giovedì 31 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte XI

Pablo Picasso, Donna piangente

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Adesso però è già tempo di tornare ai Remedia Amoris.
E' bene dunque evitare i luoghi isolati poiché questi incrementano la furia amorosa: "augent secreta furores" (v. 581); dopo l'esempio di Fillide, devono temere le solitudini tanto gli uomini feriti dalle padrone dei loro cuori, quanto le ragazze ferite dagli uomini: "Phyllidis exemplo nimium secreta timete, /laese vir a domina, laesa puella a viro" (vv. 607 - 608) . Un'altra cosa da evitare è il contagio amoroso: "facito contagia vites" (v. 613) . L'imperativo futuro conferisce una sanzione legale alla prescrizione. Proust userà la metafora del "bacillo virgola".
Per quanto riguarda l'amore come malattia dalla quale non possiamo liberarci con la volontà sono degne di nota queste considerazioni sulla mania di Swann, un ricchissimo colto, elegante signore ebreo innamorato di una cocotte, oltretutto senza esserne contraccambiato e con un'ossessione che rendeva il pover'uomo infelice fino al desiderio di morire: ebbene chi notava la sproporzione tra i due e la follia di quel sentimento parlava "con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che un uomo d'ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne mettesse conto; all'incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del colera per opera d'un essere così piccolo come il bacillo virgola"[1].
L'amore di Swann per Odette ha qualche cosa di malato dall'inizio alla fine.
La prima volta che si videro "ella era apparsa a Swann non senza bellezza certo, ma di un tipo di bellezza che gli era indifferente, che non gl'ispirava nessun desiderio, che gli dava anzi una specie di repulsione fisica" (p. 209) . Alla fine della morbo amoroso, come svegliatosi da un'operazione, Swann penserà" E dire che ho perduto tanti anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo" (p. 403) . La similitudine medico - chirurgica mi è stata suggerita dallo stesso testo di Proust: "E questa malattia ch'era l'amore di Swann s'era così moltiplicata, era avvinta così strettamente ad ogni consuetudine di lui, ad ogni suo atto, alla sua mente, alla sua salute, al suo sonno, alla sua esistenza, perfino a ciò ch'egli desiderava dopo la morte, aveva finito ormai col formare una cosa sola con lui a tal punto che non sarebbe stato possibile strappargliela senza distruggere lui stesso quasi per intero: come si dice in chirurgia, il suo amore non era più "operabile" (p. 327) .
Questa espressione si può accostare a una concettualmente analoga di Petronio: "sed antiquus amor " (Satyricon 42, 7) , ma un amore vecchio è un cancro.

Ebbene secondo Ovidio il germe patogeno può essere preso anche dal contatto con altri innamorati. Per argomentare questa tesi il poeta fa seguire un verso che rivela come l'amore di cui egli tratta è solo corporale e quindi i suoi precetti servano probabilmente a evitare quella "ossessione carnale" che Benedetto Croce trovava in D'Annunzio: "haec etiam pecori saepe nocere solent" (v. 614) , questo (cioè contagia del v. 613) suole nuocere anche al bestiame. Ma soprattutto bisogna evitare la vicinanza della domina, altrimenti succederà come a un tale che sembrava guarito: "vulnus in antiquum rediit mala firma cicatrix/successumque artes non habuere meae " (v. 623 - 624) , la cicatrice poco solida tornò all'antica ferita e le mie arti non ebbero successo. Il maestro d'amore si comporta come un medico che rimprovera il paziente poiché questo non ha seguito le sue prescrizioni.
 Poi torna l'assimilazione dell'uomo innamorato all'animale in foia: "non facile est taurum visa retinere iuvenca; /fortis equus visae semper adhinnit equae" (vv. 633 - 634) , non è facile trattenere il toro quando ha visto una giovenca; il cavallo vigoroso nitrisce sempre verso la cavalla vista.
 E' il tema dell'amor omnibus idem, (Virgilio, Georgica III, 244) e, forse, nel nitrito quasi automatico del cavallo eccitato, c’è il ricordo dell'episodio erodoteo (III, 86) della conquista del regno persiano da parte di Dario il cui cavallo nitrì (ejcremevtise) per primo avendo sentito l’odore della cavalla che gli avevano fatto montare la sera prima in quel sobborgo dove sarebbero passati i sei pretendenti al trono che sarebbe andato a quello appunto sul cavallo che avesse nitrito per primo
Insomma se vuoi emanciparti dalla domina, evita tutto quello che te la fa venire in mente. Non nominarla nemmeno per dire che non l'ami più: "et malim taceas quam te desisse loquaris; /qui nimium multis "non amo" dicit, amat" (vv. 647 - 648) , preferirei che tu tacessi piuttosto che dire di avere smesso; chi a troppa gente dice "non amo", ama. Questo è uno dei loci della poesia amorosa risalente a Catullo: "verbosa gaudet Venus loquella" (55, 20) , Venere gode di un parlare prolisso. Parlare spesso di una persona, perfino farlo in maniera ingiuriosa è, infatti, segno d'amore: "irata est; hoc est, uritur et loquitur" (Catullo, 83, 6) , ce l'ha con me; cioè brucia e parla.
L'amore insomma deve finire per esaurimento, a poco a poco (paulatim, Remedia Amoris, 649) : "lente desine, tutus eris" (650) , smetti lentamente, sarai salvo. Seguono versi (655 - 658) che abbiamo già citato a proposito della non opportunità di odiare chi pure amiamo o abbiamo amato: questa è cosa scellerata (scelus, v. 655) , brutta e vergognosa: " turpe vir et mulier, iuncti modo, protinus hostes" (v. 659) , è indecente che un uomo e una donna, fino a poco prima uniti, subito dopo divengano nemici.
Così il misei'n - filei'n viene rifiutato non solo sincronicamente ma anche in una successione di momenti diversi. Oltre essere turpe questo odi et amo non è produttivo, e non è indicativo di emancipazione dall'amore: "Saepe reas faciunt et amant" (v. 661) , spesso le accusano e amano. Senza contare le relazioni e i matrimoni che finiscono in tribunale con danni di tutti i generi: "Tutius est aptumque magis discedere pace/nec petere a thalamis litigiosa fora. /Munera, quae dederas, habeat sine lite iubeto; /esse solent magno damna minora bono" (vv. 669 - 672) , è più sicuro e più conveniente separarsi in pace, e non passare dal talamo ai processi del foro. I doni che le avevi fatto, lascia che se li tenga senza contesa; di solito le perdite sono inferiori a un bene grande. Che è poi quello di evitare giudici e avvocati il cui motto è da sempre: "dum pendet, rendet ". Bisogna imparare a diventare indifferenti agli artifici, alle lusinghe, alle speranze cui siamo sensibili poiché piacciamo a noi stessi: "Desinimus tarde, quia nos speramus amari; / dum sibi quisque placet, credula turba sumus " (vv. 685 - 686) , smettiamo tardi poiché speriamo di essere amati; finché ciascuno di noi piace a se stesso, siamo una massa di creduloni.
Su questo punto voglio confutare Ovidio. Piacere a se stessi non è un male ma un bene.
 Con parole mie posso dire che se uno non piace a se stesso non solo non può piacere agli altri, ma nemmeno gli altri possono piacergli. Aggiungo, guidato da W. Jaeger, che Aristotele, nell'Etica Nicomachea, (IX 8) esprime un alto apprezzamento della filautiva, cioè dell'amore di sé che non è triviale egoismo, al contrario. "Le parole stesse d'Aristotele c'insegnano senza equivoco possibile ch'egli ha invece l'occhio rivolto anzitutto, per l'appunto, ad atti del più eccelso eroismo morale: chi ama se stesso deve essere instancabile nell'adoprarsi in pro degli amici, sacrificarsi per la patria, cedere volonteroso denaro, beni ed onore "facendo suo il Bello in se stesso…Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà preferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte insignificanti"[2]. In queste parole è espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella quale ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"[3].
H. Hesse nella Prefazione a Il lupo della steppa (del 1927) sostiene che l'amor proprio è collegato all'amore del prossimo: "per tutta la vita dimostrò con l'esempio che senza amare se stessi non è possibile neanche amare il prossimo, che l'odio di sé è identico al gretto egoismo e produce infine il medesimo orribile isolamento, la medesima disperazione" (p. 65) .

