giovedì 17 dicembre 2015

Topoi greci antichi nel linguaggio di politici e giornalisti italiani di oggi. II parte

foto di Polina Oshmianskaya

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La paura del tiranno. Metus tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo
Domiziano (81 - 96) invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia: "Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli " (Agricola[1], 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.

Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea (119 sgg. 9, e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502 - 507) e pure ne ha: metus tyranni è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo".
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca: " Qui sceptra duro saevus imperio regit, /timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703 - 704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” (II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.

Nell'Edipo re di Sofocle, il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh; " th'" ejmh'" turannivdo"" (vvv. 535), ladro evidente del mio potere. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein. . . xu; n fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie, che teorizza la necessità e la liceità dell’ingiustizia per il potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
 "La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[2].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che per lui è il potere.
Per Eteocle la massima divinità è la tirannide (v. 506) e per essa può essere bellissimo anche commettere ingiustizia: "ei[per ga; r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn", (Fenicie vv. 524 - 525) se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio. Cicerone considera questo Eteocle, o addirittura Euripide, meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides) poiché fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare: "Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis, III, 82).
 La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio: "Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[3], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito citato sopra.

 Il tiranno è circospetto perché teme. La sua paura accompagna il suo potere: “governare in mezzo alle paure”, questa è la condizione del tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585[4]).
Questo e altro dunque sta dietro alla costituzione del topos che esecra la tirannide ora deprecata quasi da tutti, anche se può essere attribuita in vari modi a un persona, a un intero governo, o a un’istituzione.

Le guerre in Iraq e in Libia sono state rovinose per tutti, eppure si continua a dire che erano necessarie per abbattere i due tiranni

L’idea che abbiamo noi della tirannide risale a questa cattiva stampa elaborata dagli autori greci citati sopra.

Esportare la democrazia, ad ogni costo, significa la pretesa di eliminare l’obbrobrio della tirannide quale è raffigurata, come abbiamo visto, da Erodoto, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone e Tacito.
Ma una violenza non si elimina con altre violenze bensì con la cultura e l’educazione

Critiche alla democrazia, assimilabili a quanto si dice ora sul “populismo”. Aristofane, Senofonte, Platone, Il “Vecchio oligarca” Aristotele, Polibio, Cicerone.

Il termine dhmokrativa non significa per tutti libertà né uguaglianza di fronte alla legge.
Oggi nei giornali si critica il populismo e si fa rientrare in questa categoria ogni opposizione a governi magari neppure eletti dal popolo.

Vediamo allora alcune critiche alla democrazia negli autori antichi
Aristofane, in forma comica, poi Senofonte, Platone Aristotele e Polibio denunciano la demagogia, il disordine, la corruzione e la prepotenza che possono annidarsi questo sistema.

Aristofane nelle Vespe fa dire a Filocleone, uno dei giudici parziali del tribunale popolare dell’Eliea, che questi magistrati potevano approfittare della carica e non dovevano rendere conto del male che facevano (ajnupeuvqunoi drw`men, 587). Si comportavano dunque come i tiranni
Sicché, davanti agli Eliasti se la fanno sotto i ricchi
 ejgkecovdasiv m j oiJ ploutou`nteς (627). Perfetto di ejgcevzw.

Un episodio che mostra la prepotenza del popolo è quello della condanna sommaria degli strateghi pur vincitori della battaglia delle Arginuse (406 a. C. 9.
Chi si opponeva alla proposta di condanna sosteneva che questa era illegale poiché non distingueva le responsabilità individuali: tra costoro c'erano alcuni pritani, ossia presidenti di turno del consiglio, che si rifiutarono di proporre la votazione contraria alla legge. Ma Callisseno raddoppiò la razione di odio contro i difensori della legalità e la massa minacciò quanti non volevano mettere ai voti il giudizio capitale.

