lunedì 21 dicembre 2015

La telefonata del 20 dicembre 1981 a Bologna e la Debrecen del 1979. I parte

foto di Fausto

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L’inverno a Venezia

Il 20 dicembre del 1981 accompagnai a Venezia, per una mostra dei Manieristi, un gruppo di studenti del liceo Rambaldi di Imola.
Arrivammo all’ora di pranzo che volli saltare per perdere peso: da quando, finita del tutto l’estate, Ifigenia era andata via, vivevo in solitudine, senza conforto di donna né calore di sole, e avevo paura di degradarmi con il cibo.
Infatti avevo già preso due chili e mezzo che ancora non mi deturpavano, ma erano un preludio evidente a uno sfacelo non tanto remoto, a una caduta nella deformità deplorata e colpevole.
Lasciati i ragazzi a un collega volonteroso e famelico, salii sul ponte di Rialto rischiarato da un sole fioco e bolso come un lampione.
Nella città “regale e pitocca”[1], fluivano gli eterni turisti. Sbucavano in fila da calli anguste dove il sole dicembrino non riesce a mandare mai, o quasi mai, i suoi raggi santi. Usciti dai cammini stretti e obbligati, questi invasori senz’armi si allargavano in torme disordinate, svogliate, gelate dall’indifferenza più che dal tetro freddo invernale.
Saliti sul ponte, facevano fotografie o si mettevano in posa con qualche sorriso comandato da chi li riprendeva ghignando, sciocco o demente, o piuttosto astuto e maligno.
“Non c’è cosa più amara”, pensavo, “della gente attuale: chiassosa o muta, faziosa e superficiale, priva di idèe e di sentimenti profondi. I loro cattivi maestri sono i politici, le mode, l’istigazione pubblicitaria a comprare schifezze. Dalla televisione ci intronano le chiacchiere becere di gente parassitaria, servile, ignorante e maliziosa assai.
Intanto questa larva di sole si piega sui tetti come un vecchio stremato cade nel suo letto di morte. All’una e ventotto minuti si è appoggiato sopra un camino. Ancora dipinge di un rosa sporco le pietre biancastre di questo ponte alto sull’acqua, ma la sponda occidentale del cupo canale erutta un’umida nebbia nell’ombra della sera precoce”.
Ricordai una gara podistica vinta e trionfata nel luminoso calore di un’estate lontana quando Ifigenia mi abbracciò piena di gioia per quel successo che lei mi aveva ispirato, incitandomi come una dea con il suo eroe preferito. “Noi due siamo i più belli, i più intelligenti, i più forti e i più innamorati del mondo”, diceva. Poi però la ragazza se n’era andata con il celebre, vecchio istrione gradasso.
Finita la commemorazione, ripresi a pensare: “Potrei scoraggiarmi per questa mancanza di luce, calore e bellezza nel mondo, invece aspetto con fede la resurrezione del sole invitto e di me stesso sferzato dai raggi del dio intrecciati di fiamme potenti come fruste di fuoco capaci di risvegliare i sensi assopiti e l’anima stanca. Incontrerò un’altra volta una giovane donna dal sorriso che scalda e rende fervido il sangue pulsato dal cuore rinato alla vita. Ne sono sicuro, quasi sicuro”.
Andato alla mostra, vidi figure contorte sotto cieli di nuvole nere squarciate da lampi oscuri e minacciosi.
Tornato all’aperto, nel crepuscolo tragicamente precoce osservavo le ragazze, veri gioielli di carne assai più preziosa di ogni pietra costosa. Le femmine umane, anche se infreddolite, sono capaci di comunicare calore a chi sa guardarle con simpatia. Pensavo alle loro gambe snelle e tornite quando si muovono svelte agitando le gonne sul lungomare, ai loro seni, ai loro grembi odorosi[2] che corrono giovanilmente sopra i prati fioriti.
 Intanto la palla del sole pur semisgonfia di luce, lasciava lievi segni purpurei sulle penne di uccelli grigi che si libravano sopra le cupole verdi già quasi sommerse dalle onde fumose della bruma invernale. Sorridendo al sole moribondo, agli uccelli dalle ampie ali e alle donne benedette da Dio, presentivo la bella stagione. Non mancavano più tante ore all’agognato dies natalis solis invicti.
La sera a Bologna, verso le dieci, telefonò Ifigenia.


continua


p.s.
21 dicembre 2015, ore 10. Sto andando (ancora!) a scuola.
Oggi è di nuovo il dies natalis solis invicti, appunto. Il primo fra tutti gli dèi, la santa faccia di luce tornerà presto a scaldarci.
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[1] Cfr. Thomas Mann, La morte a Venezia, cap. III.
[2] Cfr. Aristofane, Pace: o[zei (…) kovlpou gunaikw'n diatrecousw'n ej" ajgrovn (v. 529 e v. 536)

1 commento:

  1. Finalmente ritorna la narrativa...evviva! Giovanna Tocco

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