martedì 1 marzo 2016

Introduzione alla tragedia greca: Eschilo. Parte VI

Οι Ερινύες

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All’inizio del secondo episodio delle Eumenidi (vv. 397-488) Atena affronta le Erinni quali orrende figure emerse da un'antichità remota:
"non siete simili a nessuna stirpe dei seminati, né siete mai state viste tra le dèe dagli dèi "(410-411). Tali creature dunque fanno paura, non solo perché crudeli, ma anche come entità diverse, tanto dagli uomini quanto dai numi.
 La corifèa risponde rivendicando tale diversità:
"noi siamo le figlie della notte eterna e Maledizioni siamo chiamate nelle dimore della terra"(vv.416-417). Davanti a una dèa che riconosce valore soltanto al mondo della luce e della coscienza chiara, le Erinni affermano il proprio diritto a sopravvivere; un poco come faranno il Romanticismo con l'Illuminismo, e il Decadentismo con il Positivismo. Queste donne furenti prefigurano non solo Medea,  ma anche i personaggi estremi dei romanzi di Dostoevskij come Raskolnikov di Delitto e castigo che uccide due vecchie, o Stavrogin di I demoni che seduce una bambina la quale poi si impicca: essi obbediscono a oscuri impulsi che la ragione e la morale non possono giustificare. Eschilo arriverà ad ammansire le Erinni; " per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[1].

 Oreste prova a difendersi da questi mostri prodotti dal sonno della ragione con i calcoli del raziocinio: "io ho ammazzato mia madre, non lo negherò (oujk ajrnhvsomai[2]) con un omicidio di contraccambio per il carissimo padre"(Eumenidi, vv. 463-464).

Il matricida ricorda pure la complicità di Apollo che lo aveva aizzato, ma il ragionamento e la giustificazione non possono annullare l'istinto filiale e il rimorso nei confronti della madre uccisa. Nessuna filosofia sofistica o illuministica, nessuna religione, per apollinea o solare che sia, potrà stenebrare la parte più profonda e oscura della nostra personalità.
La contesa sembra irrisolvibile; allora Atena decide di fondare un tribunale, quell'Areopago che fino a  pochi anni prima della rappresentazione di questa tragedia, esercitava il controllo sulle leggi, sulle istituzioni e sui costumi, dando un indirizzo oligarchico alla vita della polis, ossia conservando il predominio degli abbienti. Poi, “liquidato Cimone, dovette essere ormai facile condurre in porto le riforme costituzionali di Efialte[3] e di Pericle: abolizione dei poteri politici dell’Areopago (la nomofulakiva, cioè la sorveglianza sulla costituzione e forse anche la custodia dei testi delle leggi) e riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera giurisdizionale dei delitti di sangue (omicidi volontari). E’ questo anche il clima in cui, probabilmente, maturano i progetti di creazione di una sorta di stato assistenziale, che si doveva realizzare attraverso la remunerazione dei magistrati, dei buleuti e soprattutto degli eliasti, cioè dei giudici delle giurie popolari”[4].
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi ricorda che Solone incaricò l’Areopago che era già ejpivskopo~ th`~ politeiva~ , guardiano della costituzione, e regolava gli affari pubblici e puniva i trasgressori, di sorvegliare il rispetto delle leggi (nomofulakei`n, VIII, 4 ). Plutarco nella Vita di Solone dice che il legislatore ateniese insediò l’Areopago come sovrintendente di ogni atto e custode delle leggi (ejpivskopon pavntwn kai; fuvlaka tw`n novmwn, 19, 2). Il consiglio era formato da ex arconti e venne aggiunto alla boulhv dei 400, pensando che ormeggiata a due consigli come a due ancore, la città sarebbe stata meno ondeggiante (oijovmeno~ ejpi; dusiv boulai`~ oJrmou`san h|tton ejn savlw/ th;n povlin e[sesqai).
Nel prologo dell’Edipo re, il sacerdote che informa Edipo sulla situazione di Tebe, dice :"la città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già fluttua (saleuvei)   e di sollevare il capo /dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace" (vv.22-24).
 Un conservatore come Isocrate, oltre un secolo più tardi (357 a. C.) rimpiangerà i “bei tempi” dell'Areopago, quando i cittadini " consideravano la cura degli affari dello Stato (th;n tw'n koinw'n ejpimevleian) non un traffico lucroso (ouj ga;r ejmporivan), ma un servizio pubblico ( ajlla; leitourgivan)”[5].
“La retribuzione delle cariche pubbliche non è attestata in nessun’altra città greca”[6].
 Comunque Atena nell'atto di fondazione del tribunale afferma solennemente la sua intenzione di scegliere nella sua città giudici giurati per i delitti di sangue e di farne un istituto che rimarrà nel tempo"(vv.482-484). In queste parole di Atena-Eschilo si sente il timore che la parziale esautorazione dell' Areopago porti a uno svuotamento di ogni suo potere e significato .
Musti rileva che è “Filoargivo  anche il finale della trilogia Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi) rappresentata nel 458”; quindi aggiunge: “ il problema storico-politico principale è comunque in essa quello del ruolo dell’Areopago, dopo la riforma di Efialte. Eschilo sembra aver voluto dare alla limitazione dei suoi poteri la legittimazione di una poesia di così vasta risonanza pubblica, esaltando la tremenda dignità del residuo ruolo, di tribunale giudicante i casi di omicidio volontario”[7].
La vendetta privata è superata dall’istituzione. Sentiamo cosa ne scrive Thomas Mann: “la vendetta si riproduce come vegetazione di palude e non vi è regola. Perciò quando Caino ebbe ucciso Abele, Dio gli pose un suo segno perché tutti vedessero che apparteneva a lui e disse: “ Chiunque uccide Caino subirà la vendetta sette volte”[8]. Ma Babele istituì un tribunale affinché l’uomo nei delitti di sangue si pieghi al giudizio della legge e la vendetta non prolifichi”[9].