Le lacrime insidiose delle donne. Il piacere delle lacrime.
Un'altra insidia da cui dobbiamo guardarci secondo Ovidio è quella delle lacrime femminili: "Neve puellarum lacrimis moveare caveto; /ut flerent, oculos erudiere suos" (vv. 689 - 690) , e bada di non farti commuovere dalle lacrime delle ragazze; hanno ammaestrato i loro occhi a piangere (moveare=movearis, erudiere=erudierunt) .
E' questo un altro luogo comune della diffidenza verso le donne.
Lo troviamo nell'Aiace di Sofocle in bocca al protagonista che respinge le suppliche lacrimose di Tecmessa dicendole di chidere la tenda e di non restare a piangere davanti alla soglia: la donna è molto incline alle lacrime (kavrta toi filoivktiston gunhv, v. 580) . Del resto la schiava amante gli aveva chiesto di ricordare le gioie ricevute da lei invece di uccidersi tenendo presenti solo i fatti negativi. E la donna, secondo Tacito, può permettersi di piangere, l'uomo non può non ricordare: " Feminis lugere honestum est, viris meminisse "[4], per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ritroviamo il locus nel Coriolano di Shakespeare quando Tullo Aufidio, comandante dei Volsci, dice: " Per qualche goccia di lacrime di donna che sono a buon mercato come le bugie, egli ha venduto il sangue e la fatica della nostra grande impresa. Perciò deve morire" (V, 6) .
Eppure le lacrime vanno rivalutate poiché testimoniano, al pari dei sorrisi, dell'unità del genere umano: "l'unità cerebrale dell' Homo sapiens si manifesta nell'organizzazione del suo cervello, unico in rapporto agli altri primati; c'è infine un'unità psicologica e affettiva: certo, le risa, le lacrime, i sorrisi sono modulati diversamente, inibiti o esibiti a seconda delle culture, ma, malgrado l'estrema diversità di queste culture e dei modelli di personalità imposti, risa, lacrime, sorrisi sono universali e il loro carattere innato si manifesta nei sordo - muti - ciechi dalla nascita, che sorridono e piangono senza aver potuto imitare nessuno"[5].
 Le lacrime manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[6], interessano le situazioni che grondano pianto. Il piangere, come scarso controllo delle situazioni, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio: "come sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'" pepragovsi) /e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv. 608 - 609) .
La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere pure piacevole: "avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn) ", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (vv. 125 - 126) .
 Nell'Elena, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che dolore" (654 - 655) .
La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà: " - Oh, lasciami bere - io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto"[7].
  
