lunedì 31 maggio 2021

Shakespeare, "Riccardo III". XXI. Il colloquio di Riccardo con la madre

 L’affitto del ventre materno
 
La duchessa di York pone a Riccardo una domanda che  per lo meno dal punto di vista biologico è retorica: “Art thou my son?” (IV, 4, 155), sei tu mio figlio?
Sembra preludere a una richiesta di rispetto. Vedremo da questo dialogo che la propria madre è la persona più rispettata da Riccardo. Questo fatto lo fa assomigliare un poco a Coriolano.
Riccardo in effetti risponde: “Ay, I  thank God, my father, and yourself” (156), sì grazie a Dio, a mio padre e a voi stessa.
Il ringraziamento a Dio e ai genitori per la propria vita viene fatto quando la vita pare arridere.
La madre chiede al figlio di ascoltare con pazienza la sua impazienza. Non prende la mano che il figlio le ha teso.
Riccardo cerca ancora una conciliazione con sua madre facendole notare che è simile a lei: “Madam, I have a touch of your condition,-that cannot brook the accent of reproof” (158-159),  Signora, ho un tratto del vostro carattere, che non può sopportare il tono del rimprovero.
Ma la madre è dura quanto  lui, ancora di più, e vuole, appunto, rimproverarlo
O let me speak”, oh, lasciami parlare.
Riccardo capisce che sta per dirgli non bona dicta e ribatte “parlate allora, ma non vi ascolterò” (160)
La duchessa promette: “I will be mild and gentle in my words” (161), sarò mite e gentile nelle mie parole. L’attrice dovrà fare questa battuta con il tono del sarcasmo, lasciando intendere “per quanto è possibile con il demonio”. Lo ricavo dalle parole successive della duchessa di York.
Ma prima Riccardo dice: And brief, good mother, for I am in haste (162) e breve, buona madre, perché ho fretta.
Con questa battuta dà un altro segno di essere simile a sua madre che poco prima aveva biasimato il fatto che la calamità fosse piena di parole-full of words (126 citato sopra).
La duchessa risponde polemicamente al figlio facendogli notare l’ingratitudine della sua fretta mentre lei lo ha aspettato, dio sa con quanto tormento e angoscia. Penso che si riferisca al parto e ai nove mesi che lo precedono. Le madri almeno in letteratura lo fanno spesso.
 
Olimpiade scriveva male di Antipatro cercando di screditarlo agli occhi di Alessandro il quale diceva che la madre esigeva un affitto pesante (baru; dh; to; ejnoivkion tw'n devka mhnw'n, Arriano, 7, 12, 6) per i nove mesi nei quali lo aveva tenuto in grembo.  
 
 Le sofferenze del parto
La Medea di Euripide afferma di preferire la guerra al parto  inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi.
“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. ( Medea, vv. 248- 251).
 
Ennio (239-169 a. C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parĕre”, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte che partorire una volta sola.  
 
Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531-532). Qui il seminare conta meno del partorire, diversamente dalle Eumenidi di Eschilo.
 
Più avanti Clitennestra viene a sapere che Oreste è morto in una gara di carri. La notizia è falsa ma la madre la crede vera. Quindi chiede a Zeus che cosa significhi questo-tiv tau'ta; 766 ,
 Se sia una fortuna o una cosa tremenda, ma utile (povteron  eujtuch' legw- h] deina; me;n, kevrdh dev; 766-7677). Comunque è penoso se mi salvo la vita a prezzo dei miei lutti commenta  (768).
Il pedagogo le domanda perché sia così turbata e Clitennestra risponde
deino;n to; tivktein ejstivn ( Sofocle, Elettra, 770), partorire è tremendo, e di fatto neppure a quella che subisce del male sopravviene odio per i figli che ha partorito  oujde;  ga;r kakw'"-pavsconti mi'so" wn tevkh/ prosgivgnetai (771)
 
Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
 
Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola,  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav). 
 
Tanto più perché il parto può causare una perdita di bellezza: nell’Hercules Oetaeus di Seneca, Deianira, vedendo la fulgida bellezza della giovanissima Iole, lamenta l’oscurarsi della propria con queste parole: “Quidquid in nobis fuit olim petitum, cecidit et partu labat” (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era desiderato, è caduto e con il parto vacilla.
 
Torniamo a Shakespeare.
Riccardo domanda, forse con ironia, ma non ne sono tanto sicuro: “and came I not at last to comfort you?” (165) e non sono venuto dopo tutto a consolarvi?
 
Sentiamo ora la tirata ella duchessa contro il figlio
Gli dice “sei venuto sulla terra per farne il mio inferno: to make the earth my hell (167). Quindi ne rievoca la vita tutta piena di affanni per lei e per chiunque stesse vicino  a Riccardo: la sua nascita fu a grievous burden (168) un penoso fardello per la madre, l’infanzia capricciosa e ribelle, gli anni di scuola paurosi,  sfrenati, selvaggi, furiosi, la prima giovinezza ardita, temeraria, avventurosa. Fin qui la madre è quasi elogiativa con il figliolo. Ricorda le prime parti dei sette atti della vita ( Cfr. As you like it  II, 7),  
Più negativa diventa la maturità: “Thy age confirmì’ d, proud, subtle, sly, and bloody (172), la tua età matura orgogliosa, subdola, scaltra e sanguinaria; più quieta, ma più nociva e gentile nell’odio.
Quale ora di consolazione dunque può esserci stata nella sua compagnia?
Riccardo risponde da loico: onestamente nessuna, ma se sono così privo di grazia agli occhi vostri, signora, lasciate che prosegua la mia marcia senza offendervi.
La madre chiede al figlio di ascoltarla ancora per poco.  Poi non si vedranno più
Riccardo le fa notare che parla too bitterly (180)  troppo amaramente
Sembra chiedere aiuto alla madre, una sua benedizione
Invece la duchessa lo maledice: “take with thee my most grievious curse (188), prendi su di te la mia maledizione più pesante: che il giorno della battaglia ti stanchi più dell’armatura che porti.
Dice che le sue preghiere saranno alleate dei  nemici di Riccardo, come le piccole anime dei nipotini occisi
Bloody thou art, bloody will be thy end
Shame serves thy life and doth thy death attend  (195-196),  sanguinario sei tu e insanguinata sarà la tua fine. La vergogna scorta la tua vita e accompagni la tua morte
 
 La mano sporca di sangue non si lava.
 