Senofonte, Elleniche I, 7, 15.
L'unico dei pritani che non si lasciò spaventare fu Socrate il quale si rifiutò di mettere ai voti la proposta contraria alla legge.
" E i pritani, spaventati, accettavano tutti di mettere ai voti la proposta, tranne Socrate figlio di Sofronisco: questo diceva che non avrebbe fatto nulla se non secondo la legge".
 - prutavnei": i prităni erano i cinquanta consiglieri, rappresentanti di una delle dieci tribù, che per una decima parte dell'anno presiedevano la boulhv, a turno, guidati da un ejpistavth" tw'n prutavnewn, presidente dei pritani, che mutava giornalmente.
La parte eroica di Socrate in seguito alla battaglia delle Arginuse. Sconvolgimenti successivi.
Il maestro di Senofonte, di Platone, ma pure del trasgressivo Alcibiade, si rifiuta qui, come nel Critone di andare contro la legge. Nel dialogo platonico le leggi personificate parlano al vecchio educatore condannato a morte e lo esortano a dare retta a loro che sono le sue nutrici: "peiqovmeno" hJmi'n toi'" soi'" trofeu'si"[5], e di morire pensando di avere ricevuto offesa non da loro, bensì dagli uomini.
Questo dialogo platonico tratta delle ultime ore del maestro.
L’ episodio del processo agli strateghi delle Arginuse raccontato nelle Elleniche viene ricordato anche da Platone, nell'Apologia dove Socrate ricorda di non avere mai avuto cariche ma di avere fatto parte della boulhv (" ejbouvleusa dev") e mentre la sua tribù, la Antiochide, esercitava la pritania, gli Ateniesi vollero giudicare tutti insieme e illegalmente ("ajqrovou" krivnein, paranovmw"") gli strateghi che non avevano recuperato gli uomini della battaglia navale delle Arginuse; ebbene in quell'occasione, ricorda ancora il vecchio a sua volta processato: " ejgw; movno" tw'n prutavnewn hjnantiwvqhn uJmi'n mhde; n poiei'n para; tou; " novmou" kai; ejnantiva ejyhfisavmhn"[6], io solo tra i pritani mi opposi a che voi agiste contro la legge e votai contro; e mentre gli oratori denunciavano, e voi li incitavate e gridavate, io pensai di dover correre dei rischi con la legge e la giustizia piuttosto che essere con voi mentre stavate decidendo l'ingiustizia ("meta; tou' novmou kai; tou' dikaivou w[/mhn ma'llovn me dei'n diakinduneuvein h] meq j uJmw'n genevsqai mh; divkaia bouleuomevnwn"), per paura del carcere o della morte.
Senofonte ci racconta quale parte ebbe Socrate in questa storia anche nei Memorabili, uno scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica. Ebbene nel primo libro leggiamo che in questa circostanza Socrate era ejpistavth", una sorta di presidente del consiglio, e che in tale altissima funzione non volle mettere ai voti la proposta di mandare a morte tutti gli strateghi con un sol voto, nonostante l'ira del popolo contro di lui e le minacce di molti potenti ("oujk hjqevlhsen ejpiyhfivsai, ojrgizomevnou me; n aujtw'/ tou' dhvmou, pollw'n de; kai; dunatw'n ajpeilouvntwn", I, 1, 18). Non volle infatti ingraziarsi il popolo a costo di trasgredire il giuramento fatto.

Quest'opera è più in generale apologetica della figura di Socrate che viene difeso anche dall'accusa di essere stato "cattivo maestro" di Alcibiade e Crizia, il sanguinario capo dei trenta tiranni, con il motivo dei "cattivi allievi" i cui istinti malvagi si scatenarono dopo essersi allontanati dall'educatore che infatti li teneva a freno (Memorabili, I, 2, 24 e sgg. 9.

Durante il processo ci fu dunque un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino; n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to; n dh'mon pravttein o} a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche, I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", ed è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4: " quando il popolo è padrone di fare quello che vuole")”. [7]
Sentiamo direttamentr Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4, 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua lo storiografo, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me; n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora uno solo che dica di essere amico del popolo (eja; n fh'/ movnon eu[nou" ei\nai tw'/ plhvqei).
E' dunque una costituzione "populista", piacevole, anarchica e variopinta, una costituzione dalla tollerranza (suggnwvmh) eccessiva di vizi e debolezze e tale che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Ora viene tolta la tassa sulla prima casa a tutti, senza distinzione.

E' un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque, se è vero quanto dice Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali"[8].
Io credo pure che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.




continua

[1] Del 98 d. C.
[2]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, p. 47.
[3]De Catilinae coniuratione, 7.
[4] a[rcein.  xu; n fovboisi (v. 585) ndr.
[5] Platone, Critone, 54b.
[6]Platone, Apologia di Socrate, 32b.
[7]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica, Volume I, Tomo II, p. 835.
[8] Lettera a una professoressa, p. 55. 

1 commento:

  1. Studiare gli antichi serve davvero a capire il presente. Grazie per questo blog. Giovanna Tocco

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