giovedì 31 marzo 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte II

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo ruba il fuoco

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Non mancano del resto espressioni di simpatia indirizzate al Titano ribelle.
Vediamone alcune:
Nel dialogo Prometeo o il Caucaso di Luciano (125 - 185 d. C.) il Titano si difende davanti a Ermes. Dice che il suo furto fa parte degli scherzi che rallegrano i simposi i quali altrimenti sono gravati da ubriachezza, sazietà, silenzio. Lo sdegno di Zeus mostra molta piccineria e volgarità di sentimenti. Prometeo rivendica il merito di avere plasmato gli uomini che abbelliscono la terra e onorano gli dèi. Delle donne, parimenti fatte da Prometeo, gli dèi si innamorano e per incontrarle scendono sulla terra trasformati in tori, cigni, satiri. Il fuoco poi è usato per i sacrifici agli dèi.

Il Goethe stürmeriano rappresenta Prometeo che dice: "Io non conosco al mondo/nulla di più meschino di voi, o dèi/…Io renderti onore? E perché?/Hai mai lenito i dolori/di me ch'ero afflitto?/
Hai mai calmato le lacrime/di me ch'ero in angoscia?/…Io sto qui e creo uomini/a mia immagine e somiglianza,/una stirpe simile a me,/fatta per soffrire e per piangere,/per godere e gioire/e non curarsi di te,/come me!"[1].

Settembrini, il letterato illuminista di La Montagna Incantata [2] di Thomas Mann, esalta la figura di Prometeo come l'archetipo dell'umanista:"Che cos'era però in fondo l'umanesimo? Nient'altro che amore verso gli uomini, quindi: politica e ribellione contro tutto ciò che macchiava e offendeva l'idea dell'uomo. Gli si era rimproverato un eccessivo rispetto della forma, ma anche la bella forma era da lui curata per amore della dignità umana, in splendido contrasto col medioevo che non solo era caduto nell'abisso della inimicizia verso gli uomini e nella superstizione, ma nella più vergognosa trascuratezza di forma. Fin dal principio egli aveva parteggiato e combattuto per la causa dell'umanità, per i suoi interessi terreni, proclamando sacra la libertà di pensiero, la gioia della vita, e pretendendo che il cielo fosse lasciato agli uccelli. Prometeo! Quello era stato il primo umanista, identico a quel Satana cui Carducci aveva dedicato un inno" (p.176 I vol.).
Più avanti Settembrini santifica anche l’ u{bri~ di Prometeo in quanto amica dell'umanità e favorevole alla ragione:"Ma l'"Hybris" della ragione contro le oscure potenze è altissima umanità, e se chiama su di sé la vendetta di dèi invidiosi...questa è sempre una rovina onorata. Anche l'azione di Prometeo era "Hybris" e il suo tormento sulla roccia scita noi lo consideriamo il martirio più santo. Ma come siamo invece di fronte all'altra "Hybris", a quella contraria alla ragione, all'"Hybris" della inimicizia contro la schiatta umana?".
Il percorso contiene anche un’analisi particolareggiata dei versi cruciali del dramma di Eschilo che si conclude con una tempesta, correlativo oggettivo dell’anima sconvolta di Prometeo il quale viene inabissato nel caos che aveva cercato di ripristinare contro l’ordine olimpico stabilito da Zeus.
Fine sintesi

Prometeo: il falso benefattore tecnologico.

Nella Teogonia, Esiodo racconta che Zeus si era sdegnato poiché Prometeo[3] aveva cercato di ingannarlo due volte: la prima dividendo tra gli uomini e gli dèi un bue di notevole mole in maniera iniqua; la seconda restituendo agli uomini il fuoco che il dio supremo aveva tolto agli uomini, per rappresaglia nei confronti della benevolenza di Prometeo. Allora Zeus, in cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( " aujti;ka d j ajnti; puro;" teu'xen kako;n ajnqrwvpoisi ", v. 570). Questo male fu plasmato da Efesto con la terra: era simile ad una vereconda fanciulla che Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona d'oro dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili, quanti ne nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse, le tigri e le scille in cui vengono trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque questa creatura divenne uno splendido malanno ("kalo;n kakovn", v. 585) per gli uomini, un inganno scosceso (" dovlon aijpuvn", v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il "popolo nemico"[4] da cui derivano a quello dei maschi malanno e sciagura ("ph'ma", v.592).
Nelle Opere e giorni Esiodo torna sul mito di Prometeo e di Pandora: Zeus, sdegnato per l’inganno di Prometeo, dai tortuosi pensieri, versò sugli uomini lacrimevoli affanni e nascose il fuoco (kruvye de; pu'r[5], v. 50), poi, siccome il figlio di Giapeto lo rubò di nuovo celandolo ejn koivlw/ navrqhki (v. 52), in una verga cava, l’adunatore di nembi, adirato, aggiunse un’altra sciagura e disse
“Figlio di Giapeto, che più di tutti conosci pensieri maliziosi,
tu gioisci di avere rubato il fuoco e di avere ingannato il mio volere,
grande sciagura per te e per gli uomini futuri.
io a quelli in cambio del fuoco darò un malanno, del quale tutti
 godano nella foga della passione, circondando di affetto il proprio malanno”.
Così disse; poi scoppiò a ridere il padre degli uomini e degli dèi.
E comandò all’inclito Efesto di mescolare al più presto
terra con acqua, e di metterci voce e vigore
di essere umano, e di renderla simile alle dèe immortali nell’aspetto:
un bella, amabile, forma di ragazza; poi ad Atena
ordinò di insegnarle le opere: a tessere la tela lavorata con arte;
e all’aurea Afrodite di versare la grazia attorno al suo capo
e il desiderio doloroso e gli affanni che divorano le membra;
e inoltre ordinava a Ermes il messaggero Argifonte
 di metterci dentro una mente di cagna e un carattere scaltro (Opere, vv. 54 - 68).

Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi:"pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo.
"Questo sapere è sempre una conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso degli antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato, alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità… il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica"[6].
“La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l’età pre - tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici”[7].
Sono andato a caccia - racconta il Titano - della sorgente rubata del fuoco (phgh;n klopaivan) da mettere nel cavo di una canna, "h} didavskalo" tevcnh" pavsh" brotoi'" pevfhne kai; mevga" povro" (vv. 109 - 111), ed essa, la phghv, si è rivelata maestra e grande mezzo di ogni tecnica per tutti i mortali.
Prometeo però deve riconoscere: ho infuso in loro[8] cieche speranze ("tufla;" ejn aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa", v.250).
 Egli è divinità solo apparentemente benefica in quanto portatore di conoscenze pratiche fuorvianti:" qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di prevedere il destino"(v.248).
Prometeo ha reso ciechi gli uomini riguardo al futuro.
"Wilamowitz ne ha tratto la conclusione (Aisch. Interpr. , p. 149) che Eschilo abbia accostato, senza coordinarli, due differenti miti di Prometeo, uno dell'amico degli uomini, l'altro del demone cattivo"[9].
Prometeo dunque potrebbe essere una figura ambigua o polivalente, come altre del mito: Eracle p. e., o Saturno o Dioniso..
Snell invece sostiene che "Prometeo ha suddiviso il suo dare e il suo togliere in modo che gli uomini non avessero problemi. Essi potevano raggiungere la conoscenza delle tevcnai, e ciò dava loro la soddisfazione del lavoro quotidiano; ma invece della conoscenza del proprio destino e della propria morte, radicò in loro le "cieche speranze" come un grande "vantaggio" [10].
La cecità come vantaggio è affermata dall’ Edipo di Sofocle (Edipo re, vv. 1334 - 1335) e da un personaggio di Pirandello nella novella Va bene.
In effetti il coro delle Oceanine commenta le cieche speranze affermando:"meg j wjfevlhma tou't j ejdwrhvsw brotoi'"" (v. 251), hai donato ai mortali questo grande vantaggio.
Con analoga intenzione il Titano dirà più tardi a Io che è meglio per lei non apprendere il futuro:" to; mh; maqei'n soi krei'sson h] maqei'n tavde", v. 624.
Non sempre sapere è bene.
 Tale è la convizione di Tiresia nell' Edipo re:"Ahi,ahi, sapere come è terribile ( fronei'n wJ" deinovn) quando non giova/ a chi sa! Queste cose infatti, pur sapendole bene io/le ho distrutte; ché altrimenti non sarei venuto qua (vv. 316 - 318).
Sapere è una delle cose inquietanti (ta; deinav)[11].
La "cognizione del vero" afferma Leopardi" non sarà mai sorgente di felicità, né oggi; né era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine…" (Zibaldone, 679).
 Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij, un "racconto fantastico" del 1877, è un sogno dell'età dell'oro che smonta il sapere e la scienza con i quali gli uomini prostrano e inaridiscono la vita.
Gli uomini di quell'età "non ambivano a nulla, ma erano sereni, non aspiravano alla conoscenza della vita così come vi aspiriamo noi, perché la loro vita era totale. Il loro sapere era più profondo e più alto della nostra scienza, dal momento che la nostra scienza tenta di spiegare cos'è la vita…essi erano in grado di vivere anche senza la scienza…essi parlavano con gli alberi…Guardavano così tutta la natura che li circondava e gli animali, i quali vivevano con loro pacificamente, senza aggredirli, poiché li amavano, sopraffatti dal loro stesso amore".

Prometeo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514): “tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr. a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit”( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.
Avanzando nella Sogdiana Alessandro si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).


continua




[1] Vv. 13 - 14, 38 - 42, 52 - 58 dell'Inno Prometeo del 1774 (l'anno del Werther) trad. it. di G. Baioni
[2] Der Zauberberg, Del 1924.
[3] Quello di Prometeo è "uno dei miti antropologici...che rendono ragione della condizione umana - condizione ambigua, piena di contrasti, in cui gli elementi positivi sono inscindibili da quelli negativi e ogni luce ha la sua ombra, giacché la felicità implica l'infelicità, l'abbondanza il duro lavoro, la nascita la morte, l'uomo la donna, e l'intelligenza e il sapere si uniscono, nei mortali, alla stupidità e all'imprevidenza. Questo tipo di discorso mitico sembra obbedire a una logica che si potrebbe definire, in contrasto con la logica dell'identità, come la logica dell'ambiguità, dell'opposizione complementare, dell'oscillazione tra poli contrastanti"(J. P. Vernant, Tra mito e politica,pp. 30 - 31.
[4]Cfr. C. Pavese:"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre, 1946.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica I, 131: ignemque removit.
[6] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 121.
[7] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p. 21. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.
[8] Negli uomini.
[9] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 122.
[10] B. Snell, op e p. citate sopra.
[11] Cfr. Antigone, vv. 332 - 333.