Versare il sangue a terra è un peccato irredimibile
Il coro dell'Agamennone nel terzo stasimo canta:"una volta caduto a terra-to; ga;r ejpi; ga'n peso;n a[pax) , nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?"(vv. 1019-1021).
Una domanda retorica che afferma la sacralità della vita umana e trova un correlativo cristiano in questa del Manzoni che mette in evidenza la mano:" il sangue d'un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra"(Osservazioni sulla morale cattolica, VII)
 
Nella Parodo delle Coefore il Coro canta:" Tutti i canali convogliati in un'unica via, bagnando la strage che imbratta la mano, correrebbero inutilmente a purificarla"(vv.72-74). Nella lamentazione funebre che conclude il primo episodio, Oreste ribadisce :"infatti se uno versa tutti i libami in cambio di una sola goccia di sangue, vano è il travaglio: così è il detto" ( Coefore, vv. 520-521).
 
Nel Macbeth  il protagonista, dopo che ha assassinato il re, fa:" Will all great Neptune's Ocean wash this blood clean from my hand?, tutto l'oceano del grande Nettuno potrà lavar via questo sangue dalla mia mano? No, piuttosto questa mia mano tingerà del colore della carne le innumeri acque del mare facendo del verde un unico rosso (II, 2).
 
Il modello di questo passo si trova nella Fedra di Seneca dove Ippolito, sentendosi contaminato dalla matrigna, dice:" quis eluet me Tanais aut quae barbaris/Maeotis undis pontico incumbens mari?/Non ipse toto magnus Oceano pater tantum expiarit sceleris, o silvae, o ferae! " (vv.715-718), quale Tanai mi laverà o quale Meotide che con le barbare onde preme sul mare pontico? Nemmeno il grande padre con tutto l'Oceano potrebbe purificare un delitto così enorme. O foreste, o fiere!
 
Lady Macbeth in un primo momento afferma che poca acqua basterà a pulire le mani lordate dal misfatto:"A little water clears us of this deed  " (Macbeth, II, 2) leggiamo nella tragedia di Shakespeare[1].
Più avanti la stessa donna che, aizzando il marito al tradimento e al delitto, era sembrata tanto salda, resa malata dal crimine sospira:"All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand  ", tutti  i balsami d'Arabia non basteranno a profumare questa piccola mano (V,1). Fa il gesto di lavarsi le mani  che non si nettano mai: “yet here’s a spot (…) Out damned spot!”, viia macchia maledetta
E il dottore: “unnatural deeds do breed unnatural troubles  (V, 3) atti contro natura producono turbamenti innaturali.
 
 
Bologna 31 maggio 2021 ore 21 e 43 dopo la bicicletta. Il sole tramonta alle 20 e 54, a destra di San Luca osservandolo dal monte Donato.
giovanni ghiselli
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[1] Una battuta che nel libretto di Piave del melodramma musicato da Verdi diventa:" Ve' le mani ho lorde anch'io; poco spruzzo e monde son"  (Macbeth, I atto). 

La vacanza sciistica a Moena nel marzo del 1981. 9. Il calcolo epicureo

Scendevo verso Moena e pensavo: “è possibile che quella eterna cretina e nemica, non riesca a parlare senza darmi l’angoscia? Anche oggi quando ero riuscito ad armonizzare i pezzi scombinati dell’anima mia, quella sciagurata ha coluto frantumare e confondere tutto un’altra volta”

Arrivato nel mezzo del paese rabbrividivo vedendo spruzzi di acqua fredda  sollevarsi dalle basse cascate del fiume, mi spaventava il fruscio lieve di un’ala, come il cupo ululato di cagne inquiete pronte a balzarmi addosso dalle tenebre cieche dove si tenevano in agguato piene di fame e di rabbia.

Ero indeciso se proseguire o tornare nell’albergo, salire e chiudermi in camera senza fare alcuna telefonata alla nemica.

Ma sì che frequentasse pure le discoteche piene di miasmi con la gente della levatura sua:  i tangheri beceri e le mime sfacciate.  

Però poi pensavo pure che senza di lei forse avrei perduto la voglia e la forza di leggere i libri o per lo meno la capacità di impararne le frasi belle quelle che colpiscono e segnano la sfera emotiva perché questa, orbata di Ifigenia, sarebbe rimasta inaridita, insensibile al bello. Non conoscevo altre donne che mi interessassero tanto, nel bene e nel male.

Mi aggrappai a pensieri volti a una composizione del discidium provocato dalla telefonata infame.

Mi dissi: “oggi c’è stato un sole meraviglioso per tutto il giorno, poi sono arrivate le stelle, le tacite, pacifiche stelle. O stanco dolore riposa!

La vita è prossima a fiorire e fogliare, tu sei in ottima forma; se quella giovane donna gradisce anche compagnie scellerate, a te cosa toglie?

Ifigenia dà a te il meglio che ha: te lo riflette mentre si specchia in te. Questa parte migliore è il suo coniunctum. Il resto è eventum che non ti riguarda.

Avanti giovanni, non temere gli ululati nel buio, né i singulti dell’acqua,  né i fruscìi dei cespugli: a te non possono fare del male: tu sei forte e fortunato, altrimenti tutte le avversità che hai incontrato fin da bambino ti avrebbero già distrutto da tempo. Ifigenia è bella e l’amore che hai fatto con lei ha imbellito anche te, e ti ha rafforzato. Non sputare nel piatto dove hai gustato queste prelibatezze ordinate dal buon Dio a cuochi epicurei e destinate a te”.

Epicuro mi venne in mente perché stavo facendo il conto, da lui consigliato, dei vantaggi e degli svantaggi causati dal mantenere la pur tormentosa relazione con Ifigenia.

“Ora continua a camminare fino alla Malga Panna - conclusi - poi telefona alla tua necessaria amante e dille parole concilianti: che venga, che l’aspetti, che l’ami, che hai fatto male a dubitare di lei. Chiedile scusa”.