Il pentametro del distico successivo dei Remedia Amoris ricorda un'immagine dell' Edipo a Colono: "Artibus innumeris mens oppugnatur amantum, /ut lapis aequoreis undique pulsus aquis" (vv. 691 - 692) , l'animo di chi ama è assalito da innumerevoli artifici, come uno scoglio battuto da tutte le parti dalle onde marine. Nel III Stasimo dell'ultima tragedia di Sofocle, il coro, dopo un'affermazione di sapienza silenica con relativo rifiuto di tutta la vita e della vecchiaia in particolare, paragona l'anziano profugo cieco colpito da sciagure terribili a una scogliera boreale che d’inverno viene battuta e percossa dalle onde da tutte le parti ("pavntoqen bovreio" w{", ti" ajkta; - kumatoplh; x ceimeriva klonei''''tai" Edipo a Colono, 1240 - 1241) .
 Segue il consiglio del silenzio: "Qui silet, est firmus; qui dicit multa puellae/probra, satisfieri postulat ille sibi" (697 - 698) , chi tace è saldo; chi muove molti rimproveri alla sua fanciulla, pretende giustificazioni. Nell'amore l'unica giustificazione è l'amore stesso e la medesima cosa si può dire per il non amore.
Evitare gli scripta
 Bisogna evitare tutte le occasioni di ricaduta: non rileggere le lettere: "scripta cave relegas blandae servata puellae; /constantis animos scripta relecta movent" (717 - 718) , guardati dal rileggere gli scritti messi da parte della ragazza quando era carezzevole; gli scritti riletti commuovono anche animi forti. Infatti gli scritti del passato esprimono stati d'animo passati. Ovviamente constantis=constantes.
Segue un'immagine che potremmo definire "protobarocca" poiché Ovidio consiglia di fare bruciare l'ardore amoroso interno da un fuoco divoratore esterno che brucia gli scripta della ragazza: "Omnia pone feros - pones invitus - in ignes/et dic "Ardoris sit rogus iste mei" (vv. 719 - 720) , getta tutto nel fuoco divampante, lo getterai contro voglia, e di': "questo sia il rogo del mio ardore.
Per rendere più concreta l'immagine e spiegare che non è impossibile buttare nelle fiamme una parte di se stessi, Ovidio ricorre a un esempio mitico: quello di Altea la quale gettò nel fuoco la vita del proprio figliolo Meleagro, ossia un tizzone spento dalla cui conservazione dipendeva il proseguimento della vita del giovane che aveva fatto infuriare la madre uccidendone il fratello. Una specie di contaminatio tra Medea e Antigone.


continua



[1]La strada di Swann, p. 363.
[2] Etica Nicomachea, IX, 8, 1169a 18 ss.
[3] W. Jaeger, Paideia, 1, p. 47.
[4] Germania (27, 1) . 
[5] E. Morin, op. cit., p. 74.
[6] Cfr.: "sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462) , ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
[7]L'Innocente. p. 145. 

martedì 29 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte X

Cesare Pavese

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Torniamo a Ovidio
Altro rimedio atto a deporre l'amore è quello, suggerito al poeta da Cupido in sogno, di porre mente ad altri tormenti: "ad mala quisque animum referat sua: ponet amorem/omnibus illa deus plusve minusve dedit " (vv. 559 - 560) , ciascuno volga l'attenzione ai propri guai: deporrà l'amore, a tutti più o meno il dio ne ha dati.
 Ne vengono elencati alcuni, dal denaro prestato, al padre severo (durus pater, 563) al figlio sotto le armi (filius miles) alla figlia da sposare (filia nubilis, v. 571). "Et quis non causas mille doloris habet? /Ut posses odisse tuam, Pari, funera fratrum/debueras oculis substituisse tuis " (vv. 572 - 574) , e chi non ha mille cause di sofferenza? Per potere odiare la tua amante, Paride, avresti dovuto metterti davanti agli occhi le morti dei fratelli.
 E' questo il sistema di scacciare un dolore con un altro dolore cui si può rispondere con un sarcasmo usato da Pavese due giorni prima di uccidersi: "chiodo schiaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce"[1]. Del resto i dolori e i desideri per essere superati vanno attraversati moralmente, e non repressi, altrimenti esplodono più tardi nella follia, come succede al protagonista della Morte a Venezia di T. Mann, la cui "rigida, disciplinata integrità" non lo tutela dall'esplosione degli "istinti oscuri" che anzi lo travolgono e lo stendono: "Si abbandonò su una panchina; stravolto aspirò il profumo notturno degli alberi. "Ti amo!" sussurrò lasciando cadere le braccia, riverso, sopraffatto, assalito da ricorrenti brividi. Era la formula stereotipa del desiderio: assurda in quel caso, grottesca, turpe, ridicola, e tuttavia sacra e venerabile"[2].

Il consiglio successivo è "loca sola caveto " (Remedia, v. 579) , guardati dai luoghi solitari. Gli amici, perfino la folla aiutano a dimenticare.

Sant'Agostino nel Secretum dà proprio questo consiglio a Petrarca citando questi versi di Ovidio notissimi anche a tutti i fanciulli: " tam diu cavendam tibi solitudinem scito, donec sentias morbi tui nullas superesse reliquias… “Quisquis amas, loca sola nocent, loca sola caveto. /Quo fugis? In populo tutior esse potes"[3], sappi che devi evitare la solitudine tanto a lungo fino a quando senti che rimangono strascichi della tua malattia…Chiunque sia tu che ami, i luoghi solitari fanno male, evita i luoghi solitari. Dove fuggi? Tra la folla puoi essere più sicuro. Francesco risponde: "Recordor optime: ab infantia pene michi familiariter noti erant " (Secretum, III, 52) , li ricordo benissimo: quasi fin dall'infanzia mi erano familiari.

Fillide, Arianna e la catena letteraria.
 Segue l'esempio di Fillide (Remedia, 591 - 608) , un altro caso di donna abbandonata trattato anche altrove da Ovidio. Possiamo soffermarci un poco su questa "vaga donzella", come la chiamerà il Parini, e ampliare con lei la tipologia della ragazza abbandonata.
 La seconda delle Heroides è una lettera di Fillide, principessa tracia, a Demofoonte il figlio di Teseo e di Fedra che trovò ospitalità presso di lei, poi l'abbandonò, come aveva fatto il padre con Arianna la quale se ne duole nella X delle Heroides.
 Il lamento di Fillide rinfaccia a Demofonte gli spergiuri e la rottura della fides: " Iura, fides ubi nunc commissaque dextera dextrae, /quique erat in falso plurimus ore deus? " (Heroides, II, 31 - 32) , dove sono ora i giuramenti, la fede promessa, la destra stretta alla destra, e tutti gli dèi che si trovavano nella tua bocca bugiarda?
 La fanciulla spera che Demofonte, al cospetto di Teseo che fu non solo il seduttore di Arianna ma anche un vincitore di mostri, venga ricordato soltanto per questa impresa non nobile: avere ingannato una fanciulla: "Fallere credentem non est operosa puellam/gloria; simplicitas digna favore fuit. /Sum decepta tuis et amans et femina verbis; /di faciant laudis summa sit ista tuae " (Heroides, II, vv. 63 - 66) , non è gloria produttiva ingannare una fanciulla credula; la semplicità doveva essere degna di protezione. Sono stata ingannata dalle tue parole in quanto innamorata e in quanto donna: gli dèi facciano che questo sia il colmo della tua gloria.
 Infine la ragazza minaccia il suicidio la cui responsabilità dovrà ricadere sul seduttore, tanto che sul sepolcro dovrà essere scritto: "Phyllida Demophoon leto dedit hospes amantem/ille necis causam praebuit ipsa manum " (Heroides, II, vv. 147 - 148) , Demofoonte da ospite ha fatto morire Fillide che lo amava; egli fornì il motivo della morte, lei stessa la mano.
Ebbene, nei Remedia Amoris Ovidio, tornando sull'argomento, sostiene che Fillide fu uccisa dalla solitudine: "Certa necis causa est; incomitata fuit " (v. 592) , la causa della morte è certa: rimase senza compagne. Vagava come la schiera barbara delle menadi che ogni tre anni festeggia Bacco, ma da sola.

