Euripide e “il socratismo
estetico”. Aristofane e Nietzsche.
Sotto il segno della sofistica Euripide aveva imparato a dubitare di tutto.
La storia del sodalizio con Socrate e addirittura della loro complicità , che Nietzsche considera foriera di morte per la tragedia classica, parte da Aristofane il quale nelle Rane [1] fa dire al coro soddisfatto per la vittoria di Eschilo su Euripide:" bella cosa è dunque non stare seduto a chiacchierare con Socrate disprezzando la musica e trascurando la grandezza dell'arte tragica" (vv. 1492-1496).
Sentiamo la rielaborazione di Nietzsche: “ Se abbiamo dunque riconosciuto che Euripide non riuscì in genere a fondare il dramma soltanto sull’apollineo, che anzi la sua tendenza antidionisiaca si sviò in una tendenza naturalistica e non artistica, potremo ormai avvicinarci all’essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso: “Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al socratico: “solo chi sa è virtuoso”.
Con questo canone alla mano Euripide misurò ogni particolare, rettificandolo secondo tale legge: la lingua, i caratteri, la costruzione drammaturgica, la musica corale. Ciò che noi sogliamo tanto spesso imputare a Euripide come difetto e regresso poetico in confronto alla tragedia sofoclea, è per lo più il prodotto di quell’incalzante processo critico, di quella temeraria razionalità (…) Euripide si accinse a mostrare al mondo, come anche fece Platone, l’opposto del poeta “irragionevole”; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello” è, come ho detto, la proposizione parallela al precetto socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono”. Per conseguenza Euripide può essere da noi considerato come il poeta del socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non capiva la tragedia antica e perciò non l’apprezzava; in lega con lui Euripide osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico; in quanto peraltro la lotta era rivolta contro il dionisiaco dell’arte antica, riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, il nuovo Orfeo che si leva contro Dioniso e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio. Quest’ultimo, come nel tempo in cui era fuggito[2] di fronte al re degli Edoni Licurgo, si salva nelle profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un culto segreto, che a poco a poco invaderà il mondo intero”[3].
giovanni ghiselli
[1] [1] Del 405 a. C.
[2] Invero Dioniso è una di quelle figure mitiche e divine che assumono diversi aspetti. Arriano avverte che gli Ateniesi venerano un altro Dioniso, rispetto a quello tebano figlio di Zeus e Semele. Il dio ateniese è figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo , non a quello tebano (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3). Anche Nietzsche riconosce questa duplicità: “Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell’esistenza in quanto dio smembrato Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvagio e di un dominatore mite e dolce” (La nascita della tragedia, p. 72)
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero cui allude Nietzsche, un dio impaurito (Iliade, 6, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno, spaventato e tremante per le grida dell’uomo feroce. Poi c’è il Dioniso pauroso e ridicolo delle Rane di Aristofane. Questo dio fugge, terrorizzato da Empusa, tra le braccia del suo sacerdote (v. 297), quindi viene apostrofato dal servo Xantia con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479) n.d. r.
[3] F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, La nascita della tragedia, capitolo 12-
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