Così proseguii e giunsi sul limitare del bosco occidentale che lambiva la Malga. Avevo schivato ancora una volta le rabide cagne chiuse nei fienili e pure le forsennate inquiline che latravano dentro il  mio inquieto cervello.


Bologna 31 maggio 2021 ore 17, 22

giovanni ghiselli  


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Shakespeare, "Riccardo III". XX. Madri che maledicono il proprio parto

La duchessa di York e Medea
 
Le due ex regine Elisabetta e Margherita cercano parole taglienti, non ottuse - dull - per maledire gli assassini.
Interviene la terza donna anziana orbata dei figli, la duchessa di York madre del maximus sceleratus Riccardo,  e domanda:
Why should calamity  L.  acc. calamitatem misfortune- be full of words? (Shakespeare, Riccardo III, IV, 4, 126) perché la calamità dovrebbe essere piena di parole?
Bravo nel parlare e nello scrivere si associa a brevis, insegna Orazio: quidquid praecipies esto brevis, ut cito dicta-percipiant animi dociles teneantque fideles (Ars poetica, 335-336), qualunque cosa vorrai comunicare, sii breve, affiché le menti disposte a imparare apprendano presto quanto hai detto e lo mantengano fedelmente.
 Ora si fanno chiacchiere infinite su problemi veri e pure falsi senza risolverne alcuno. Fiumi di parole inconcludenti su tragedie orribili e su sciocchezze irrilevanti affinché nulla cambi.
 
Elisabetta replica che la verbosità può servire ad alleviare il cuore.
Credo che coloro i quali parlano in continuazione non sopportano il prossimo, non vogliono ascoltarlo, né sopportano se  stessi: le vuote ciance servono a tenersi lontano dalle persone, dai problemi reali e dalle poprie sventure.
 
La duchessa dà ragione a Elisabetta e le chiede di dare fiato alla tromba e non lesinare invettive: be copious in exclaims (135) contro my damned son (134) il figlio mio maledetto.
 
Entra  Riccardo con il suo seguito. Vengono avanti con tamburi e trombe
Il re usurpatore domanda chi  è che cerca di arrestare la sua marcia.
La duchessa che l’ha messo al mondo  risponde che la madre stessa avrebbe dovuto arrestare  la marcia del figlio empio  strangolandoti nel suo ventre maledetto - by strangling - L. strangulare. - Gk. straggaluvein, straggalivzein - thee in her accursed womb” 138  in modo che avrebbe sbarrato la via a tutte le stragi commesse dallo sciagurato wretch 139.
.   
La maternità fallita suscita in questa donna come in Medea l’ira contro il proprio ventre
Medea pensa di incenerire l'istmo di Corinto e di assumere la ferocia massima negando la propria femminilità:"Per viscera ipsa quaere supplicio viam,/si vivis, anime, si quid antiqui tibi/remanet vigoris pelle femineos metus (Seneca, Medea, vv.40-43) attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale.
 
E più avanti, quando Giasone la supplica di risparmiare almeno il secondo figlio, Medea risponde:
se nel mio ventre materno si nasconde ancora qualche pegno "scrutabor ense viscera, et ferro extraham" (v. 1011-1012), mi frugherò le viscere con la spada e con il ferro lo tirerò fuori.
 
Le donne ora non fanno figli anche per i troppi orrori cui assistono. A questi potrebbe porre freno solo una cultura diversa, impartita dalla scuola e dalla televisione ma si continua a insegnare che quello che davvero conta è soltanto il denaro per comprare di tutto anche quanto avvelena l’umanità e il pianeta.
 
Elisabetta domanda a Riccardo se creda con la corona di nascondere i segni di infamia che dovrebbero essere impressi sulla sua fronte.
La madre gli chiede dove sono Clarence e il figlio di lui Edward Plantageneto, poi dov’è Hastings. Solo alcune delle sue vittime.
 
Riccardo non risponde ma ordina di suonare le trombe e colpire i tamburi: let not the heavens hear these tell-tale women- (150) no permettete che i cieli odano queste donne chiacchierone mentre inveiscono contro l’unto del signore.
Vuole annegare gli improperi sotto il rimbombo assordante della guerra.
Durante le trasmissioni televisive, quando una rara avis prova a muovere critiche ragionate a questo sistema, viene interrotto dal conduttore che ha ricevuto l’ordine di mandare in onda the clamorous report (153) il rimbombo assordante della pubblicità che è comunque una guerra: alla sobrietà alla temperanza, allo stile, alla bellezza, alla cultura.

Bologna 31 maggio 2021 ore 11, 41
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Shakespeare, "Riccardo III". XIX. un assaggio della prossima lezione

Attualità di Shakespeare e Orazio

Le due ex regine Elisabetta e Margherita cercano parole taglienti, non ottuse - dull, per maledire gli assassini.
Interviene la terza donna anziana orbata dei figli, la duchessa di York madre del maximus sceleratus Riccardo,  e domanda:
Why should calamity  L.  acc. calamitatem misfortune- be full of words? (Shakespeare, Riccardo III, IV, 4, 126) perché la calamità dovrebbe essere piena di parole?
Bravo nel parlare e nello scrivere si associa a brevis, insegna Orazio: quidquid praecipies esto brevis, ut cito dicta-percipiant animi dociles teneantque fideles (Ars poetica, 335-336), qualunque cosa vorrai comunicare, sii breve, affiché le menti disposte a imparare apprendano presto quanto hai detto e lo mantengano fedelmente.
 Ora si fanno chiacchiere infinite su problemi veri e pure falsi senza risolverne alcuno. Fiumi di parole inconcludenti su tragedie orribili e su sciocchezze irrilevanti affinché nulla cambi.

Bologna 31 maggio 2021 ore 10, 9
 giovanni ghiselli

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domenica 30 maggio 2021

La vacanza sciistica a Moena nel marzo del 1981. 8. La telefonata angosciante

Il giorno seguente il cielo si mantenne sereno, sicché mi affidai alla cosmesi offerta dal Sole, il primo fra tutti gli dèi che mi rese più bello, più sicuro di me.

