Il castello di Neuschwanstein
Tornammo in albergo. Salimmo nella stanza. Il cielo si annuvolava. Visto dalla finesta sembrava torbido. Facemmo l’amore con qualche difficoltà.
Non riuscivo a prendere sonno e mi alzai per osservare il buio dell’aria e dell’acqua mossa dal vento. Il cigno dell’imbarcadero non c’era. Probabilmente nel buio della notte lacustre l’unica creatura vivente rimaneva soltanto quell’unico uccello bianco che avevamo visto araldicamente posato accanto alla croce. Non poteva lasciare solo il suo re nel tetro mondo abbandonato dagli uomini, dalla vergine luna e da tutte le stelle.
La mattina seguente partimmo diretti al castello più famoso e teatrale: quello di Neuschwanstein. Da lontano ci parve bello, antico e fatato, ma da vicino appariva falso. L’interno poi ci diede l’impresssione del brutto senza semplicità. Percorrevamo le sale e le gallerie imbrancati con altri turisti. Dalle finestre si vedevano monti sui quali pesavano nuvole acquose che versavano un freddo umido e senza colore.
“L’inverno del nostro dolore non finirà mai” pensavo.
Nella dimora del lunatico re tutto era spropositato e confuso: la sala del trono grande come una chiesa, pacchiana nelle colonne viola e turchine, nella decorazione grottesca, nella scalinata adducente all’abside dove è dipinto Gesù, il Cristo che benedice il sovrano per grazia di Dio. Le altre aule, meno enormi, erano ancora più cariche: ovunque lampadari mastodontici, statue di santi, di eroi, di dèi, mosaici e affreschi asfissianti.
Tutto negava la semplicità associata alla bellezza. Mi tornavano in mente alcune scene del film. Il monarca sdentato e ingrossato come un bue grasso già conciato per le feste, il bel giovane capovolto a farmakov", a medicina umana, a mostro deforme, preso di mira dalla natura, domanda esterrefatto: “Von Holstein è qui, a Neuschwanstein?”.
Il conte traditore ordiva una congiura in combutta con una canaglia immonda di burocrati, medici e servi.
Guardavo Ifigenia immemore, muta, indifferente. Eppure la nostra vicenda era simile a quella di quel povero re. Ogni giorno che passava notavo sempre di più la mancanza del senso dell’infinito in quella donna.
Le presi una mano. “Che cosa vuoi tu da me?” , fece lei.
Citai una battuta del film che colei non poteva non ricordare: “procurami del veleno: basta andare in farmacia”. Fece finta di non avere sentito.
Il colonnello Dürckeim, l’aiutante di campo meravigliosamente fedele, voleva salvare il suo re, non aiutarlo a morire. Cercava di spingerlo a Monaco perché rivolgesse un proclama all’esercito e al popolo che gli volevano bene. Ma Ludwig aveva scelto la morte. “Nemmeno otto elefanti riuscirebbero a trascinarmi in quella città che odio” rispose all’amico. Pochi giorni più tardi il fellone Von Holstein lo fece afferrare da quattro energumeni che lo reclusero in una stanza sul lago dove una sera di pioggia il degradato sovrano affogò riconsacrandosi re.
“Anche io devo ritrovare la mia identità di uomo libero emancipandomi dagli abbracci mortali ”, mi dissi. “Devo trasformare la mia dipendenza e malattia di spirito in libertà piena di salute e di gioia”. Quando uscimmo dal castello era sera: le nuvole si erano diradate e il cielo a occidente era infiammato dal fuoco rosso di un crepuscolo degli dèi.
Bologna 9 maggio 2021 ore 18, 45
giovanni ghiselli
p. s.
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