La solitudine
 La solitudine in generale è vista più negativamente dagli antichi che dai moderni.
Fondamentale su questo argomento mi sembra una riflessione di Kierkegaard che prende spunto dal Filottete di Sofocle il quale, abbandonato su un'isola deserta, si lamenta di essere movno" (v. 227) , e[rhmo"ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici. Ebbene ill filosofo danese, in Enten Eller, nota che" il mondo antico non aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato… La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un nuovo dolore"[4].
La fuga nell'interiorità è già una necessità in Seneca il quale, costretto a ritirarsi negli "studia... in umbra educata "[5], consiglia: "fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum " (epist., 10, 1) , evita la folla, evita la compagnia di poche persone e anche quella di una sola.
 Altrettanto decisamente Nietzsche esprime il punto di vista dell'uomo strutturalmente solo e desocializzato: "C'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto per la "moltitudine"[6].
La Zambrano chiama questa attitudine "individualismo moderno" che "ci ha abituati a credere di vivere da soli". Eppure "nella vita umana non si rimane soli eccetto negli istanti in cui la solitudine si fa, si crea. La solitudine è una conquista metafisica, perché nessuno sta solo, ma deve riuscire a creare la solitudine dentro di sé, nei momenti in cui è necessaria per la crescita. I mistici parlano di solitudine come di qualcosa per la quale bisogna passare, punto di partenza della "ascesi", cioè, della morte, di quella morte che, secondo loro, bisogna morire prima dell'altra, per vedersi, alla fine, in un altro specchio. La visione del prossimo è specchio della propria vita; ci vediamo vedendolo. E la visione del simile è necessaria proprio perché l'uomo ha bisogno di vedersi. Non sembra che esista nessun animale che necessiti di contemplare la sua figura nello specchio. L'uomo cerca di vedersi. E vive appieno quando si guarda, non nello specchio morto che gli restituisce la propria immagine, ma quando si vede vivere nello specchio vivo del simile. Soltanto vedendomi nell'altro mi vedo realmente, soltanto nello specchio di un'altra vita simile alla mia acquisisco la certezza della mia realtà"[7].

 La donna abbandonata
 Nei Remedia, la ragazza di Tracia è modellata su quella cretese, e, più in generale, sul tipo della donna abbandonata: "Perfide Demophoon!" surdas clamabat ad undas, /ruptaque singultu verba loquentis erant" (Remedia Amoris, vv. 597 - 598) , perfido Demofoonte! gridava alle insensibili onde, e le parole di lei erano rotte dai singhiozzi.
 Il vocativo perfide si trova già nel lamento dell'Arianna di Catullo (64, 132) , in quello della Didone virgiliana (Eneide, IV, 305) che è pure assimilata a una menade (Eneide, IV, 300) . Abbiamo indicato la presenza dell' epiteto ingiurioso in bocca alla figlia di Minosse pure nei Fasti (III, 473) .
Ovidio presenta Arianna, l'archetipo della ragazza abbandonata, anche nella X delle Heroides dove la figlia di Minosse, trovatasi sola sulla riva del mare, grida al traditore: "Quo fugis? …Scelerate revertere Theseu!/Flecte ratem! Numerum non habet illa suum! " (vv. 37 - 38) , dove fuggi? torna indietro scellerato Teseo, volgi la nave che non ha il numero completo! In questa lettera il canonico perfide è indirizzato al lectulus, il giaciglio traditore (v. 60) .
Pure nell'Ars Amatoria c'è un'Arianna che piange davanti alle onde e grida parole simili a quelle di Fillide: "Thesea crudelem surdas clamabat ad undas " (I, 529) , proclamava la crudeltà di Teseo alle onde che non ascoltavano, e piangeva, senza tuttavia diventare più brutta per le sue lacrime: "non facta est lacrimis turpior illa suis " (v. 532) .
La variante delle lacrime belle che attireranno Dioniso non impedisce a Ovidio l'uso dell'aggettivo topico: "Perfidus ille abiit: quid mihi fiet? " ait; /"Quid mihi fiet? " ait; sonuerunt cymbala toto/litore et attonita tympana pulsa manu" (Ars Amatoria, I, 534 - 536) , quel traditore se n'è andato. Cosa sarà di me? dice, cosa sarà di me? , dice; risuonarono i cembali su tutta la spiaggia e tamburelli battuti da mani frenetiche.
 Ho ripreso il tovpo" già trattato per mostrare ancora una volta il funzionamento della catena letteraria; anzi aggiungo una nota della Lazzarini la quale sostiene che "l'archetipo della iunctura perfide Demophoon è probabilmente Callimaco, Aetia 556 Pf. nymphie Demophoon, adike xene ("perfido Demofoonte, ospite traditore) "[8]. Ricordo pure un'eco dal bel suono presente in Il Giorno del Parini il quale utilizza una versione del mito data da Servio (In Verg. Buc. 5, 10) secondo cui la ragazza si impiccò e fu trasformata in un mandorlo privo di foglie che nacquero quando Demofoonte tornò: "e qual ti porge/il macinato di quell'arbor frutto/che a Ròdope fu già vaga donzella, /e chiama in van sotto mutate spoglie/Demofoonte ancor Demofoonte"[9].
E’ interessante notare che nell’Ars Ovidio, in polemica scherzosa e libertina con Virgilio, assimila il presunto pio Enea ai seduttori perfidi
Nel proemio dell'Eneide[10] Virgilio domanda con meraviglia: "Musa, mihi causas memora, quo numine laeso, /quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae? " (vv, 8 - 11) , o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a girare per tante sventure, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
 Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine: dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce Enea tra i seduttori ingannevoli quali il fallax Iason (Ars, III, 33) e Teseo, tanto perfido che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini.
Siffatto è il figlio di Anchise: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[11]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39 - 40) , ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come antenato di Augusto.


