giovedì 13 maggio 2021

Letteratura comparata utile per ogni tipo di esame e pure per la vita

Ai maturandi e prossimi universitari

Smontature del potere Shakespeare, Euripide e Seneca

 

Alla fine del IV atto di Antonio e Cleopatra, la regina  definisce se stessa  niente altro che una donna dominata dalle stesse povere passioni di una ragazza che munge il latte e compie le più umili mansioni as the maid that milks and does the meanest chares ( IV 72-73). Queste parole rientrano in un topos molto diffuso nelle tragedie in genere e particolarmente in quelle di Shakespeare.

  

La seconda scena del V atto si apre con Cleopatra che parla a Carmiana e Iras la parrucchiera . La regina dice altre parole che smontano  il potere, non solo quello dei vinti ma anche quello del vincitore: ‘Tis poltry to be Caesar;-not being Fortune, he’ s but Fortune’s knave,-a minister of her will-( Antonio e Cleopatra ,V, 2,  2-4), è una miseria essere Cesare;  non essendo egli la Fortuna, è solo il servo della fortuna, un ministro del suo volere. Cosa grande è invece compiere l’atto che pone termine a tutti gli altri atti e arresta il cambiamento, che addormenta e non assaggia più quel letame che nutre Cesare e il mendicante.


Nella tragedia Ecuba di Euripide (del 424) la vecchia regina di Troia dà questo avvertimento ad Agamennone, il comandante dell’esercito vincitore:

“non c'è tra i mortali chi sia libero Oujk e[sti qnhtw'n o{sti" e[st j ejleuvqero",:/infatti si è schiavi delle ricchezze oppure della sorte-h] crhmavtwn ga;r dou'lov" ejstin h] tuvch", -/o la folla della città o le leggi scritte h] plh'qo" aujto;n povleo" h] novmwn grafaiv- / gli impediscono di usare l’orientamento del proprio giudizio"(vv. 864-865).

 

Chi comanda-aveva gà detto Ecuba- non deve comandare quello che non si deve-ouj tou;" kratou'nta" crh; kratei'n a{ mh; crewvn (Ecuba, 282), e chi ha successo- eujtucou'nta"- non deve credere che gli andrà sempre bene.

Ecuba  procede facendo l’esempio di se stessa: che era una regina cui un solo giorno ha tolto ogni forma di benessere-to;n pavnta  d  o[lbon h|mar e{n m’ ajfeivleto (285).


Nelle Troiane, Ecuba constata che il polu;~ o[gko~ ,  il grande vanto degli antenati era oujdevn, niente, era un gonfiore che si è dissolto.

“O grande vanto umiliato

Degli avi, come davvero eri un nulla!” (vv. 108-109)

 

Del resto l’Agamennone delle Troiane di Seneca sa che i successi sono effimeri e che noi mortali siamo tutti in balia della sorte:

Al culmine della sua carriera di a[nax l’Atride mostra di avere coscienza della probabile caduta ovinosa per chi è salito in alto:"Violenta nemo imperia continuit diu,/moderata durant; quoque Fortuna altius/evexit ac levavit humanas opes,/hoc se magis supprimere felicem decet/variosque casus tremere metuentem deos/nimium faventes. Magna momento obrui/ vincendo didici. Troia nos tumidos facit/nimium ac feroces? Stamus hoc Danai loco,/unde illa cecidit " (vv. 258-266), nessuno ha conservato a lungo il potere con la violenza, quello moderato dura; e quanto più la Fortuna ha levato in alto la potenza umana, tanto più il fortunato fa bene a trattenersi e paventare le varie cadute temendo gli dèi che lo favoriscono troppo. Vincendo ho imparato che i grandi regni vengono sepolti in un attimo. Troia ci rende troppo superbi e spietati? Noi Danai stiamo in piedi nel luogo dal quale quella è caduta. 


Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57-58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro.  Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus…" (Agamennone, vv. 101-104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.


Nel Riccardo II   (1595) si legge che la Morte tiene la corte nella corona cava (within the hollow crown) che cinge le tempie mortali di un re e là siede beffarda schernendo il suo stato con un ghigno alla sua pompa and grinning at his pomp.


La regalità viene smontata anche in The tempest, quanto il nostromo (boatswain) dice che le onde che ruggiscono e sballottano la nave senza curarsi del re di Napoli: “what cares these roarers for the name of King?”,

Poi il nostromo intima al re Alonso e al gentiluomo Gonzalo: “To cabin: silence trouble-lat. turba - us not!” (I, 1)

 


Bologna 13 maggio 2021, ore 10, 4

giovanni ghiselli


p. s

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