mercoledì 30 marzo 2016

Callimaco. Parte IV

Emile (Jean Baptiste Philippe) Bin
The Hamadryad, 1870
Resta da dire qualche cosa su gli Inni. 
Sono sei, cinque in esametri e uno, I lavacri di Pallade , il quinto, in distici elegiaci.
I più interessanti sono il sesto, A Demetra , e il terzo, Ad Artemide . In questo il poeta rappresenta la dea bambina che vezzeggia Zeus, mostrando un'altra predilezione dell'arte ellenistica: quella per il mondo infantile in quanto portatore di grazia e di primitività. La piccola sta seduta sulle ginocchia del padre e gli fa:

"Concedimi, papà, di conservare la verginità per sempre,
e di avere molti nomi, perché Febo non venga a gara con me
concedimi frecce e archi, su padre, non ti chiedo una faretra
né un grande arco; per me i Ciclopi subito
fabbricheranno le frecce, per me una cintura flessibile;
ma ti chiedo di cingermi di luce e di una tunica fino al
ginocchio, orlata, per uccidere animali selvatici.
Concedimi sessanta danzatrici oceanine,
tutte di nove anni, tutte ancora bambine senza cintura.
Dammi come ancelle venti ninfe del fiume Amnìso... (vv. 6-15)

Da questi versi si vede un Olimpo non più apollineo, teso a rovesciare il mondo dei Titani e a cosmizzare il caos, ma simile al mondo borghese dove la bambina chiede giocattoli al padre o al nonno. Il mondo del mito che era stato già attualizzato da Eschilo viene imborghesito da Euripide che per primo  scandalizzò il pubblico. Ma al tempo cui siamo arrivati tale procedimento non costituiva più una novità e Callimaco cerca di raggiungere perspicuità ed eccellenza attraverso una forma egregia.

L'Inno VI, A Demetra,  narra la punizione di Erisittone che aveva oltraggiato la dea tagliando alberi a lei sacri. Questa lo punì con la bulimia, la fame del bue. Il disgraziato mangiava tutto: pecore, cavalli, compreso quello allevato per la corsa, la mucca di casa e perfino "la gatta che i topi piccini temevano"(v. 110). Si vede che la storia tragica, e molto attuale poiché non pochi sono quelli che riempiono un vuoto mangiando troppo, prende quella connotazione ironica e graziosa che costituisce l'usuale sigillo callimacheo.

fine

giovanni ghiselli

martedì 29 marzo 2016

Callimaco. Parte III

Cirene

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Abbiamo visto che Callimaco, autore di un'arte ironica e allusiva, imita molto, con un'imitazione del resto sempre evidenziata: "non ut lateat imitatio, sed ut pateat ", non perché rimanga nascosta l'imitazione, ma perché sia evidente, e significhi amore e fede, se non altro, per la tradizione letteraria.
D'altra parte il poeta di Cirene è stato anche oggetto di ammirazione  imitazione e traduzione: da Catullo, al Pope di Il ricciolo rapito (1712), al Foscolo che volgarizza la versione latina del La chioma di Berenice .