Quando il dio andò a coricarsi dietro il Sass da ciamp alle cinque e tre quarti lasciando nell’ombra prima Sorte, poi il cimitero con la chiesa, quindi l’intera Moena, gli chiesi la forza di amare Ifigenia.

Le telefonai alla solita ora con i gettoni. Dopo il tramonto avevo anche studiato per un paio di ore. Ero contento. Mi sentivo in ottima forma: snello, abbronzato, senza debiti con cicchessia L’eremitaggio di Moena era quasi finito: la sera seguente lei sarebbe arrivata alla stazione di Trento. Sarei andato a prenderla là con la bianca Volkswagen. Durante il viaggio avrei preparato un’accoglienza degna e avrei immaginato una conversazione adeguata alla levatura delle nostre intelligenze, del nostro amore. La sua presenza luninosa avrebbe messo in fuga le malinconie residue e gli ultimi freddi con il buio del mio scontento. Il sole della mattina seguente avrebbe celebrato feste di luce entrando nella nostra camera esposta a oriente.

Feci il numero. Rispose lei stessa.

“Ciao amore, Sono gianni. Mi sei mancata tanto. A che ora arriverai domani?”

“Anche tu mi manchi” fece lei, senza ripetere “tanto” però. Quell’”anche” poi poteva significare che pure un altro le era mancato, ma questo secondo appunto è certamente un’esagerazione. La reticenza invece voleva dire qualcosa: mancanza di entusiasmo, del fuoco sacro e divino dentro l’anima sua.

Infatti, subito dopo, come se avesse deciso di darmi pena, o fosse costretta da un fato ineludibile a rendere brutto e cattivo, addirittura schifoso il nostro rapporto, un fato magari provvido di scopi più alti, disse: “Tra poco arriva da Erba la mia cugina preferita. Così ci troveremo tutte e tre in casa mia. Parleremo a lungo: abbiamo tanto da dirci”.

Sentii una stretta nel petto, forte e dolorosa. Mi irrigidii e con voce turbata forse già sepolcrale, domandai. “Significa forse che non vieni più qui a Moena? Che cosa vuoi dirmi?”

“No, gianni, non voglio dire questo”, rispose allarmata, avendo compreso che quella novella non era buona per me. Le sue cugine non mi erano gradite, né io a loro, e lei lo sapeva. Cosa del tutto inopportuna era stata l’esordio con quella brutta notizia. Una persona sensibile soffre pene tartarèe davanti a tali errori.

Non potevo tenere a bada la mia sofferenza e le domandai direttamente con il tono adeguato a tanta insensibilità: “Allora che cosa vuoi dire? Perché inizi una telefonata che io avevo aperto con disposizione ottima, parlando delle tue parenti che a me sono ostili, e delle quali a me, bene che vada non importa un fico secco? Sarebbe come se io, avessi esordito dicendoti; “sai, domani andrò a paranzo e mi berrò fino a ubriacarmi con lo scemo del paese. Poi andremo a zonzo e  sai le risate!”

Ifigenia cercò di rimediare l’errore con parole dolciastre che rinfocolarono la mia ira già fervida e ribollente.

“Dai, non fare così: non rovinare ogni cosa! Io ho una grandissima voglia di vederti, di riempirti di baci! Hai capito tesoro?”

“Sì, ho sentito e, nonostante il mio essere ritardato, ho capito che per te  l’evento più grande e importante di domani  è rivedere le tue cugine e che quando verrai qua mi rinfaccerai di averti fatto rinunciare alla delizia di frequentarle e chiacchierare più a lungo con loro per raggiungere me, uomo da strapazzo, in questo paese freddo e lontano, come facesti la notte di capodanno tra i monti di Bratto. Questa volta però pensaci bene: se devi venire quassù a tenermi il muso, resta pure a Bologna! Ti richiamerò tra un’ora per chiederti di farmi sapere  se davvero vuoi  venire da me o preferisci rimanere lì dove sei”

A questo punto Ifigenia si risentì a sua volta e passò al contrattacco: “Ho capito - fece - ci penserò e te lo dirò. Tu  telefona pure, se vuoi, ma non qui a casa mia. Sto per uscire. Vado a trovare un’amica. Se vuoi, ti do il numero.”

“Sì’, grazie,  dammelo. Ti richiamerò più tardi, verso le dieci”

“fai come ti pare” disse e, dettato il numero telefonico, riattaccò.

Uscìi per cercare dbonforto nel cielo stellato. Inveve mi sembrò gremito di faci maligne, accese dal re dell’inferno. Avevo di nuovo l’inferno nel cuore. “L’unica salvezza - pensai - è non avere bisogno di nessuno.”


Bologna 30 maggio 2021 ore 18, 31

giovanni ghiselli


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Shakespeare, "Riccardo III". XVIII. Le due ex regine. Margherita a Elisabetta: regina dipinta

 Quindi: madre per beffa,  regina per burla, fatta per riempire la scena.
 
Segue una tirata dell’ex regina Margherita  che annichilisce la regalità dell’ex regina Elisabetta. Ora sono due disgraziate ma pure da regine erano due povere donne
Ricordo che Margherita era la moglie di Enrico VI Lancaster che regnò fino al 1471 quando venne ucciso fa Edoardo IV di York marito di Elisabetta e fratello di Riccardo che succedette al fratello uccidendone i figli maschi e regnò dal 1483 al 1485.
Margherita dunque chiama Elisabetta “poor shadow, painted L.  pingere - picta - queen” (IV, 4, 83), povera ombra, regina dipinta.
 
Nell’Elettra di Euripide il coro, composto da contadine argive considera Elena regina di Sparta pollw`n kakw`n aijtivan (v. 213) causa di molti mali. Oreste ne svaluta pure bellezza: le carni vuote di intelletto, dice, sono ajgavlmat j ajgora`~ (v. 388), statue di piazza.
 