continua



[1] Il mestiere di vivere, 16 agosto 1950.
[2] T. Mann, La morte a Venezia, pp. 62 - 63 e p. 118.
[3] Remedia Amoris, vv. 379 - 380.
[4] Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo secondo, p24 e pp. 33 - 34.
[5]Tacito, Annales, XIV, 53.
[6] Ecce homo (del 1888) , p. 37.
[7] L'uomo e il divino, p. 262.
[8] Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 163.
[9] G: Parini, Il Mattino, vv. 267 - 271.
[10] Scritta fra il 29 e il 19 a. C.
[11] Spada lasciata da Enea (Eneide, IV, 507) e impiegata quale dono funesto (non hos quaesitum munus in usum., Eneide, IV, 647, dono richiesto non per questo uso. 

lunedì 28 dicembre 2015

Twitter, CCXXIV antologia

Annus praecipitat, amici, et nos ridendo ducimus horas

De silvis: sui Boschi
In che peccò bambina la ministra Boschi, quando ignara di misfatto è la vita? Arcano è tutto fuor che il babbino suo.

Quaeritur an Boschi pater fur vel peculator fuerit. Filia eius puellula, quamvis rudibus annis, omnia male facta  abscondere didicerat

Ancora sui signori Boschi: il conflitto di interessi in realtà è una sovrapposizione di interessi: quelli privati prevalgono su quelli pubblici.


I buffoni della televisione

@matteorenzi:  I tuoi sostenitori del livello di Beppe Severgnini ti faranno perdere le elezioni. Apri gli occhi

La De Micheli è una buffa caricatura della tipica comare arci-ignorante. Un'altra che farà perdere le elezioni a Renzi

Gli scarabocchiatori libreschi delle gabbie televisive possono invidiarmi: non devo asservirmi a nessuno e ho più di 100 mila lettori l'anno nel mio blog
Tali piazzisti ispirati dalla Musa televisiva drogata sono dei venduti, ma piazzano poche copie e hanno ancor meno lettori.

Molto sarà perdonato a chi, come me, molto ha amato; niente a chi molto a rubato e troppo ha trattenuto . Non faccio i nomi dei politici ladri perché sono troppi
Comunque a questi animali, politici e rapaci, do un avvertimento quasi liturgico e solenne di fine anno: pentitevi, restituite il maltolto e chiudetevi in un convento, prima che sia troppo tardi : iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit, nihil inultum remanebit
Discite iustitiam moniti et non temnere divos

Renzi trova il tutto nel poco, perfino nel nulla; i milioni di poveri trovano il nulla nel tutto di Renzi  
(questo pensiero ha ricevuto decine di consensi nel mio facebook: -gianni ghiselli facebook-)




giovanni ghiselli

il blog-giovanni ghiselli blog- è arrivato a 296170.
In febbraio compirà 3 anni e avrà superato le 300 mila visite.
Auguro buon anno a tutti. Faremo grandi cose, nesono certo

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domenica 27 dicembre 2015

La telefonata del 20 dicembre 1981 a Bologna e la Debrecen del 1979. II parte

i libri sulla mia scrivania
foto di Polina Oshmianskaya
La telefonata del 20 dicembre 1981 a Bologna e la Debrecen del 1979


Appena ebbi sentito la sua voce e il suo nome, mi tornò in mente il giorno buio e nevoso di fine novembre del ’78, quando Ifigenia bussò alla mia porta, del tutto inopinata, e subito dopo mi apparve piena di luce, come un  meriggio privo di nuvole all’inizio dell’estate completamente nuda e felice.    
Ma il 20 dicembre dell’81 quando la giovane donna cominciò a parlare dopo un mese e mezzo di silenzio, sentii parole oscure e contorte per equivocazioni e contraddizioni continue.
Con il tanghero del quale si era invaghita non aveva raccapezzato una relazione soddisfacente. L’amico drogato non aveva potuto salvarlo. Nei bassifondi dell’Accademia aveva conosciuto un sedicente studioso heideggeriano che l’aveva convinta della totale insignificanza dell’Universo. Tutto questo era avvenuto perché lei aveva sentito l’incoercibile necessità di conoscere il mondo vivo e moderno, che frequentando me, fanaticamente innamorato dei classici, aveva dovuto  ignorare, costretta com’era a tenere la testa girata all’indietro, rivolta sempre verso il colombario scalcinato dei Greci e il loro idioma peggio che sepolcrale. Le erano venuti nausea e torcicollo.
Infine disse di avere deciso di rinunciare all’amore, la tipica superstizione e frustrazione possessiva di quanti non sanno affrontare la vita da soli con la mente libera e il cuore sgombro da tali cianfrusaglie care ai pezzenti, ai mendicanti dei sentimenti. Lei, da quella grande signora qual era, si sentiva  emancipata da questo empio culto del nulla che tanti danni e malanni aveva seminato nel mondo intero e nella vita sua: tantum religio potuit suadere malorum, arrivò a rinfacciarmi. Né si peritò di citare Turgenev che pure le avevo insegnato io: l’amore “è romanticismo, bazzecole, marciume”[1]. “E brava la nichilista postepicurea!”, pensai
Aveva parlato con un tono aggressivo rinfacciandomi diversi misfatti, mentre ero assai stanco della faticosa giornata, non conclusa oltretutto, poiché dovevo rileggermi La nascita della tragedia per raccontarla ai miei allievi con precisione, forza e brevità,  e non avevo ancora mangiato.
Sicché le chiesi: “In conclusione perché mi hai telefonato e che cosa vuoi tu da me?”
Allora Ifigenia, cambiato tono, mi domandò cosa pensassi della sua situazione.
Le risposi sinceramente che la consideravo un’infelice siccome in balia di chiunque le sapesse scrostare le cicatrici dell’anima, per poi inebriarsi stuzzicandone le piaghe molli e sanguinose e lambendole con voluttà canina. Era già tempo che arrivasse a capire chi fosse, e quale meta volesse raggiungere.
Superati oramai i ventotto anni, non poteva più restare in balia di pulsioni caotiche e sconclusionate, assaggiando di tutto con labbra frenetiche, senza discernimento di quanto le si confaceva, mentre la prima gioventù, l’età più proficua per le creature carnali e telluriche, cominciava a declinare come il sole nella seconda metà del mese di luglio, ancora caldo ma già meno brillante e alto nel cielo. Conclusi dicendole che a parer mio quello che le mancava davvero era un palcoscenico, un cerchio di legno[2] dove stipare tutte le farse della sua vita, rappresentare ogni volta una parte, come faceva nei corridoi del Minghetti, giovanissima e bella supplente, utilizzando me, docente già consumato, quale spalla sinistra, slogata per giunta dai colpi che lei stessa mi dava, o quale misero servo di scena.

