esercizio.


"At
memoria minuitur
", ma la memoria diminuisce; ebbene a questa anteoccupatio, anticipazione dell’obiezione,
l'autore risponde:"credo, nisi eam
exerceas, aut etiam si sis natura tardior
", lo credo, se non la si
esercita, o anche se sei piuttosto stupido di natura, e fa l'esempio di Sofocle
che"ad summam senectutem tragoedias
fecit
", compose tragedie fino alla vecchiaia estrema, e anzi si
difese dall'accusa di demenza senile contestatagli da un figlio che voleva
venisse interdetto, leggendo l'Edipo a
Colono
ai giudici i quali naturalmente lo assolsero a pieni voti. Poco più
avanti il De senectute  ricorda anche Solone "qui se cotidie aliquid addiscentem dicit
senem fieri
", che dice di diventare vecchio imparando ogni giorno
qualche cosa; non solo, ma a Pisistrato che gli domandò in che cosa confidasse
per opporsi a lui con tanta audacia, rispose "senectute ", nella vecchiaia .


 I piaceri che
scemano, eventualmente, sono quelli volgari del corpo: “epularum aut ludorum aut scortorum voluptates” , dei banchetti o dei
giochi o delle prostitute certo non paragonabili a quelli dello spirito che
invece crescono. Chissà se Berlusconi e la Minetti sono d’accordo?


Quanto alle solite accuse di essere bisbetici (morosi ), ansiosi (anxii), iracundi , difficiles, avari, questi sono difetti
dei caratteri, non della vecchiaia:"sed
haec morum vitia sunt, non senectutis
".


Anche la vicinanza della morte non è terrificante,
infatti"omnia quae secundum naturam
fiunt sunt habenda in bonis
", tutto quello che avviene secondo natura
deve essere considerato tra i beni .


 E noi uomini:"in hoc sumus sapientes, quod naturam optimam
ducem tamquam deum sequimur eique paremus
", in questo siamo saggi che
seguiamo la natura ottima guida come un dio e le obbediamo.


J. Hilman è d’accordo con Cicerone:
“I fatti dimostrano che, invecchiando, io rivelo più carattere, non più morte”[2].


Purtroppo non posso soffermarmi oltre sull'argomento,
che mi sta a cuore, anche per ragioni anagrafiche oramai, però voglio
menzionare un moderno: Italo Svevo
nella cui opera, il protagonista di Senilità
, Emilio Brentani, è un trentacinquenne dall'anima stanca, mentre la vecchiaia
anagrafica di altri personaggi è, come nota Magris:" libertà dall'obbligo di attestare a se stessi e agli
altri il proprio valore, la propria capacità e vitalità"[3].


Concludo con alcune riflessioni di Umberto Galimberti: “Nel suo disperato
tentativo di opporsi alla legge di natura, che vuole l’inesorabile declino
degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente
all’erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino.
Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di
viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta,
la palestra, la profumeria, lo specchio.


Eppure nel Levitico
(19, 32) leggiamo: “Onora la faccia del vecchio”…La faccia del vecchio è un
bene per il gruppo, e perciò Hilmann può scrivere che, per il bene
dell’umanità, “bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il
lifting un crimine contro l’umanità”, perché, oltre a privare il gruppo della
faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che
visualizza la vecchiaia come anticamera della morte. A sostegno del mito della
giovinezza ci sono due idee malate che regolano la cultura occidentale, rendendo
l’età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico che, gettando sullo sfondo
tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia all’inutilità, e l’inutilità
all’attesa della morte. Eppure non è da poco il danno che si produce quando le
facce che invecchiano hanno scarsa visibilità…La faccia del vecchio è un atto
di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto trattato con la
chirurgia è una falsificazione che lascia trasparire l’isicurezza di chi non ha
il coraggio di esporsi con la propria faccia. Se smascheriamo il mito della
iovinezza e curiamo le idee malate che la nostra cultura ha diffuso sulla
vecchiaia potremmo scorgere in essa due virtù: quella del “carattere” e quella
dell’ “amore”. La prima ce la segnala Hilmann ne La forza del carattere (Adelphi): “Invecchiando io rivelo il mio
carattere, non la mia morte”, dove per carattere devo pensare a ciò che ha
plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io, con
le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, le
peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho
incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato”[4].