La vicenda del ricciolo sparito era la conclusione degli Aitia : Callimaco, con grazioso omaggio cortigianesco e raffinata perizia letteraria, canta l'assunzione in cielo della ciocca di capelli offerta da Berenice  perché suo marito, Tolomeo III Evergete, tornasse salvo e vittorioso da una spedizione militare contro Seleuco II di Siria (anno 246). Già l'astronomo di corte Conone aveva riconosciuto il ricciolo sparito dal tempio di Arsinoe Zefirite in una nuova costellazione da lui scoperta tra l'Orsa maggiore e la Vergine; ebbene il poeta diede il proprio contributo all'apoteosi della chioma regale con i distici che fanno parlare gli stessi capelli "incielati". Il testo è troppo mutilo per consentirci una traduzione letterale; i versi più chiari e interessanti sono quelli con i quali  il ricciolo ricorda la potenza ineluttabile del ferro che scavò il monte Athos per consentire il passaggio delle navi di Serse, quindi lamenta la crudeltà di questo metallo trovato dalla stirpe maledetta dei Calibi[1], in quanto l'ha  staccato dal capo augusto della regina la cui lontananza è dolorosa più di quanto sia motivo di piacere e di orgoglio trovarsi tra gli astri.
Anche Catullo nel carme 66 fa parlare la capigliatura (caesaries ) con note di rimpianto: "invita, o regina, tuo de vertice cessi ,/invita ", contro voglia o regina mi sono allontanata dal tuo capo, contro voglia, le fa dire, con un verso (39) che verrà in gran parte utilizzato anche da Virgilio (Eneide , VI, 460) a proposito della partenza quasi coatta di Enea dal lido cartaginese:"invitus, regina, tuo de litore cessi ", contro voglia o regina mi allontanai dalla tua costa. Così tenta di giustificarsi il pio eroe con l'ombra dell'amante ammazzatasi dopo la fuga delle navi troiane. Come si vede parole quasi identiche servono per un'adulazione cortigiana e per un estremo, accorato addio all'ombra di una persona morta.
Per quanto riguarda la forza  non resistibile del ferro che scava canali tra i monti, Catullo scrive (66, vv.45-47):
"cum Medi peperere novum mare, cumque iuventus
per medium classi barbara navit Athon.
Quid facient crines, cum ferro talia cedant? ",
 quando i Persiani crearono un nuovo mare, e quando la gioventù barbarica navigò con la flotta in mezzo all'Athos. Cosa possono fare i capelli, quando tali monti cedono al ferro?
 Il poeta latino inserisce dieci versi (79-88) che esaltano la fedeltà della sposa e biasimano l'adulterio: la chioma della regina bella e casta non accetta i doni votivi portati da mogli infedeli:
"namque ego ab indignis praemia nulla peto "(v.86), infatti dalle indegne io non desidero offerte.
Sappiamo quanto a Catullo stesse a cuore la fides di Lesbia e come solo nell'imminenza della propria morte poté rinunciarvi
"non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum "(76, 23-26):, non chiedo più quella grazia famosa, che quella là contraccambi il mio affetto,o (cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica; io desidero stare bene e mettere via questo male oscuro.
Callimaco trattò vari generi letterari e per questo venne accusato dai detrattori.
 Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides  (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).
Il sapere che non è sapienza è un celebre verso delle Baccanti :"to; sofo;n d&ouj sofiva"(395).
E immediatamente dopo, per variare la serietà dell'argomento con una nota tragicomica, ricorda che all'alba stava stringendosi il cuore ai buoi del sacrificio che vedevano i coltelli riflessi nell'acqua.
Se la poluidreivh , il molto sapere, può essere un male, la polueivdeia, la varietà nell'uso dei generi letterari praticata dal poeta viene difesa nell'ultimo Giambo , il tredicesimo,  con l'osservazione che nessuno biasima l'artefice se fa vasi di molte specie. Il Giambo più noto però è il quarto, quello chiamato "dell'ulivo e dell'alloro", dove i due alberi si cimentano in una contesa che vede prevalere l'utilità e l'umiltà del primo sulla pretenziosità del secondo il quale viene ridicolizzata dall'ironia del poeta.
L’alloro (davfnh) rivendica la sua sacra presenza a Delfi, in quanto albero amato da Apollo. Spregia l’olivo la cui foglie hanno un lato bianco wJ~ udrou gasthvr, come ventre di biscia (IV, 22) e uno arso dal sole (hJlioplhvx).

Cfr. Giacomo Zanella (1820-1888) Alloro-Vite
Odio l’allor, che quando alla foresta
Le nuovissime fronde invola il verno,
avviluppato nell’intatta vesta
verdeggia eterno,
pompa de’ colli; ma la sua verzura
gioia non reca all’augellin digiuno;
ché la splendida bacca invan matura
non coglie alcuno.
Te, poverella vite, amo, che quando
Fiedon le nevi i prossimi arboscelli,
tenera l’altrui duol commiserando
sciogli i capelli.
Tu piangi, derelitta, a capo chino
Sulla ventosa balza. In chiuso loco
Gaio frattanto il vecchierel vicino
Si asside al foco,
Tien colmo il nappo: il tuo licor gli cade
Nell’ondeggiar del cubito sul mento;
poscia floridi paschi ed auree biade
sogna contento”.

I Giambi di Callimaco  non presentano la consueta aggressività del metro e possono essere ascritti al nuovo genere spoudogevloion, seriocomico, del quale troviamo già un esempio nell'Alcesti  di Euripide.
Indubbiamente a Callimaco l'argomento e il genere letterario interessano meno della forma che deve dare una giustificazione estetica a qualsiasi contenuto. Questo infatti può essere di ambientazione cortigiana come abbiamo visto, ma anche semplice e umile  quale troviamo nell'epillio in esametri Ecale  dove si racconta come Teseo, la notte prima della lotta contro il toro di Maratona venne ospitato dalla vecchina Ecale in una casetta rustica con cibo campagnolo. Il quadretto agreste, un poco di maniera, viene rifinito in tutti i particolari. Anche questo epillio  includeva  un aition (origine), in quanto Teseo al ritorno dallo scontro con il toro  trovava la vecchietta morta e istituiva in suo onore le Ecalesie, gare di corsa, poi fondava il santuario di Zeus Ecalio.
Un'imitazione di questo poemetto si trova nell'episodio di Filemone e Bauci delle Metamorfosi  di Ovidio (VIII, 625-723).
Leopardi utilizza un’espressione dell’Ecale (fr. 74, 26-27): a[xwn-tetrigw;~ uJp j a[maxan (l’asse che stride sotto ei carro-e sveglia chi abita sulla strada) in La quiete dopo la tempesta: “il carro stride-del passeggier che il suo cammin ripiglia” (23-24)