Ma adesso è già tempo di tornare all’anno di mia redenzione 1979 quando Ifigenia ancora l’amavo sperando di esserne contraccambiato.
Partii da Bologna con Alfredo domenica 22 luglio. Arrivammo a Debrecen con una sola giornata di viaggio: conoscevo molto bene la strada, come puoi immaginare, caro lettore.  La sera del 23 c’era la festa della conoscenza, quella che negli anni passati mi era servita a incontrare la donna con la quale nel mese successivo avrei scambiato piacere, amore e un qualche sapere, conseguendo comunque sempre un ampliamento della necessaria autocoscienza. Tra le altre avevo incontrato, una per anno, le tre finlandesi Helena, Kaisa, Päivi, le donne più importanti della mia vita, se non altro perché non mi hanno usato più di quanto io abbia fatto con loro. Tali Grazie e principali Muse mi hanno ispirato le storie d’amore che forse tu hai già apprezzato lettore di questo blog.
Noto con soddisfazione che, apparse tanto tempo fa, continuano a essere lette. Vuol dire che sono favole belle, e non soltanto per me.
Nel luglio del 1979 dunque non cercavo l’amore e nemmeno un’avventura, ma le ragazze  le osservavo comunque. Tra le altre notai una bionda dai lunghi capelli che le ondeggiavano sopra le spalle a ogni mossa della testa. Questa ad un tratto si volse nella mia direzione. L’aurichiomata aveva la carnagione chiara e gli occhi celesti: come si accorse che la guardavo e non levavo gli occhi da lei, protese verso di me la mano destra che stringeva un bicchiere pieno di “sangue di toro”[3] brillante come un rubino, in segno di brindisi credo, e mi accarezzò  il volto abbronzato con uno sguardo carico di simpatia femminile. “Ecco di nuovo l’eterno, vivacizzante richiamo dei sessi!”, pensai ancora una volta. Del resto nemmeno il pelo avevo perduto grazie a Dio che tutto vede e sa tutto.
Senza indugio ricambiai con piacere il simpatico gesto. Ci guardavamo da un tavolo all’altro. Io ero ancora intruppato con gli Italiani, lei sembrava tedesca tra altri Tedeschi. Dovevo essere in ottima forma: i mesi della cura amorosa prestatami da Ifigenia mi avevano fatto un gran bene rendendomi più sano, più bello di corpo e più forte di mente. Nel bicchiere avevo messo dell’acqua, ottima[4] tra tutte le bevande, terapeutica più di ogni farmaco, molto utile e umile e preziosa e casta[5] e così via.
In ogni caso, che mi astenessi dall’alcol era uno dei segni della catarsi cui la splendidissima mi aveva avviato. Il proposito di rimanerle fedele perfino a Debrecen, con il senno del poi era follia pura, da manicomio, ma quella sera di luglio mi infondeva una calma interiore che, trapelando, mi faceva apparire misurato nei gesti, equilibrato, sicuro e perciò più piacente. Un amore vero o presunto, comunque sentito, tra gli altri vantaggi ha pure quello, tutt’altro che trascurabile, di imbellire gli amanti. Dopo la festa pomeridiana, calando la sera, andai a sedermi in una rientranza della facciata dell’edificio universitario, una specie di nicchia con una panchina di pietra. La fontana antistante, mentre verso le otto e mezza precipitava la notte, e i borsisti continuavano a uscire dal grande cortile interno, si accese di luci multicolori che resero i vigorosi zampilli simili, in piccolo, ai fuochi d’artificio lanciati per la festa solenne del 20 agosto a illuminare il grande scenario di Buda e di Pest, al di qua e al di là del Danubio.
Allora mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del ’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere dei termini, prossimi ormai, al segretario iracondo della mia facoltà.



continua


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[1]  Cfr. Padri e figli, p. 45.
[2] Cfr. Shakespeare, Enrico V, Prologo, 13
[3] E’ il nome di un vino rosso ungherese “Egri bika vér”, sangue di toro di Egere.
[4] Cfr. Pindaro, Olimpica I
[5] Cfr. Francesco d’Assisi, Cantico di frate sole, 16.

sabato 26 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte IX

Amore fugge da Psiche
Francois-Edouard Picot (1817)

PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA


Ora veniamo a Ovidio: "Hortor et ut pariter binas habeatis amicas/fortior est, plures si quis habere potest " (vv. 441 - 442) , vi consiglio di avere contemporaneamente due amanti per volta, è più forte uno se può averne diverse. Può succedere addirittura, anzi succede spesso, aggiungo, che l'amante serva a riconquistare l'amore del coniuge, moglie o marito, assaliti dal timore di perdere il compagno fino a quel momento trascurata. Gli adultèri, anzi gli amanti negli adultèri, non poche volte hanno il merito di salvare le coppie stanche.
Svevo dà il suggerimento opposto: "Un'amante in due è l'amante meno compromettente"[1].
Ovidio fa esempi mitici di amori nuovi che scacciano amori vecchi: a Tereo sarebbe piaciuta la bella moglie "sed melior clausae forma sororis erat " (v. 460) , ma era più bello l'aspetto della sorella rinchiusa. Un paradigma non troppo felice a dire il vero, poi altri assai meno noti. "Il nuovo catalogo di exempla mitici è redatto all'insegna del preziosismo, sia nella scelta dei miti - alcuni dei quali poco diffusi - sia nelle soluzioni lessicali"[2].
Quindi l'autore, con buon gusto, sente il peso dell'erudizione neanche tanto calzante e si affretta a sintetizzare: "Quid moror exemplis quorum me turba fatigat? /Successore novo vincitur omnis amor " (vv. 461 - 462) , perché perdo tempo con esempi di cui la calca mi stanca? ogni amore viene vinto da uno nuovo che gli succede.
Poi però gli viene in mente un exemplum più noto, efficace, e tale che gli consente un motto arguto: quello di Agamennone il quale, costretto da Calcante a lasciare Criseide, nel prendersi la somigliante e quasi omonima Briseide, avrebbe detto: "Est - ait Atrides - illius proxima forma, /et, si prima sinat syllaba, nomen idem " (vv. 475 - 476) , ce n'è una - disse l'Atride - vicinissima a lei per bellezza, e, se la prima sillaba lascia fare, il nome è il medesimo.
La seconda moglie in effetti di solito assomiglia alla prima anche se è più giovane. E' quasi una legge.
Achille me lo deve consentire, continua Agamennone, poiché sono re: se restassi senza donna, Tersite potrebbe prendere il mio posto. La storia dell'Atride capo della spedizione troiana in sé è assai tragica e notissima non solo per l'Iliade ma anche per la sua frequente presenza nella tragedia.
Ebbene Ovidio utilizza una vicenda del genere per consigliare di ridere sopra le perdite e i fallimenti, se non si vuole accrescere il dolore con il dolore e il danno con il danno.
"Ergo adsume novas auctore Agamennone flammas, /ut tuus in bivio distineatur amor. /Quaeris ubi invenias? Artes tu perlege nostras: /plena puellarum iam tibi navis erit " (vv. 485 - 488) , quindi, sotto l'esempio autorevole di Agamennone, accogli nuove fiamme, perché il tuo amore si divida ad un bivio. Chiedi dove si trovano? Leggi attentamente la mia Ars: subito la tua nave sarà piena di ragazze. - auctore, come il Discorso Ingiusto delle Nuvole di Aristofane utilizza Zeus per autorizzare l'adulterio, così Ovidio si avvale di Agamennone, senza dare peso alla sua brutta fine. - in bivio: in questo bivio, diversamente da quello di Eracle, non è necessario scegliere, anzi si devono seguire, a turno, entrambe le strade. - navis: di solito è allegoria dello stato, qui sembra rappresentare la domus dei sogni del libertino.
 La barca quale simbolo di uno stato d'animo ondeggiante sui flutti delle contraddizioni conseguenti all'amore si trova nel sonetto CI del Canzoniere di Petrarca: " O viva morte, o dilectoso male, /come puoi tanto in me, s'io nol consento? / Et s'io 'l consento, a gran torto mi doglio. /Fra sì contrari vènti in frale barca/mi trovo in alto mar senza governo, /sì lieve di saver, d'error sì carca/ch'i' medesmo non so quel ch'io mi voglio, /e tremo a mezza state, ardendo il verno" (CXXXII, 7 - 14) .

Viene raccomandato il simulare.
 Ovidio quindi suggerisce varie simulazioni: fingiti freddo quando ardi come se fossi dentro l'Etna, fingiti sano (et sanum simula, 493) perché non si accorga se hai qualche dolore, e ridi quando dovresti piangere. Insomma: "Quod non est, simula positosque imitare furores; /sic facies vere quod meditatus eris " (vv. 497 - 498) , fingi quello che non è, e simula che i furori siano deposti, così farai davvero quello che avrai meditato. - simula: l'amante deve essere dunque grande simulatore e dissimulatore di qualsiasi cosa, come il Catilina di Sallustio e il principe di Machiavelli per il quale " non può… uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro". Forse pure Ovidio potrebbe aggiungere "se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono, ma poiché sono tristi e non la osserverebbero a te, tu ancora non l'hai ad osservare a loro"[3].
"Intrat amor mentes usu, dediscitur usu; /qui poterit sanum fingere, sanus erit " (vv. 503 - 504) , l'amore entra nel pensiero con l'abitudine, con l'abitudine si disimpara; chi potrà fingersi guarito, sarà guarito. - usu... usu: l'amore e i pensieri d'amore, come tutte le altre attività umane, dipendono dalla pratica. - sanus erit: la maschera con il tempo diventa volto. A volte non è nemmeno necessario tenerla a lungo: " Non bisogna mai dire per gioco che si è scoraggiati, perché può accadere che ci pigliamo in parola"[4].

