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La vita di Plutarco, sacerdote delfico e funzionario dell'impero romano. Il rapporto degli scrittori Greci con la lingua latina secondo Leopardi
Plutarco nacque a Cheronea poco prima del 50 d. C. da famiglia antica, illustre e benestante, anzi "dotata...di un diritto ereditario alla supremazia locale"[1]. Anche la cittadina dove lo scrittore vide la luce e passò la maggior parte della sua vita, per non renderla ancora più piccola con la sua assenza, come scrisse[2], era del resto illustre: là infatti, nell'estate del 338 a. C "ebbe luogo l'epocale battaglia"[3] con cui finì il mondo delle povlei" greche indipendenti, sconfitte da Filippo II di Macedonia e da suo figlio Alessandro che divennero i padroni dell'Ellade.
Al tempo della vita di Plutarco però i signori della Grecia erano diventati i Romani e il nostro autore, dovette fare i conti con loro.
Non furono calcoli particolarmente eroici i suoi invero, o per lo meno tutt'altro che rivoluzionari, poiché, come afferma Mazzarino, "egli, cittadino di Cheronea e filosofo e sacerdote greco, poteva riassumere in sé gli ideali dell'alta borghesia greca, da cui proveniva, e quelli delle classi dirigenti "umanistiche" di Roma"[4].
Tutta la sua opera monumentale insomma "mira a rappresentare (ed a giustificare storicamente) la 'condirezione greco-romana del vasto impero"[5]. Canfora fa anche notare[6] che Plutarco "raccomanda, nei suoi Precetti politici (composti non molto dopo la morte di Domiziano[7]) di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di sopra del tuo capo"(813E)".
All'inizio dello stesso paragrafo Plutarco prescrive al politico greco di dire a se stesso: governi da governato, in quanto la città è sottoposta ai proconsoli, ai procuratori di Cesare ("uJpotetagmevnh" povlew" ajnqupavtoi", epitrovpoi" Kaivsaro"").
Più avanti(824B) l'autore consiglia di calzare il coturno di Teramene in caso di sedizione e di dialogare con le due parti senza aderire a nessuna, ma molto meglio sarà prevenirne gli scoppi poiché quello che conta è il benessere economico e ai popoli tocca tanta libertà quanta ne concedono i dominatori" ejleuqeriva" d j o[son oiJ kratou'nte" nevmousi toi'" dhvmoi" mevtesti"(824C). Questo scritto tutt'altro che eroico "non manca di precisare con brutale franchezza quelli che sono i limiti dell'autonomia cittadina rispetto agli organi di governo provinciale romano"[8], e forse non sarebbe piaciuto a Jacopo Ortis , ma la vita di plutarco appartiene a lui solo, mentre le sue biografie di eroi sono patrimonio di tutti.
Plutarco, pur essendo legato alla sua cittadina, e alla non lontana Delfi dove fu sacerdote del tempio di Apollo, viaggiò in Grecia e in altre regioni dell'impero: si recò ad Atene, dove frequentò la scuola dell'accademico Ammonio che lo avviò alla conoscenza di Platone, a Sparta, ad Alessandria, a Roma e in altre località dell'Italia dove del resto non imparò bene la lingua latina in quanto "preso dai doveri politici e dall'insegnamento della filosofia"[9].
“I Greci, a partire da Polibio, incominciano a raccontare la storia dei “vincitori” , magari alla luce di un presupposto in cui i loro intellettuali hanno fermamente creduto: quello di un “condominio” greco-romano del mondo via via inglobato nell’impero di Roma. L’idea stessa delle Vite parallele di Plutarco si basa su questo presupposto. L’obiettivo, non sempre concretamente realizzabile, dovrebbe essere quello espresso efficacemente da Arnold J. Toynbee (Civilization on trial), di “studiare la storia greca e romana come una storia ininterrotta, con un corso unico e indivisibile”[10].
Se vogliamo salvare la nostra cultura dobbiamo difendere e impiegare bene la nostra lingua.
Parlare male fa male alla nostra anima e al nostro pensiero.
Plutarco come quasi tutti i Greci più o meno latinizzati scrisse comunque in greco.
Questo greco dunque che accettava il predominio romano come ineluttabile, non si latinizzò fino a scrivere in latino invece come fecero tanti altri intellettuali non Greci che furono collaboratori dell'impero . A tale proposito sono interessanti alcune riflessioni dello Zibaldone di Leopardi
"Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il lat. così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cic.[11]". Più avanti Leopardi chiarisce questo concetto "Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, Lucano...ed altri Spagnuoli; Ausonio...Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano...S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani...Non così i greci...Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi"[12].
Vengono fatti alcuni nomi, tra cui quello di Macrobio (forse nativo dell'Africa) e del siriano Ammiano Marcellino. Quindi continua così: "Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorché sudditi romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini... ancorché nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorché impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorché finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma... così Plutarco... Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore... la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole... lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura... Questa lingua e letteratura cedette alla romana... la greca non mai... e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci...Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino[13], possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosiss. scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri... Certo è che la letteratura influisce sommam. sulla lingua...Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile... E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommam. contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dové cedere, giacché non solamente non poté snidare la lingua e letterat. greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi né essa né la sua lingua in veruno di questi paesi"[14].
E più avanti: “Non si sa che i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino… Da che i costumi de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri ma non li ricevettero più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro lingua, e la sua durata fino al presente. La tenacità che i greci ebbero sempre per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e portano alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta relazione se non fra loro, benché abitino in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a un governo forestiero… E non è meraviglioso lo stato presente dei greci?”. Leopardi nota che altre lingue, compresa l’italiana, si sono mescolate e confuse “Ma i greci non sono divenuti mai turchi, né i turchi greci” (Zibaldone, 1591-1592).
“Polibio non si accorge, come non sembra essersi accorto Posidonio, della superiorità che la classe politica romana si era procurata imparando a parlare greco, mentre i Greci non sapevano il latino”[15].
Plutarco dunque non imparò il latino e non scrisse mai in questa lingua.
Bologna 3 maggio 2021 ore 17, 25
giovanni ghiselli
p. s
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[1]C. P. Jones citato da Canfora in Storia Della Letteratura Greca , p. 558.
[3]Musti, Storia greca , p. 629.
[4]Il Pensiero Storico Classico , III vol., p. 171.
[5]Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 558.
[6]Opera e pagina citate sopra.
[7]Avvenuta nel 96 d. C.
[8]P. Desideri, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 22.
[9]Vita di Demostene , 2.
[10] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, p. 67.
[11]Pagina 44.
[12]Pagine 990-991.
[13]Morto nel 337 d. C.
[14]Zibaldone , pp. 992-996.
[15] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 267.
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