Un'anticipazione dell’ interesse per la vita degli anziani umili si trova nell'Ifigenia in Aulide  di Euripide (del 405) quando il grande capo Agamennone dice a un vecchio servitore: "Ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini chi passa/una vita senza pericoli, ignoto, oscuro;/quelli che vivono tra gli onori li invidio meno"(vv. 17-19). Questi versi, pur poco curati formalmente, prefigurano già il "vivi appartato" di Epicuro e in generale  il disimpegno politico dell'intellettuale nella civiltà ellenistica.
Del resto l'invidia del potente per l'umile si ritrova parecchi secoli più tardi in  Guerra e Pace (p. 577):"-Discutiamo pure-, disse il principe Andrej.-Tu parli di scuole-, continuò, e piegava un dito.-Parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui,-disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto-, dalla sua condizione d'animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l'unica felicità possibile sia la felicità animale...Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me...".



continua 


[1] Cfr. la maledizione del ferro fatta da Erodoto (I, 68, 4): il ferro è stato inventato per il male dell'uomo :" ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai".

lunedì 28 marzo 2016

Callimaco. Parte II

esempio di epigramma

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Alla brevità deve accompagnarsi la rarità dell'argomento. E' il topos della strada impervia e poco battuta come la migliore. Esso risale a Esiodo il quale nelle Opere (v. 289-292) avverte che"gli dei immortali davanti al valore hanno posto il sudore: lungo e ripido è il sentiero che vi porta, e scosceso all'inizio; ma quando uno sia giunto alla cima, poi tutto diventa facile, sebbene faticoso".
Si vede dunque la connessione con la poesia esiodea.
Sulla fatica e il sudore che costa scrivere bene interviene specificamente Leopardi nell'Operetta morale Il Parini ovvero della gloria :"quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera egregia e perfetta".
Un'arte allusiva quella di Callimaco che non trovò l'approvazione del Winckelmann: "Omero ci dà un'immagine più eccelsa quando ci fa vedere gli dèi alzarsi dai loro seggi al comparire di Apollo, che quella che ci dà Callimaco con tutto il suo canto pieno di erudizione"(Il bello nell'arte , p. 57).

In un famoso epigramma (A. P. XII, 43) Callimaco ribadisce questa concezione non popolare dell'arte:
"Odio il poema ciclico, né mi piace
la via qualunque che porta molti qua e là.
Detesto anche l'amante che vaga, né bevo
dalla fonte comune: tutto quanto è popolare mi ripugna.
Lisania, tu bello sì sei bello, ma prima che lo ripeta
con chiarezza l'eco, uno dice-altri lo possiede-".
Una dichiarazione di poetica che viene ripresa dai latini: oltre Catullo, Lucrezio il quale nel primo libro del De rerum natura (I, 926-928) scrive:
"avia Pieridum peragro loca nullius ante
trita solo. Iuvat integros accedere fontis
atque haurire, iuvatque novos decerpere flores ", percorro i luoghi impervi delle muse mai calpestati prima dal piede di alcuno. Mi piace avvicinarmi alle fonti intatte e attingere, mi piace cogliere fiori nuovi.
Virgilio nella Georgica III  (291-292) scrive:
"sed me Parnasi deserta per ardua dulcis/raptat amor ", ma un dolce amore mi rapisce attraverso le aspre solitudini del Parnaso.

Gli epigrammi sono componimenti nati come iscrizioni tombali, scritti di solito in distici  elegiaci, di estensione limitata, di argomento vario, poesia d'occasione quant'altra mai. Il numero maggiore di epigrammi letterari greci e bizantini (circa 3700, di 340 poeti vissuti in quindici secoli, dal V a. C.) si trova nella Antologia Palatina , messa insieme alla fine del X secolo secolo da un anonimo revisore della raccolta fatta un secolo prima da Costantino Cefala, alto prelato di Bisanzio. Viene chiamata così siccome il manoscritto fu trovato (agli inizi del '600 ) nella Biblioteca Palatina di Heidelberg. L'opera monumentale, composta di 3700 epigrammi, è divisa in quindici libri che raggruppano le composizioni a seconda degli argomenti e dei metri. Gli autori vanno dal V secolo a.c. al X d. C.
  Gli epigrammi di Callimaco ivi contenuti sono 54. Quelli amorosi si trovano nei libri V (epigrammi erotici) e XII (pederotici). Nel VII ci sono i funebri.
L’Antologia Planudea composta dal monaco Massimo Planude è del 1300 e contiene 2400 epigrammi, 388 dei quali non si trovano nella Palatina. Nelle edizioni moderne le vengono aggiunti come XVI libro chiamato Appendix Planudea.
 Vediamone un altro (XII, 102):
 "Il cacciatore, o Epidice, su per i monti segue le tracce
di ogni lepre e le orme di ogni cerbiatta
contento di camminare anche sulla nevicata. E se qualcuno dicesse:
-tieni questa bestia colpita-, non la prenderebbe.
 Anche il mio amore è tale: infatti sa inseguire le prede
 che fuggono, ma quelle che gli giacciono davanti, le lascia lì".

E’ proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce a Ovidio (in un componimento degli Amores  tutto impegnato a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor  (2, 20, 36)"[1], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.

 Qui troviamo l'eterna lotta tra i sessi intrecciata con la contraddizione tra il volere e l'avere. Il poeta ama l'amore, anzi  la ricerca amorosa, non una persona.  Il nostro Gozzano a  questo tema aggiunge:"Non amo che le rose/che non colsi"(Cocotte , 68-69).