Il paraklausivquron anomalo
Seguono consigli sul comportamento da tenere davanti alla "ianua clausa " (v. 506) , la porta chiusa. Ovidio si pone fuori dal paraklausivquron topico: esorta l'amante respinto a sopportare: "feres. /Nec dic blanditias nec fac convicia posti/nec latus in duro limine pone tuum. /Postera lux aderit; careant tua verba querelis, /et nulla in vultu signa dolentis habe. / Iam ponet fastus, cum te languere videbit; /hoc etiam nostra munus ab arte feres " (vv. 506 - 512) , sopporta, non dire parole carezzevoli e non fare cagnara con l'uscio, e non stendere il fianco sulla dura soglia. Verrà il giorno seguente; le tue parole siano senza lagnanza, e non avere in volto nessun segno di uomo dolente. Subito deporrà la superbia quando ti vedrà indifferente; anche questo dono ricaverai dalla mia arte. - nec... nec: Ovidio utilizza il tovpo" del lamento davanti alla porta chiusa in maniera anomala. Questi loci possono essere impiegati, al pari di strumenti sintattici o lessicali, in contesti vari e con significati diversi. - languere: sembra che Ovidio stimi graditi e interessanti per le donne il languore e l'indifferenza, mentre secondo altri punti di vista la donna è molto attirata dal desiderio priapesco.
Del resto l'autore sa che le persone sono varie e dunque: "Nam quoniam variant animi, variabimus artes; /mille mali species, mille salutis erunt " (525 - 526) , infatti siccome sono vari i caratteri, varieremo i consigli; mille sono le forme del male, mille saranno quelle della guarigione. Il poeta consiglia quella "flessibilità", che ora è tanto di moda nel campo lavorativo. Corrisponde nella sfera erotica a quella che Guicciardini chiama "discrezione". In certi casi può essere risolutiva la sazietà, fino alla noia: " Taedia quaere mali: faciunt et taedia finem " (v. 539) , cerca la noia del male, anche la noia pone la fine.
 Altre volte può essere utile far cessare la diffidenza: "Fit quoque longus amor, quem diffidentia nutrit; /hunc tu si quaeres ponere, pone metum " (vv. 543 - 544) , diventa lungo anche un amore che la diffidenza nutre; se vorrai deporlo, metti via il timore. In questo caso chiaramente si amava non la persona ma la diffidenza e il sospetto suscitati da lei. La paura di perdere una donna è un grande incentivo a volerla: "Plus amat e natis mater plerumque duobus, /pro cuius reditu, quod gerit arma, timet " (vv. 547 - 548) , tra due figli la madre di solito ama più quello sul cui ritorno, siccome è in guerra, ha timore.
Cfr. Proust: Swann si innamorò di Odette dopo che una sera non l’ebbe trovata dai Verdurin dove andava di solito. Intervennero sospetto e gelosia.


"Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor", Amores, 2, 20, 36)

E' questo il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue. Tale locus ha un' ampia presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciasuno di noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde: "kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17) , e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75) , femmina ovina o umana che sia.
 Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è, come Callimaco, un rappresentante di una poesia cosiddetta postfilosofica: "Post - filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si rivolgono con amore al particolare"[5]. Lo stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia al particolare"[6] (p. 141) . La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale. Post - filosofica o almeno postilluministica sarebbe anche quella di Goethe: " Callimaco e Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica; al tramonto di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica, interiormente commossa"[7].
 "Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12, 102) liberamente tradotto per l'occasione in versi latini, è in Orazio il ritornello caro a questi incontentabili stolti: " Come il cacciatore insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa anche l'amante che dice: "Meus est amor huic similis: nam/transvolat in medio posita et fugientia captat " (Sermones, 1, 2, 107s.) . Ed è proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce ad Ovidio (in un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36)"[8], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
 E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse, della non praticabilità dell'amore.

Sentiamo qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente (8, 11) a questa legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia: "nec quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10) , non dare la caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato.
Nell' Hercules Oetaeus attribuito a Seneca, la nutrice di Deianira per consolare la sua alumna le dice che Iole ridotta oramai a schiava è una preda oramai troppo facile per Ercole e, quindi, non più ambita: "illicita amantur; excidit quidquid licet" (v. 357) , sono amate le cose non consentite, tutto quello che è concesso decade.
Nella Gerusalemme liberata leggiamo: "Ma perché istinto è de l'umane genti/che ciò che più si vieta uom più desìa, /dispongon molti ad onta di fortuna/seguir la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76) .
 Nella commedia La locandiera (del 1753) Goldoni fa dire alla protagonista, Mirandolina, in un monologo. "Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9) .
Una situazione analoga troviamo ne Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista dichiara il suo amore a Polina in questi termini: "Lei sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[9].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca, conclusa negli ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso concetto: "Qualsiasi essere amato - anzi, in una certa misura, qualsiasi essere - è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[10].

L'analogia con il cacciatore può essere estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono le ottave dell'Orlando furioso: "La verginella è simile alla rosa, /ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa, /né gregge né pastor se le avicina; /l'aura soave e l'alba rugiadosa, /l'acqua, la terra al suo favor s'inchina: /gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie ornate. //Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo verde, /che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto perde. /La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita aver de', /lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42 - 43) .

William Shakespeare,
Le allegre comari di Windsor, II, 2 (1602)
Love like a shadow flies when substance love pursues; /pursuing that that flies, and flying what pursues
L'amore come un'ombra fugge quando l'amore reale lo insegue, inseguendo quello che fugge, fuggendo chi l'insegue.

Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina: "Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e distrutto"[11].
Gozzano, su questa linea, sospira con ironia: " Il mio sogno è nutrito d'abbandono, /di rimpianto. Non amo che le rose/ che non colsi"[12].
Sentiamo infine C. Pavese: "Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"[13].



continua



[1] La coscienza di Zeno, p. 331.
[2]Ovidio, Rimedi contro l'amore, a cura di Caterina Lazzarini, p. 154.
[3] Il Principe, XVIII.
[4] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 5 agosto 1940.
[5] Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 372.
[6] Aristotele, Poetica, 1451b.
[7]Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 371.
[8]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore, p. 43.
[9] F. Dostoevskij, Il giocatore, p. 42.
[10] M. Proust, La prigioniera, p. 183.
[11] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 366.
[12] Cocotte, vv. 67 - 69.
[13] Il mestiere di vivere, 30 settembre 1937. 

Ippolito di Euripide IV parte. conclusione del prologo.

    Veniamo alla terza e ultima parte del prologo (vv. 88-120) Esce dal palazzo un servo che si rivolge a Ippolito con il vocativo ...