Margherita seguita ad annientare l’altra ex regina Elisabetta: “sei  stata una sollevata in alto per essere buttata giù”.
Cfr. Seneca

Al culmine della sua carriera di a[nax Agamennone mostra di avere coscienza della probabile caduta ovinosa per chi è salito in alto:"Violenta nemo imperia continuit diu,/moderata durant; quoque Fortuna altius/evexit ac levavit humanas opes,/hoc se magis supprimere felicem decet/variosque casus tremere metuentem deos/nimium faventes. Magna momento obrui/ vincendo didici. Troia nos tumidos facit/nimium ac feroces? Stamus hoc Danai loco,/unde illa cecidit " (Seneca, Troiane, vv. 258-266), nessuno ha conservato a lungo il potere con la violenza, quello moderato dura; e quanto più la Fortuna ha levato in alto la potenza umana, tanto più il fortunato fa bene a trattenersi e paventare le varie cadute temendo gli dèi che lo favoriscono troppo. Vincendo ho imparato che i grandi regni vengono sepolti in un attimo. Troia ci rende troppo superbi e spietati? Noi Danai stiamo in piedi nel luogo dal quale quella è caduta. 
 
Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57-58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro.  Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus…" (Agamennone, vv. 101-104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.
 
Altre parole di Magherita per annichilire la passata, presunta grandezza di Elisabetta: “a mother only mock’d with two fair babes (VI, 4, 87), madre solo per beffa di due bambini amabili, a dream of what thou wast (88) sogno di quello che fosti.
 
Del resto la vita di tutti noi mortali viene assimilata più volte a quella dei sogni.
Prospero  afferma:" We are such stuff-as dreams are made on, and our little life-is rounded L. rotundus with a sleep " (The tempest [1] IV, 1, 156-158), noi siamo fatti di una materia simile a quella dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno.
 
A volte mi chiedo se le storie d’amore che ho raccontate, in particolare, le tre più felici, quelle con Elena, Kaisa, Päivi, non siano stati dei sogni.
Le prime due in particolari perché non sono andate a male come tutte le rimanenti. Infatti se marcisce la regalità come  altre cose umane anche tanti amori, soprattutto se fasulli, cadon nella bocca marcia della morte. into the rotten mouth of death (cfr. IV, 4, 2 citato sopra).
 
A questo popositto sentiamo Ovidio che di amori si intende
Il maturare o il marcire dell’amore
Se l'amore può diventare una malattia anche grave, bisogna capire presto quale legame  diventerà deleterio e togliergli il tempo:"Nam mora dat vires: teneras mora percoquit uvas/et validas segetes, quae fuit herba, facit " (Remedia amoris, vv. 83-84), infatti il tempo fornisce le forze: il tempo fa maturare bene le uve acerbe e rende spighe rigogliose quella che era erba.
Il tempo porta a maturazione i frutti dei campi e pure quelli della sventura, dunque, prima di offrire il collo a un giogo amoroso bisogna prevederne gli sviluppi:"Quale sit quod amas, celeri circumspice mente,/et tua laesuro subtrahe colla iugo  " (vv. 89- 90), abbraccia con rapido sguardo  la qualità di quello che ami, e togli via il collo da un giogo che potrà ferirti.
 
Margherita continua: a queen in jest, only to fill the scene (91) regina per scherzo, solo per riempire la scena.
 
 Quanti cosiddetti o presunti pofessori, studiosi, intellettuali, registi, giornalisti, scrittori sino tali? Tanti, davvero tanti.
Nel Macbeth il protagonista afferma: "Life's but a walking shadow; a poor player ,-that struts and frets his hour upon the stage, - and then is heard no more: it is a tale- told by an idiot, full of sound and fury-signifying nothing " (V, 5), la vita è solo un'ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita sul palcoscenico nella sua ora, e poi non se ne parla più, è una storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga, che non significa nulla.
Cfr. anche Misura per misura dove il duca suggerisce  a Claudio di rivolgersi alla vita dicendole: “thou art death’s fool” (III, 1, 11)  tu sei lo zimbello della morte, quindi “Thou hast nor youth nor age; - but, as it were, an after - dinner sleep - dreaming on both” ( III, 1, 32-34), tu non hai giovinezza né vecchiaia, ma è come se dormissi dopo pranzo sognando entrambe queste età.
T. S. Eliot ha impiegato queste parole come epigrafe preposta a Gerontion
Infine Amleto dichiara che l’uomo considerato da molti a piece of work per lui è quintessence of dust (II, 2) quintessenza di polvere.
 
Torniamo alla demolizione di Elisabetta da parte di Margherita
Tutti i suoi privilegi di regina si sono rovesciati: mentre ricevevi suppliche, ora devi umilmente supplicare  (IV, 4, 100), eri temuta da molti e ora temi uno solo. “thus hath the course of justice whirl’d about” (105), così ha virato il corso della giustizia e ti ha ridotta a preda del tempo.
Nella prima scena di Love’s Labour’ s lost[2], Ferdinando re di Navarra definisce il tempo “cormorant devouring Time” (I, 1), il cormorano che ci divora.
 
Dopo avere usurpato il mio posto non usurpi ora la giusta parte del mio dolore (IV, 4, 109-110) seguita Margherita. Ora il pesante giogo del dolore grava sui colli di entrambe, Margherita però vuole lasciarne tutto il carico a Elisabetta, leave the burden of it all on thee e recarsi a sorriderne in Francia
Elisabetta le chiede restare un poco e insegnarle a maledire i suoi nenici, esperta com’è in maledizioni
O thou, well skill’d in curses, stay awhile-and teach- Allied to Gk. deivknumi - me how to curse mine enemies. (116-117)
 
Una domanda ai miei corsisti: preferite questo Riccardo III non ancora terminato, o la parte generale, o  Antonio e Cleopatra, o Coriolano, o Giulio Cesare? Segnalatemi una graduatoria perché forse in 4 incontri non riuscirò a raccontarvi tutto.
 
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giovanni ghiselli

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[1] Del 1612. 
[2] Del 1594-1595.

sabato 29 maggio 2021

La vacanza sciistica a Moena nel marzo del 1981. 7. Pensieri notturni

Quella notte il cielo era completamente sereno sulle montagne e le stelle brillavano con speciale vigore su tutta la valle di Fassa. Scendevo verso Moena dalla seconda rampa della strada che porta al passo San Pellegrino dov’ero alloggiato. Il paese era deserto: non c’erano più le forosette né  le pastorelle che vedevo da bambino nelle bambine bionde di Moena e mi sembravano belle quanto il sole e le stelle.