Un altro epigramma pederotico (XII, 134) serve a illustrare la distanza messa dal poeta tra sé e il sentimento:
"L'ospite cercava di tenere nascosta la piaga: hai visto
che doloroso sospiro gli venne fuori dal petto,
quando beveva la terza coppa? Le rose piene di foglie dalla corona in testa all'uomo erano finite tutte per terra:
certo è cotto assai: per gli dei non senza ragione
lo congetturo: io ladro ho riconosciuto le impronte del ladro".
 Snell (op. cit., p. 379) sostiene che Callimaco attraverso "questa forma indiretta ha evitato l'espressione patetica "io amo"; perciò "la confessione ne risulta ironicamente spezzata, e sembra che la dichiarazione d'amore gli sia sfuggita per caso".

Un altro epigramma del XII libro dell'antologia Palatina ci dà l'immagine dell'anima dicotomizzata dall'amore:
"Metà dell'anima ancora respira, metà non so
se Eros o Ade me l'ha rapita, so che non si vede.
Certo è fuggita di nuovo da uno dei fanciulli. Eppure ammonii
spesso:"non accogliete la fuggitiva, ragazzi".
 Là qualcuno mi aiuti a cercarla: là infatti quella
degna di lapidazione
 e sofferente d'amore, so che da qualche parte si aggira".
Se l'amore felice, come racconta il personaggio l'Aristofane del Simposio  platonico, è riunificazione di due metà un tempo divise, quello infelice è ulteriore sdoppiamento, sembra dire questa poesia che, pure se nasce da stanchezza postfilosofica, ha comunque appreso la lezione della filosofia. E' un segno dell'originalità mantenuta da Callimaco mentre possiede e maneggia la tradizione.
 Un epigramma erotico (V, 23)  costituisce un esempio di "lamento davanti alla porta chiusa" con il topos  dell'invecchiamento della donna crudele che tosto, eppure troppo tardi, rimpiangerà l'occasione offertale dal maschio innamorato:
"Possa tu, Conopio, dormire, come hai
steso me, presso questa porta gelata;
così possa dormire tu, improbissima, come mandi a letto
l'innamorato: della pietà non hai incontrato neppure il sogno. I vicini hanno pietà; tu neppure per sogno. Ma la chioma
canuta ti farà ricordare tutte queste cose, presto".

E' l'eterna consolazione, e  illusione, dell'uomo respinto: Properzio che deriva da Callimaco attraverso Catullo, in nel terzo libro delle Elegie (25, 11-14) ammonisce Cinzia che lo ha schiavizzato e reso ridicolo per cinque anni:
"At te celatis aetas gravis urgeat annis,
et veniat formae ruga sinistra tuae.
Vellere tum cupias albos a stirpe capillos
ah speculo rugas increpitante tibi ", ma l'età pesante incalzi in fretta gli anni tenuti nascosti, e arrivi la ruga sinistra sul tuo aspetto bello.
 Allora possa tu desiderare di strappare dalla radice i capelli bianchi, quando lo specchio, ahi, ti rinfaccerà le rughe.
 Properzio nel IV libro delle sue Elegie non canterà più l'amore per Cinzia ma continuerà a seguire il maestro degli Aitia , tanto da chiamarsi il Callimaco romano (IV, 1, 64) nel cantare i sacri riti e gli antichi nomi dei luoghi:"sacra diesque canam et cognomina prisca locorum "(IV, 1, 69).
Chiudiamo la parte degli epigrammi callimachei con un paio di iscrizioni funerarie.
La prima è per l'amico Eraclito (VII, 80):"Qualcuno mi disse, Eraclito, della tua morte, e mi spinse
alle lacrime, e mi venne in mente quante volte noi due
mettemmo a letto il sole; ma tu ora, ospite
di Alicarnasso, da gran tempo sei cenere in qualche luogo;
però vivono i tuoi canti di usignolo, sui quali Ades
che tutto rapina non getterà le mani".

Il motivo del "non tutto morrò" con il quale Orazio esalta se stesso ("non omnis moriar ", III, 30, 6) tanto che Huysmans lo mette nella lista nera di Des Esseintes[2], è impiegato da Callimaco per celebrare l'amico morto e la  poesia che invece non morrà.



continua



[1]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore , p. 43.
[2] il quale provava:"una sconfinata avversione per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettio di questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato"(Controcorrente , p.43)

domenica 27 marzo 2016

Twitter, CCXX antologia. A Paolo Poli con affetto


Pasqua 2016. A Paolo Poli con affetto


Domanda al buon Mattarella: se soltanto le donne sono il volto dell'Italia, gli uomini, gay e no, sono forse l'ano? Mi chiarisca presidente

Ogni giorno per per me è la festa della donna. Anche oggi che è Pasqua Eppure la legge di gravitazione spirituale mi catapulta lontano dalla Pinotti.  Non posso  proprio festeggiarla.

Ricordo invece con affetto Paolo Poli. Ammiravo e amavo la sua intelligenza e la sua indipendenza che lo distingueva dal gregge dei servi. Diversi anni fa, in un aprile nevoso, qui a Bologna, mi concesse una lunga intervista per una radio. Ho imparato più in quella mezz’ora da lui che in parecchi giorni di studio.