La paura
Segue il Secondo Stasimo  (vv. 490-565) con fosche previsioni delle Erinni le quali sostengono che il terrore delle pene, umane e divine, talora è salutare:"a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore anche delle anime e deve restarci a fare la guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia "(vv. 517-519). E’ il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v. 177) che ritorna in forma variata.
“La forma drammatica classica si regge su un principio: che la sofferenza inevitabilmente connessa all’esistere (anzi: al voler essere la via destinataci) conduca finalmente al mathos, a un ‘chiaro’ sapere”[10].
“Se, nonostante tutto, volessimo ricercare un messaggio che i poeti tragici ci possano avere trasmesso, questo messaggio si potrebbe enunciare nelle parole: “soffrire e conoscere”, oppure, con una formulazione che -forse indebitamente- lascia intravedere una possibilità di riscatto, un non appagante riscatto: “soffrire e però essere consapevoli della propria sofferenza”.
Ma occorre essere attenti a cogliere la specificità di questo conoscere del personaggio tragico. La qualità di questo conoscere tragico ha connotazioni proprie e specifiche. E’ un conoscere turbato in quanto si rapporta di regola a situazioni di sofferenza, o anche di contrasto; e inoltre può presupporre profondità sinistre e recondite, in riferimento al mondo arcaico-primitivo evocato attraverso il mito. La verità della tragedia greca non è la verità della scienza (scienza della natura, scienza medica, registrazione e valutazione di informazioni geografiche o storiche) e non trova in sé motivo di compiacimento per avere acquisito nuova conoscenza.  La verità che consegue Edipo nell’Edipo re o Agaue nelle Baccanti è una verità che dà sofferenza, è una “infelice verità” la cui presenza si rivela molesta, come dice Cadmo parlando appunto con Agaue (Eur. Bacch. 1287, con una accorata allocuzione alla verità stessa)”[11]
Poco dopo le Erinni aggiungono:" mht j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon-aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto" qeo;"-w[pasen "(526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
It looks to me as if the famous saying about the superiority of to; mevson-which Aeschylus put so oddly into the mouth of the Erinyes (530)-might in fact be taken…as an honest and corrept description of the author’s own position[12], mi sembra che il famoso detto sulla superiorità del “mezzo” che Eschilo mette così stranamente in bocca alle Erinni, potrebbe essere di fatto venire preso …come una onesta e corretta descrizione della posizione personale dell’autore.  
 Più avanti la stessa Atena consiglia ai cittadini, che hanno cura della città, di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv. 698-699).
Però c’è paura e paura
Nelle Troiane, Ecuba non approva la paura se uno teme senza essere passato attraverso la ragione: “oujk aijnw` fovbon, o{sti~ fobei`tai mh; diexelqw;n lovgw/” (vv. 1165-1166). Nella fattispecie, la paura irragionevole è quella che i Greci hanno avuto del piccolo Astianatte, al punto di mandarlo a morte.
Allora, la paura che spinge a uccidere un bambino è vergognosa: sarà disonorevole per la Grecia l’iscrizione: “to;n pai`da tovnd j e[kteinan j Argei`oiv povte” (v. 1191), questo bambino uccisero un giorno gli Argivi per paura. Nell’ammazzare un bambino i Greci, li accusa Andromaca, si rivelano quali i
: “w\ barbar j ejxeurovnte~  [Ellhne~ kakav,-tiv tovnde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion;” (vv. 764-765).
Hanno voluto colpire l’uomo dove è più debole, dove è più uomo[13]
“Il mondo è divenuto “illuminato”. L’angoscia si è dissolta, e la “libertà” minaccia di prevaricare. Già il Prometeo ha mostrato come il valore della “libertà” per Eschilo sia mutato, ed essa sia divenuta problematica. Quindi la paura della costrizione diviene timore riverente di ciò che sta all’ultimo. A Clitennestra era mancata questa soggezione, questo scrupolo. La giustizia ora per Eschilo si trova a metà tra libertà e costrizione…Eschilo conosce l’orgoglio dello spirito, che ardisce spingersi fino all’estremo. Il suo Prometeo aveva offeso questa aijdw'~. Dalla lotta e dalla problematica dell’essere nasce l’insegnamento del mevson, la concezione classica dell’aureo mezzo[14]  (Eum., 525ss.)…Il compito dell’uomo è trovare il giusto mezzo tra indipendenza e dipendenza”[15].  
Il concetto della paura opportuna all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[16] di Sallustio:" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.