Attraversato il ponte sull’Avisio, iniziai a risalire la china dall’altra parte del fiume. Sotto il cielo pulito anche la terra era diversa e io mi sentivo un’altra persona rispetto a quella della giornata oppressa da nuvole inquiete. Risalivo anche la china del mio umore cattivo.

 Dopo la chiesa e il cimitero, il viottolo non era più illuminato da lampioni né lampadine, sicché potevo contemplare le stelle senza disturbo.

Passato il paesino di Sorte, presi la strada buia e scoscesa che porta alla Malga Panna. Si udivano ululati cupi e rauchi ringhi di canidi. Altre volte  percorrendo quella via ripida e tetra avevo collegato il nome del paese dalle tre case con la sorte mia, con i decreti ineluttabili del mio destino.

Quei terrori notturni mi avevano fatto venire in mente i miei fallimenti sentimentali, l’isolamento affettivo e sociale in cui mi trovavo, il cerchio della morte che si stringeva ogni giorno di più e mi avrebbe fatto precipitare nel cimitero posto davanti alla chiesa magari dopo che fossi stato sbranato da uno di quegli animali immondi e feroci che minacciavano la mia passeggiata. Ne  avevo avuto paura.

In questo momento invece nulla mi sbigottiva, né quei latrati furiosi, né la mia morte non confortata dal pianto di alcuno. Non mi inquietava l’idea che il mio corpo massacrato avrebbe trovato la propria tomba nei ventri osceni di quei mostri chiusi a ululare nella stalle, cani, lupi, iene, sciacalli, o minotauri che fossero.

Sentivo una forza lietificante dentro di me: una luce di amore, giustizia e bellezza  mi rendeva  sicuro del bene che avrei fatto nel tempo restante della mia vita mortale. Per misurare il valore della mia compagna dovevo usare il metro dell’intelligenza e quello della moralità. Rinnegare invece i pregiudizi borghesi che avevano fuorviato la mia ricerca amorosa.  

 Questo pensiero accresceva le mie forze. I ringhi e i latrati che pur si facevano sempre più furibondi e si associavano a un raspare frenetico dietro porte di case e di stalle, non mi impaurivano.

Nemmeno “taci, maledetto lupo!”, pensavo come altre volte per farmi coraggio.

Continuavo a guardare le fiaccole vive del cielo dove vedevo brillare gli occhi delle mie amanti migliori che, pur se passate come la mia gioventù, erano ancora vive dentro di me e lo sarebbero state sempre come parti, in tutti i sensi, dell’anima mia. Le montagne scure, selvose, profumate, mi facevano pensare ai loro capelli. La ritrovata armonia con la bellezza dell’amore e della vita mi rendeva felice. “Quegli animali- pensai- sono stupidi e fastidiosi come i miei nemici. Meritano disprezzo e compassione magari, più che paura”.

 

giovanni ghiselli

Shakespeare, "Riccardo III". XVII. Riccardo quale cane, ragno, rospo. La rana lontana. Per il prossimo corso

L’ex regina Margherita parla in un delirio  simile a quello di Cassandra nelle tragedie Agamennone di Eschilo e Agamennone di Seneca.
Si scaglia prima contro la madre di Riccardo: “dalla tana del tuo ventre-le dice- è sortito un cagnaccio infernale che dà a noi tutti una caccia mortale (IV, 4, 46-47) un cane che prima degli occhi  ebbe i denti to worry lambs, and lap their gentle blood  (50) per azzannare gli agnelli e lappare il loro dolce sangue.
Le dimore di queste mogli e madri di re grondano sangue come il palazzo di Agamennone dove Cassandra grida: “Venere fata. Sanguinem extremae dapes, - domini videbunt et cruor Baccho incidet” (Seneca, Agamennone, 885-886), il destino è arrivato. Le ultime portate vedranno il sangue del padrone e dal corpo sul vino.
Nell’Agamennone di Eschilo  Cassandra condotta da Clitennestra alla dimora degli Atridi grida ajndrosfagei`on kai; pevdon rjanthvrion (1092) mattatoio di uomini e suolo bagnato di sangue.

Margherita prosegue chiamando Riccardo excellent grand tyrant of the earth (51)  straordinario, grandioso tiranno della terra, turpe sfregiatore della creazione divina che venne sguinzagliato dal grembo della duchessa di York accusata quale madre di questo carnal cur (56)  cagnaccio carnivoro che strazia la prole della madre così costretta a sedere sul banco dei lamenti accanto alle altre donne da lui orbate.
Il tiranno è un mostro anche nella storia (lo abbiamo indicato in Erodoto e Livio), nelle tragedie come p. e. Lico nell’Eracle di Euripide  e in Platone.
Nella Repubblica di Platone,   Er ricorda il grande (nel male)  Ardieo (   jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano mai risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavno alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to). Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che  afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e rigettati nel Tartaro.
La duchessa chiede a Margherita di non esultare sui propri affanni perché lei ha pianto per i suoi.