I servizi segreti belgi fanno come i pugili che mettono le mani sulla botta dopo che l'hanno ricevuta

Gli dèi di ciascun popolo non sono essenzialmente diversi: cambiano solo i nomi, come quelli di Elio e della Luna

Il terrorismo si può vincere bloccando i criminali prima, poi con l'educazione. Chi suscita odio contro i mussulmani, alimenta la paura e  il terrorismo


giovanni ghiselli

sabato 26 marzo 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte I

Jean-Louis-César Lair, Il supplizio di Prometeo

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Il Prometeo incatenato sintesi

Il mito di Prometeo è "uno dei miti antropologici...che rendono ragione della condizione umana - condizione ambigua, piena di contrasti, in cui gli elementi positivi sono inscindibili da quelli negativi e ogni luce ha la sua ombra, giacché la felicità implica l'infelicità, l'abbondanza il duro lavoro, la nascita la morte, l'uomo la donna, e l'intelligenza e il sapere si uniscono, nei mortali, alla stupidità e all'imprevidenza. Questo tipo di discorso mitico sembra obbedire a una logica che si potrebbe definire, in contrasto con la logica dell'identità, come la logica dell'ambiguità, dell'opposizione complementare, dell'oscillazione tra poli contrastanti"(J. P. Vernant, Tra mito e politica,pp. 30 - 31).
Siamo partiti dal Prometeo rappresentato nei poemi di Esiodo.
Nella Teogonia il poeta racconta che Prometeo aveva ingannato due volte Zeus il quale punì l’umanità infliggendole un male in cambio del fuoco donato dal Titano. Ma si vedrà che il fuoco stesso non è necessariamente un bene, è per lo meno un bene ambiguo quanto il suo donatore. Il male mandato da Zeus agli uomini, ai maschi, è la donna, un male del resto non assoluto, un “bel malanno”: una creatura attraente e ingannevole. Nelle Opere e i Giorni Esiodo torna sul tema di Prometeo e di Pandora, la donna bella e dannosa, mandata agli uomini per contrappesare il fuoco.
Procediamo con il Prometeo incatenato di Eschilo: in questa tragedia, da molti, ma non da tutti, considerata autentica, il Titano rivendica l’invenzione delle tecniche: “ tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo” (v. 507). Le tecniche però tendono a uno scopo pratico e non allargano la conoscenza del mondo: la tecnica “funziona” ma non svela la verità, come nota Galimberti[1]. Lo stesso Prometeo di Eschilo denuncia il limite teoretico delle tecniche: ammette di avere tolto agli uomini la capacità di prevedere il destino (v. 248) e riconosce di avere infuso in loro cieche speranze (v. 250). Bruno Snell sostiene che Prometeo considerava questi dare e togliere vantaggiosi per l’umanità[2].
Prometeo che toglie all’uomo la visione d’insieme del destino e dona loro le technai, ossia il pane e il companatico terrestre, agisce e pensa come il grande Inquisitore della leggenda di Ivan Karamazov il quale crede che l’umanità non ha bisogno di libertà e verità ma di beni materiali
Vediamo dunque i doni di Prometeo, ciascuno presupposto dal fuoco che è il padre di tutte le tecniche (Prometeo incatenato, v. 7).
Intanto il fuoco era “fiore di Efesto”, e il Titano, donandolo ai mortali, ha cercato di negare il principium individuationis che distingue gli uomini dagli dèi. Una negazione simile a quella tentata da Serse, quando unì le due sponde dell’Ellesponto e attaccò la Grecia per confondere insieme Europa e Asia. Prometeo ha cercato di confondere l’umano con il divino.
Il Titano si vanta di avere dato agli uomini il numero, la combinazione delle lettere, memoria di tutto (v. 461), di avere aggiogato gli animali selvatici, di avere inventato le navi, veicoli dalle ali di lino (v. 462), prefigurando addirittura il volo. Inoltre ha trovato i farmaci, ha scoperto i metalli: il bronzo, il ferro, l’argento e l’oro. Tutte queste scoperte vengono maledette più volte nel corso della letteratura europea.
Una esecrazione riassuntiva si trova nella Tebaide di Stazio:quando Eteocle e Polinice stanno per ammazzarsi a vicenda, la Pietas esecra le orribili tecniche di Prometeo: “o furor, o homines diraeque Prometheos artes!” (XI, 468).

Vediamo di smontare il valore dei benefici di Prometeo.
Ripartiamo dal fuoco che Prometeo rivendica come dono benefico e padre di tutte le tecniche :"pro;" toi'sde mevntoi pu'r ejgw; sfin w[pasaajf j ou| ge polla;" ejkmaqhvsontai tevcna"" (vv. 252 e v. 254), oltre a queste[3] io donai loro il fuoco…dal quale apprenderanno molte tecniche.

 Il fuoco come dono negativo.
Leopardi nello Zibaldone è molto critico verso la scoperta del fuoco:"Il fuoco è una di quelle materie, di quegli agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo.."(p. 3645).
Seneca nel De vita beata consiglia di seguire la natura come guida per essere felici:"Natura enim duce utendum est: hanc ratio observat, hanc consulit. Idem est ergo beate vivere et secundum naturam" (8, 1 - 2), dobbiamo infatti avvalerci della natura come guida: questa la ragione rispetta, questa consulta. Quindi vivere felici equivale a vivere secondo natura.