La paura è il presupposto di un ordinato vivere civile. Questa norma si trova anche nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  dove Machiavelli scrive:"Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione" (I, 11).

Le Erinni dunque si avvicinano alla soluzione del conflitto con Atena e Apollo,  prescrivendo regole accettabili da qualsiasi religione rispettosa della vita: “La dismisura demenziale (u{bri~)[17] è figlia di empietà secondo il vero” (Eumenidi, v. 534).

Quindi, proseguono le Erinni, sulla via di diventare Eumenidi: "Rispetta l'altare di Giustizia, e non disprezzarlo calciandolo con piede ateo in vista del guadagno: infatti poi segue il castigo"(vv.539-541).

Gli stessi  accenti posati sulla forza vincente e ineludibile della Giustizia si trovano nel primo stasimo dell’Agamennone. Eschilo è in effetti uno dei profeti della Giustizia.
"infatti non c'è difesa di ricchezza contro Sazietà, per l'uomo che con arroganza ha preso a calci il grande altare di Giustizia, con il proposito di annientarla" (Agamennone, primo stasimo 381-384).

E, poco più avanti:
"Ogni rimedio è vano. Il danno non rimane nascosto,
ma risalta, quale luce di sinistro bagliore; e, come bronzo cattivo, per sfregamento e colpi, diventa nero il colpevole sottoposto a giustizia, poiché
insegue, come un fanciullo, un uccello che vola" ( Agamennone, 387-394).

Torniamo alle Erinni le quali ripetono i precetti che facevano già parte dell'educazione morale e pure formale dell'uomo omerico: ciascuno deve provare"venerazione per i genitori"( Eumenidi, v. 545) e rispetto per gli ospiti.

La religione delle Erinni  si assimila sempre più a quella degli dèi olimpici. Ancora: La Giustizia salva dall'infelicità colui che la segue eJkwvn d  j ajnavgka~ a[ter (v. 550), di sua volontà, non costretto, mentre "ride il demone sull'uomo violento, vedendo in sventure irrimediabili colui che non se le sarebbe mai aspettate, e non ce la fa nella sua debolezza a superare la vetta, quello che avendo scagliato il benessere di un tempo contro lo scoglio della Giustizia[18] va in malora per sempre, illacrimato, annientato"(vv. 560-565). Sono le ultime parole del secondo stasimo.





continua


[1] C. Magris, L'anello di Clarisse , p. 27.
[2] Cfr. Prometeo il quale, tutt'altro che pentito, prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai, Prometeo incatenato, vv. 265-266).
 Questa  rivendicazione di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia   per distinguere "la concezione ariana" dal " mito semitico":" La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita  al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica" (F. Nietzsche. La nascita della tragedia, p. 69.)
[3] o}ς katevluse to; kravtoς th̃ς ejx jAreivou pavgou boulhς (Pltarco, Vita di Pericle, 7, 8), che abbatté il potere dell’Areopago.
[4] D. Musti, Storia greca, p. 338.
[5] Areopagitico, 25.
[6] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 51.
[7] D. Musti, Storia greca, p. 373
[8] Genesi, 4, 15.
[9] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 197.
[10] M. Cacciari, Hamletica, p. 100
[11] V. Di Benedetto (introduzione di) Eschilo, Orestea, p. 10.
[12] Dodds, The ancient concept of progress, p. 50.
[13] Cfr. Vittoini, Uomini e no.
[14] La formulazione più nota del giusto mezzo, ma solo una delle tante, è quella di Orazio:" Est modus in rebus; sunt certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum " (Satira I, 1, vv.106-107), c'è una misura nelle cose; ci sono insomma limiti definiti al di qua e al di là dei quali non può stare il giusto (ndr)..
[15] B. Snell, Eschilo e l’azione drammatica, p. 174.
[16] Del 40 ca. a. C.
[17] Sofocle, delfico ortodosso, scriverà che l’u{bri~ è madre e nutrice del tiranno: "u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873),  la prepotenza fa crescere il tiranno.
[18] L'immagine della collisione con Diche  è ricorrente nella tragedia: Sofocle nell'Antigone  fa dire al Coro queste parole:"Avanzando verso l'estremità dell'audacia, hai urtato , contro l'eccelso trono della Giustizia, creatura, con grave caduta."(vv.853-855).

1 commento:

Ifigenia CLVIII. Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare.

  Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura. “Aiutami Sole, a trovare dentro questo lungo travagli...