Margherita le chiede di avere pazienza: “I am hungry for revenge” (61), sono affamata di vendetta. L’ybris presente nella stirpe dei Plantageneti ha podotto messi di odio, dolore e lacrime.
Margherita torna a nominare vittime e carnefici dallo stesso nome-Edoardo- e dalla stessa sorte. Sono morti anche molti spettatori di tante uccisioni. Rimane però in vita Riccardo hell’s black ientelligencer (71)  il tenebroso agente segreto dell’inferno. Si pensi alle stragi perpetrate in Italia. Lo hanno mandato sulla terra per comprare anime e spedirle laggiù.
Ma la terra già spalanca la bocca earth gapes- la bocca spalancata significa il Caos - cavskw = sto a bocca aperta-, l’inferno brucia, i diavoli ruggiscono, i santi pregano per la rimozione di questo demone dalla terra.
Cfr. il caso di Ardieo nel mito di Er citato sopra.  
Margherita spera di vivere abbastanza da poter dire: “The dog is dead” (78), il cane è morto. Mi è congeniale il fatto di reputare male i cani che considero per lo meno fastidiosi e spesso pericolosi.
Voglio dunque supportare questa antipatia che mi rende antipatico ai cinofili citando anche un moderno.
In una tragedia dell’elisabettiano leggiamo una  nenia funebre cantata da Cornelia "in vari modi di follia", sul cadavere del figlio Marcello, ucciso dal fratello Flaminio:" chiamate il pettirosso e lo scricciolo, che volano sopra i boschetti ombrosi, e con foglie e fiori coprono i corpi soli al mondo degli insepolti. Chiamate al suo lamento funebre la formica, il topo dei campi e la talpa, che levino mucchi di terra per tenerlo caldo e quando le ricche tombe vengono depredate non soffra danno: ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà (But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again)"[1].
Devo aggiungere T. S. Eliot che ha inserito gli ultimi due versi-cambiando la parola "wolf" (lupo) in "dog" (cane), e la parola "foe" (nemico) in "friend" (amico)- nella prima parte di The Waste Land, (vv. 74-75).
Io credo invece che il cane grosso e male educato dal padrone ad aggredire gli uomini non sia amico dell’uomo più del lupo. Per lo meno non sono mai stato inseguito da lupi, da cani inferociti diverse volte. Ma Dio mi aiutò e mi salvò.

Vediamo alcune parole di Elisabetta, la moglie del re morto Edoardo IV. Vi compaiono due altri animali mal reputati. La cognata di Riccardo lo definisce that bottled spider, the foul bunch-back’d toad (81), quel ragno tumefatto, quel mostro gobbo. I ragni non mi piacciono, ma non li ammazzo, mentre se avessi avuto una rivoltella mi sarei difeso con questa dai cani inseguitori inferociti e assetati del sangue mio preso per Atteone, il cugino di Penteo,  sbranato dai cani
I batraci invece mi sono simpatici e le rane ancora di più perché li associo alla stagione bella a una commedia di Aristofane, alla poesia di Teocrito, Leopardi e D’Annunzio. Poi perché come dicono quuesti poeti sono animali discreti, che rimangono lontani.
 
La rana lontana
Il coro secondario delle rane di Aristofane comincia a fare il suo verso, il canto libero della natura
Dioniso cerca di fare tacere il coax, ma quelle continuano come nei bei giorni di sole o quando feuvgonteς o[mbron (Rane, 246), fuggendo la pioggia nel fondo ejn buuqw'/ intonano un’acquatica aria di danza. Le rane stanno in fondo, lontane come la verità.
 
In Teocrito, la rana canta thlovqen da lontano (Idillio VII,  Talisie 140)
 
Leopardi: “ascoltando il canto/della rana rimota alla campagna” (Le ricordanze 12-13)
 
In La pioggia nel pineto   di D’Annunzio“la figlia/ del limo lontana/ la rana/ canta nell’ombra più fonda” 90-93
 
 
 
 
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[1] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612),  I, 2.

venerdì 28 maggio 2021

Shakespeare, "Riccardo III". XVI. Il lamento di donne private di figli e mariti

“Orbate - spose dal brando, e vergini - indarno fidanzate; - madri che i nati videro - trafitti impallidir (manzoni, Adelchi, secondo coro.
 
Inizia la IV scena del quarto atto
Entra la vecchia regina Margherita vedova del re Enrico VI e madre di Edoardo principe di Galles uccisi da Riccardo.
Dice che la prosperità comincia a invecchiare e a cadere disfacendosi nella bocca marcia della morte.
 
Si può dire lo stesso della vecchiaia di questo capitalismo che arricchisce i pochi già  straricchi e riduce alla miseria i moltissimi poveri sempre più poveri.
E intanto avvelena il pianeta dove viviamo. 
Se non rimedia a questo sfacelo dovrà fare i conti con la disperazione dei miserabili .
 
Margherita è rimasta nascosta per assistere al tramonto dei suoi nemici.
Spera di vederli cadere.
Quindi entrano la duchessa di York, la madre di Riccardo, e la regina Elisabetta, la vedova di Edoardo IV, altro figlio della duchessa, morto da poco.
Margherita si apparta.
Elisabetta compiange i nipoti Edoardo e Riccardo fatti ammazzare dal cognato il duca di York diventato re Riccardo III uccidendo il nipote Edoardo legittimo erede. I medesimi nomi ritornano, come  gli stessi delitti.
La nonna chiede ai nipoti morti di librarsi sopra di lei con le loro ali aeree e di ascoltare i suoi lamenti (I; 4, 13-14)
Margherita,  a parte,  corregge questa preghiera suggerendo ai bambini morti di dire alla nonna che giustizia per giustizia - right for right L. rectus - (15) ha gettato il mattino della loro infanzia nell’oscurità di una notte antica.
I bambini erano innocenti ma probabilmente Shakespeare pensava al topos della ereditarietà della colpa. In queste stirpi maledette quanto quelle dei Pelopidi di Micene e dei Labdacidi di Tebe nessuno nasce esente da colpe.
 
A proposito dei Pelopidi sentiamo Seneca
Nel Thyestes Megera aizza l'ombra di Tantalo perché scateni l'ira tra i suoi discendenti e si crei la compiuta peccaminosità: "Nihil sit, ira quod vetitum putet:/fratrem expavescat frater, et gnatum parens/gnatusque patrem; liberi pereant male/peius tamen nascantur; immineat viro/infesta coniux; bella trans pontum vehant;/effusus omnes irriget terras cruor,/supraque magnos gentium exultet duces/libido victrix; impia stuprum in domo/levissimum sit fratris; et fas et fides/iusque omne pereat. Non sit a vestris malis/immune coelum" (vv.39-49), non ci sia niente che l'ira consideri vietato: il fratello tema il fratello, il padre il figlio, il figlio il padre; i figli muoiano e nascano anche peggio; la moglie ostile minacci il marito; portino guerre di là dal mare; il sangue sparso bagni tutte le terre, e la libidine vincitrice salti sopra ai grandi capi dei popoli; nell'empia famiglia l'incesto del fratello sia una lievissima colpa; e le leggi divine, la lealtà, ogni diritto umano perisca. Nemmeno il cielo sia esente dai vostri mali.   
 