Del resto Prometeo fa storia e “la storia si fa sempre andando controcorrente rispetto alla natura”[4].
Il fuoco non è un bene, o, per lo meno, non è stato impiegato bene : nell’Operetta morale La scommessa di Prometeo[5] gli uomini usano il fuoco per uccidersi e uccidere, e Momo, il vincitore della scommessa, domanda al Titano: “Avresti tu pensato, quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?”.

Leopardi, con il fuoco, critica anche la navigazione avvalendosi di Orazio:"Orazio (I, Od . 3) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec., di quanto la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana.(Zibaldone , p. 3646).
La navigazione viene esecrata anche da Lucrezio (De rerum natura, V, 1004 - 1006), da Virgilio nella IV ecloga, da Properzio (I, 7, 13 - 14), da Ovidio (Metamorfosi, I, 96), e, per citare un moderno, da Tirso de Molina: nel dramma El burlador de Sevilla (1630) Catalinòn il servo di Don Juan il padre di tutti i Don Giovanni, in seguito a un naufragio, si salva dalla morte per acqua e, mentre porta in braccio il padrone semivivo, dice: “Maledetto chi per primo/ha piantato pini in mare/e con un fragile legno/ha sfidato le sue rotte!...Maledetto sia Giasone/ e maledetto anche Tifi!” (I, 11). Giasone e Tifi, con gli altri Argonauti, sono i primi grandi navigatori umani, ma l’inventore divino rimane Prometeo.
Comunque non pochi strali bersagliano i cercatori del vello d’oro che per prima solcarono i mari.
L’esecrazione più estesa del navigare infatti si trova nella Medea di Seneca che racconta i fatti successivi all’impresa degli Argonauti.
I profanatori del mare sono morti male, come Fetonte che ha cercato di violentare il cielo. Gli Argonauti hanno prima devastato i boschi del Pelio, poi hanno solcato il pelago, per impossessarsi dell'oro, ma : “ exigit poenas mare provocatum” (Medea, v. 616). Fa pagare il fio il mare provocato.
L'exitus dirus, la morte orribile, è l'espiazione della rottura dei sacrosancta foedera mundi, i sacrosanti patti del cosmo, turbato proprio dalla navigazione.
Insomma tutta la tecnica, e pure la scienza, separata dalla giustizia e dalle altre virtù, è piuttosto malizia (panourghìa) che sapienza (sofìa) (cfr. Platone, Menèsseno, 247).

Quindi il male del ferro.
Erodoto afferma senza giri di parole che è stato creato per il male dell’uomo (Storie, I, 68, 4).
Ovidio nel I libro delle Metamorfosi maledice tanto il ferro, strumento di guerra, quanto l’oro, cui mirano le brame di chi scatena le guerre.
Effondiuntur opes, inritamenta malorum; / iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma” (Metamorfosi, I, 140 - 143), si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto[6] e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano.
La scrittura viene denunciata come male da Platone nel mito di Theuth, una specie di Prometeo egiziano, cui il re dell’Egitto denuncia la negatività dell’invenzione dicendo: “ Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l'hanno imparata, per incuria della memoria, poiché per fiducia nella scrittura, ricordano dall'esterno, da segni estranei, non dall'interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato un farmaco della memoria ma del ricordo"( ou[koun mnhvmh~, alla; uJpomnhvsew~, favrmakon hu|re~, Fedro, 275a).
Pure i Drùidi del De bello gallico (VI, 14) non vogliono farne uso, per lamedesima ragione.
L’aggiogamento degli animali vantato da Prometeo, talora viene considerato una violenza fatta alla natura: Tibullo, p. e., ricorda che l’età dell’oro non conosceva le navi, né il commercio, né l’imbrigliamento dei cavalli, né l’assoggettamento del toro (I, 3, 37 - 46).
Riassumo il tutto con il mito di Prometeo raccontato nel Protagora di Platone. In questo dialogo il sofista narra che Prometeo donò all’umanità il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro l’arte politica, il rispetto e la giustizia, sicché gli uomini si ammazzavano a vicenda. Allora Zeus mandò Ermes a imporre aidòs, dìke e politichè tèchne: chi non le avesse accettate, doveva essere ucciso come malattia della città (322d).

Concludo le testimonianze accusatorie con un testo del 1818: il Frankestein ovvero il Prometeo moderno di Mary Shelley.
L’autrice accusa i disastri provocati dalla scienza, anticipando una denuncia che si ripeterà durante il decadentismo . Lo studioso ginevrino si illude al pari di Prometeo:"Una nuova specie mi avrebbe benedetto come sua origine e creatore"(p.56), ma deve additare la sua opera ardita come modello negativo:"Imparate da me - se non dai miei consigli, dal mio esempio - quanto pericoloso sia l'acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta"(p.55).



continua


[1] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p. 21. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.
[2] B. Snell, op e p. citate sopra.
[3] Le "cieche speranze" del v. 250 citato sopra.
[4] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 132
[5] Del 1824.
[6] Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro:"sidarovfrwnfovno" " (vv. 672 - 673).

Euripide Ippolito VIII. Afrodite è la potenza massima, ineluttabile

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