Ora, molto in breve, voglio
confutare la moda di anatemizzare la scarsa presenza di donne al potere
. Se il potere fosse una
cosa bella e buona, gestita da persone per bene, come Cristo, o suo cugino,
l’onesto Giovanni Battista, o l’amante della poverà  Francesco d’Assisi, e non prevalentemente da
profittatori senza scrupoli, senza morale, senza cultura, senza stile, sentirei
anche io il desiderio delle donne al potere, come sento il desiderio, anzi
addirittura il bisogno  della presenza
femminile in molti altri luoghi. Ma il potere adesso è u nucleo irriducibile di
male: è come lo hanno presentato Seneca, un uomo che ha avuto grande potere, e
come appare in molte tragedie di Shakespeare.


Il potere è razionale e
morale solo se esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio  il
maestro di Nerone, già ripudiato dal discepolo imperiale, ricorda che nell'età
dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere
assoluto:" Officium erat imperare,
non regnum"
(90, 5).


Luogo simile  si trova nel grande romanzo di Manzoni  :"Ma
egli
[5], persuaso in
cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la
bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro
servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle
" ( I
promessi sposi
, cap. XXII). Provino a pensarci i politici sedicenti
cattolici come il pio Celeste o Casini il devoto e divorziato alfiere della
famiglia.


Concetto analogo nella Psicanalisi della società contemporanea  di E.
Fromm
:"Il capo non è soltanto la
persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche
l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che
li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà
"
(p. 299).


Ma ora, e forse da sempre,
arrivare al potere e rimanerci significa essere fuori dalla morale. Sentiamo
Riccardo III , il principe che ha letto il Principe
di Machiavelli



La
politica per il protagonista della tragedia di Shakespeare, come per tanti dei nostri uomini di potere, è pura
pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte, anzi una tecnica amorale
come quella di costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni
umane sono argilla, e anche gli uomini sono un’argilla di cui si può fare quel
che si vuole. Riccardo si presenta confessando a se stesso questo programma : “Mi incitano a vendicarmi… ma allora io
sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di
rendere bene per male. Io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali
vecchi scampoli della Sacra Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il
diavolo (and seem a saint, when most I play the devil)
[6].


E ora
sentiamo direttamente Machiavelli
Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo,
non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni,
sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede,
contro alla carità, contro umanità, contro alla relligione…Debbe, adunque,
avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia
piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto
pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione”[7].


I nostri
politici pii e devoti hanno appreso la lezione del segretario fiorentino con
minore grandezza, ma ben maggiore diligenza del duca di Gloucester, che,
divenuto Riccardo III morirà ammazzato, combattendo.


Questi
nostri pseudopolitici, quando l’inverno del nostro scontento sarà passato,
finiranno con un singulto piuttosto che con uno schianto.


Il
quotidano “la Repubblica
del 17 gennaio del 2006 recava il titolo in prima pagina “Solo 11 le donne al potere”.


 Ebbene, una mente non fuorviata dai luoghi
comuni attualmente di moda, può pensare che questa rara presenza potrebbe anche
fare onore ai miliardi di donne, e di uomini, che non sono al potere.


Trovo
esemplare, almeno per il mio carattere, quello che, secondo Erodoto, disse il nobile persiano Otane
il quale, mentre poteva farlo, non entrò in lizza per diventare re, dicendo
parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te
a[rcesqai ejqevlw"
(Storie,  III, 83, 2), infatti non voglio comandare né
essere comandato .


Secondo
me l’assenza delle donne dal potere fa solo onore al genere femminile, alle donne
che quando sono buone, belle e fini, hanno di meglio da fare che intrigare per
comandare ed essere comandate. Credo che finire come la Minetti non si addica alle
donne per bene, come agli uomini onesti non si confanno le vicende di Fiorito,
per dire solo del peggiore. Del resto questi tre sono personaggi emblematici  





Giovanni
ghiselli g.ghiselli@tin.it













[1] Cfr. Iliade VI, 146-149 (Glauco a Diomede). Glauco chiede a Diomede:


"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?


quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella
degli uomini.


Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre
la selva


fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;


così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra
finisce".








[2] La
forza del carattere, p. 27.





[3] L’anello di Clarisse, p. 198.





[4] U.
Galimberti,  la Repubblica 29 febbraio
2008, p. 53 : Quando essere vecchi significa saggezza.





[5] Il
cardinal Federigo Borromeo.





[6] Riccardo III, I, iii.   .





[7]
Machiavelli, Il principe, XVIII, 5.




lunedì 8 ottobre 2012

"Reality" di Matteo Garrone - di Giovanni Ghiselli







Ho visto Reality, il film di Matteo Garrone, molto bello. Ripresenta il mito  della caverna, ambientandolo nella  Napoli di oggi.

 Al’inizio del VII libro della Repubblica, Platone racconta che degli schiavi chiusi in una caverna, con le gambe e il collo in catene, in modo che devono stare fermi e guardare solo davanti a sé, vedono sulla parete di fondo dell’antro solo ombre riflesse da un fuoco che si trova dietro le loro schiene.

Le ombre  sono proiezioni   di oggetti portati sulle spalle da altri uomini che sfilano dietro un muretto situato tra il fuoco e gli incatenati.

Gli aggeggi che sporgono oltre il muro non sono cose reali ma utensili di ogni genere, riproduzioni in pietra e in legno di animali e ogni sorta di arnesi fabbricati (515c).  



Ebbene, i vari grandi fratelli proposti dalle televisioni presentano una situazione del genere senza denuncia o biasimo nei confronti di tale adulterazione e soffocamento della vita, anzi il triste e volgare artificio viene reso attraente a menti sprovvedute che, uscendo dal mondo reale, ed entrando in quello cupo e fasullo della caverna, credono di realizzare un guadagno, una promozione, un’ascesa socio-economica. Si tratta ovviamente di poveretti, disgraziati prima di tutto mentali.



Platone procede  raccontando che se uno di questi schiavi venisse sciolto dalle catene, e fosse costretto a muovere il collo, ad alzarsi, a uscire  dal buio della caverna, in un primo tempo rilutterebbe, confuso e abbagliato , ma un poco alla volta  abituerebbe la vista a vedere prima gli oggetti artificiali, poi le cose reali, poi la stessa luce del sole. A questo punto si riterrebbe felice per il cambiamento e proverebbe compassione per quelli rimasti dentro, i disgraziati schiavi che conferivano encomi e onori a chi distingueva più acutamente gli oggetti trascorrenti, ricordava in ordine la serie dei precedenti o era più bravo a indovinare i successivi.

Non sembra che Platone alluda profeticamente a certe trasmissioni televisive? Trasmissioni nemiche dell’umanità. Hanno compiuto un “genocidio culturale”, come denunciava Pasolini che è stato ammazzato.



Se il prigioniero liberato, continua il filosofo ateniese, tornasse nella caverna e ricominciasse a gareggiare con gli altri a proposito delle ombre, gli incatenati lo deriderebbero dicendogli che ha la vista rovinata, e ammazzerebbero chi cercasse di sciogliere anche loro.



Nel film di Garrone il protagonista è Luciano, un uomo con un  una moglie che gli vuole bene, dei figli, e una piccola pescheria di sua proprietà dove lavora con un collaboratore amico. Fa una vita  modesta ma abbastanza dignitosa, a parte qualche piccolo imbroglio, e, soprattutto, vive la vita sua. Sedotto dalla prospettiva dell'ingresso nella tana spiata e teletrasmessa a tutte le ore, perde la propria identità. Spera di trovarne una superiore partecipando a quella trasmissione di vite falsificate.

Sogna di ricavarne visibilità delle sue doti, e successo. Anche se ottenesse questo scopo, correrebbe il rischio di perdere l'identità che è il bene più prezioso di ciascuno di noi. Il successo infatti, ha scritto Pasolini, è " una vita mistificata dagli altri, che torna mistificata a te, e finisce col trasformarti veramente". Ma l'agognato ingresso nel covo del grande fratello, a Luciano non riesce, e siccome aveva puntato tutto su quella via sbagliata di elevazione, diventa pazzo e manda tutto in rovina. Il film si conclude con la follia del disgraziato che è riuscito a intrufolarsi di soppiatto in quell'ambiente artificiale e, dopo avere spiato gli attori prescelti, si stende su un giaciglio plastificato e tra prolungate risa dementi guarda verso un buco o una trasparenza del soffitto filmato dall'alto dalla macchina da presa che si allontana da quel carcere cieco, una tomba per persone morte spiritualmente.

