sabato 29 maggio 2021

La vacanza sciistica a Moena nel marzo del 1981. 7. Pensieri notturni

Quella notte il cielo era completamente sereno sulle montagne e le stelle brillavano con speciale vigore su tutta la valle di Fassa. Scendevo verso Moena dalla seconda rampa della strada che porta al passo San Pellegrino dov’ero alloggiato. Il paese era deserto: non c’erano più le forosette né  le pastorelle che vedevo da bambino nelle bambine bionde di Moena e mi sembravano belle quanto il sole e le stelle.

Attraversato il ponte sull’Avisio, iniziai a risalire la china dall’altra parte del fiume. Sotto il cielo pulito anche la terra era diversa e io mi sentivo un’altra persona rispetto a quella della giornata oppressa da nuvole inquiete. Risalivo anche la china del mio umore cattivo.

 Dopo la chiesa e il cimitero, il viottolo non era più illuminato da lampioni né lampadine, sicché potevo contemplare le stelle senza disturbo.

Passato il paesino di Sorte, presi la strada buia e scoscesa che porta alla Malga Panna. Si udivano ululati cupi e rauchi ringhi di canidi. Altre volte  percorrendo quella via ripida e tetra avevo collegato il nome del paese dalle tre case con la sorte mia, con i decreti ineluttabili del mio destino.

Quei terrori notturni mi avevano fatto venire in mente i miei fallimenti sentimentali, l’isolamento affettivo e sociale in cui mi trovavo, il cerchio della morte che si stringeva ogni giorno di più e mi avrebbe fatto precipitare nel cimitero posto davanti alla chiesa magari dopo che fossi stato sbranato da uno di quegli animali immondi e feroci che minacciavano la mia passeggiata. Ne  avevo avuto paura.

In questo momento invece nulla mi sbigottiva, né quei latrati furiosi, né la mia morte non confortata dal pianto di alcuno. Non mi inquietava l’idea che il mio corpo massacrato avrebbe trovato la propria tomba nei ventri osceni di quei mostri chiusi a ululare nella stalle, cani, lupi, iene, sciacalli, o minotauri che fossero.

Sentivo una forza lietificante dentro di me: una luce di amore, giustizia e bellezza  mi rendeva  sicuro del bene che avrei fatto nel tempo restante della mia vita mortale. Per misurare il valore della mia compagna dovevo usare il metro dell’intelligenza e quello della moralità. Rinnegare invece i pregiudizi borghesi che avevano fuorviato la mia ricerca amorosa.  

 Questo pensiero accresceva le mie forze. I ringhi e i latrati che pur si facevano sempre più furibondi e si associavano a un raspare frenetico dietro porte di case e di stalle, non mi impaurivano.

Nemmeno “taci, maledetto lupo!”, pensavo come altre volte per farmi coraggio.

Continuavo a guardare le fiaccole vive del cielo dove vedevo brillare gli occhi delle mie amanti migliori che, pur se passate come la mia gioventù, erano ancora vive dentro di me e lo sarebbero state sempre come parti, in tutti i sensi, dell’anima mia. Le montagne scure, selvose, profumate, mi facevano pensare ai loro capelli. La ritrovata armonia con la bellezza dell’amore e della vita mi rendeva felice. “Quegli animali- pensai- sono stupidi e fastidiosi come i miei nemici. Meritano disprezzo e compassione magari, più che paura”.

 

giovanni ghiselli

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