Lucrezio identifica l’età peggiore con il tempo delle guerre intestine, della lotta spietata di tutti contro tutti: quando gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.
L’età dei Plantageneti dunque è un’era di totale peccaminosità come l’età del ferro descritta da Esiodo Nelle Opere e giorni  il poeta afferma che nell'ultima fase dell' empia età ferrea gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d  j ejn cersiv , v. 192) e se ne andranno Cavri" , Gratitudine, Aijdwv"  Rispetto e Pudore,  Nevmesi" , lo Sdegno; quindi  non vi sarà più scampo dal male "kakou' d  j oujk e[ssetai ajlkhv" (v. 201).
 
Nell’ultima scena del Riccardo III,  Richmond, il vincitore, dirà:
come abbiamo solennemente giurato
We will unite the white rose and the red., uniremo la rosa bianca e la rossa York e Lancaster furono divisi dall’odio  : the brother- fravthr-frater- blindly shed- the brother’s blood;-the father pathvr-pater- rashly slaughter’d his own son-Gk. uiJovς-;/the son compelled-Lat. compello-  been butcher to the sire” (V, 5,   524-26) il fratello ha ciecamente versato il sangue del fratello, il padre ha sconsideratamente macellato il proprio figlio; il figlio è stato costretto a farsi macellaio del padre.
All this divided-divĭdo-divīsit York and Lancaster/ - in their dire-deinovς-dirus- division  (27-28) tutto questo divise York e Lancaster contrapposti  nella loro crudele rivalità.
Lucrezio identifica l’età peggiore, quella della compiuta peccaminosità, con il tempo delle guerre intestine, della lotta spietata di tutti contro tutti: quando gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.
 
Ma torniamo alla quarta scena del quarto atto del Riccardo III. La duchessa madre di Riccardo e di Edoardo rimpiange il figlio (o il nipote) Edoardo Plantageneto.
Margherita dice, ancora a parte, che un Plantageneto ucciso salda il conto per l’assassinio di un altro Plantageneto ammazzato: Edward, for Edward pays a  debt (21), Edoardo paga un debito per un Edoardo. Il secondo era un figlio di Margherita ammazzato da Riccardo.
 
E’ il contrappasso
Nell’Oreste di Euripide (vv. 395-396), a Menelao che gli domanda τί χρμα πάσχεις; τίς σ’ πόλλυσιν νόσος;, “che cosa soffri? quale malattia ti distrug­ge?”, il nipote risponde σύνεσις, τι σύνοιδα δείν’ εργασμένος, “l’intelligen­za, poiché sono consapevole di avere commesso cose terribili”. Oreste dunque è reso sofferente dalla propria σύνεσις (v. 396). Menelao gli ricorda la legge del contrappasso per cui deve soffrire (v. 413): ο δειν πάσχειν δειν τος εργασμένους, “non è terribile che patiscano conseguenze tremende quelli che hanno compiuto atrocità”. “Febo mi ha ordinato di ammazzare mia madre” si giustifica Oreste, “ma – replica Menelao – ignorando troppo il bene e la giusti­zia”. “Noi siamo servi degli dèi – fa il nipote (v. 418) – qualunque cosa siano gli dèi”, δουλεύομεν θεος, τι ποτ’ εσν ο θεοί.
Nell’Eracle di Euripide Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incammi­nato verso la morte (vv. 727-728): προσδόκα δ δρν κακς / κακόν τι πράξειν, “aspettati facendo del male di averne del male”. 
 
Il contrappasso si trova anche nell’Orestea di Eschilo. Nel doloroso canto (kommós) che precede l’epilogo dell’Agamennone  (vv. 1562-1564), il Coro dice queste parole: “paga chi uccide”, κτίνει δ’ καίνων, “rimane saldo, finché Zeus rimane sul trono, che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina”, μίμνει δ μίμνοντος ν θρόνωι Δις / παθεν τν ρξαντα· θέσμιον γάρ. C’è una ripresa di questo nel kommós delle Coefore (vv. 313-314): δράσαντα παθεν, / τριγέρων μθος τάδε φωνε, “subisca chi ha agito, un detto tre volte antico suona così”.
 
Elisabetta, la nonna dei bambini uccisi, rivendica come Ecuba nelle Troiane di Euripide di incarnare la somma del dolore, il sommo dolore e vorrebbe morire.
 
Subito dopo però Margherita chiede la priorità della pena antica per sé.
Dice alle altre due di contare di nuovo i loro dolori considerando i suoi.
Quindi eleva un lamento che sembra uno scioglilingua
““io avevo un Edoardo[1] finché un Riccardo non lo uccise, io avevo un marito finché un Riccardo non lo uccise; tu avevi un Edoardo finché un Riccardo non lo uccise, tu avevi un Riccardo[2] finché un Riccardo non lo uccise” (IV, 4, , 41-44).
E’ l’eterno lamento delle madri e delle mogli orbate di figli e mariti dalle guerre combattute per l’avere e per il potere.
 
Nella prima Ode del primo libro[3] Orazio si differenzia dai molti uomini cui piace la vita mililare e le guerre maledette dalle madri:" bellaque matribus/ detestata" (vv. 24-25).
 
Bologna 28 maggio 2021 ore 18, 54
 giovanni ghiselli

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[1] Principe di Galles, figlio di Margherita e di  Enrico VI il re assassinato nella torre di Londra nel 1471. Il principe aveva sposato Anne che poi sposerà Riccardo III.
[2] Edoardo, Riccardo e Elisabetta di York sono i tre figli di Edoardo IV e della regina Elisabetta.
 
[3] I primi tre libri delle Odi uscirono nel 23 a. C.

Euripide Ippolito IX. Il dolore straziante provoca mutismo e immobilità

  La nutrice chiude la seconda scena del primo episodio con 16 trimetri giambici   La nutrice – mamma-   spinge Fedra a confidarsi...