L'attore, Aniello Arena, è un ergastolano che di prigioni se ne intende. E' molto bravo e con il proprio percorso può incarnare la catarsi operata dalla tragedia.

Il tema, già trattato, con tutt' altro finale, nel film Truman Show, è ancora  attuale. Il motivo di fondo di tali pellicole è la denuncia dell'adulterazione, corruzione e peste morale che queste trasmissioni possono attaccare ai caratteri deboli, alle teste già intronate e confuse dalle menzogne pubblicitarie, alle menti che non hanno la difesa della cultura, della tradizione, del buon gusto. La scuola dovrebbe costituire un antidoto a certe porcherie. Ma succede il contrario: cioè che sono tali porcate a inghiottire la scuola.

Racconto in breve un episodio che mi riguarda. Me ne scuso, ma lo faccio perché concerne l'argomento assai da vicino.

Questa primavera venni contattato da un produttore il quale intendeva dare vita a un reality dove si doveva mostrare una classe di ragazzi che, respinti o allontanatisi dalla scuola statale, vengono preparati all'esame di maturità. Ero curioso e attirato, non dalla rinomanza che poteva derivarmi dal partecipare a questo progetto, ché anzi rischiavo di ricavarne piuttosto una certa infamia, almeno nell'ambiente accademico, ma ero spinto dall'idea di rendere fruibili a un pubblico vasto i miei decenni di studio, mettendo a disposizione di una trasmissione televisiva  le lezioni e le conferenze che da alcuni anni vado facendo in giro per l'Italia. Pensavo di poter contribuire a raffinare il reality. Ero stato segnalato da un regista bravo che aveva apprezzato la mia preparazione nelle lettere classiche. Andai dunque a Roma per  esporre una introduzione a  Ovidio, un autore che come maestro del gioco amoroso, poteva attirare allo studio del latino anche dei giovani non molto abituati allo studio.  Poco dopo l'esordio, venni interrotto perché, mi dissero, ero bravo, ma usavo un linguaggio troppo difficile. Tornai a Bologna pensando che non ero adatto all'ambiente né l'ambiente si confaceva a me.

Senza dispiacere né rancore. Anzi, una collega e amica mi scrisse che la sua stima di me era aumentata in seguito a quel risultato.

Pensai che comunque, anche senza di me, potevano fare una trasmissione utile a dei ragazzi poco studiosi.  Ora leggo però un articolo del quotidiano il Fatto che mi induce a cambiare idea e a congratularmi per non essere stato preso come docente. Il pezzo, del 5 ottobre, è firmato da Malcom Pagani. Ne riporto alcune frasi: "Quanta gente che vi ingiuria, quanta gente che vi attacca, solo perché non vi piace la patacca". Ovazione…Il dottor Checco Zalone "diplomato in cazzatologia" e laureato in giurisprudenza conosce l'inalienabile diritto all'ironia". Questo, nelle previsioni degli autori dovrebbe piacere più del mio poeta di Sulmona, il mulierosus Ovidio.

E, probabilmente, anche questo: "Edoardo Camurri, docente di Storia e Filosofia che racconta la Critica della Ragion Pura come un giallo, traveste Kant da Durrenmatt, organizza partite di calcio tra Grecia e Germania in cui si sfidano Platone e Goethe, e in palio, mette un libro".

Non credo che gli studenti scesi in piazza a protestare in questi giorni a Roma, a Torino, a Milano, a Venezia chiedano questo. Comunque insegnare in quel reality non si addice a me. Il produttore ha visto giusto escludendomi e risparmiandomi.

Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it

Ifigenia CXXXVIII Pensieri pomeridiani del 30 luglio 1979.

  Questi pensieri provocavano nuove emozioni dalle quali nascevano riflessioni nuove. E così via per tutto quel pomeriggio remoto con il v...