Ho cominciato a raccogliere del materiale.
All’inizio del Satyricon l’io narrante, lo scholasticus Encolpio e il maestro di retorica Agamennone fanno un dibattito sulle cause della corruzione delle scuole di eloquenza. Encolpio muove accuse all’ umbraticus doctor (2, 3) che distrugge gli ingegni dei giovani insegnando cose che non hanno alcun nesso con la loro vita, allo stile asiano e alla tecnica pittorica compendiaria.
La decadenza della scuola secondo il retore Agamennone dipende dagli allievi e dai genitori che rifuggono dalla severa disciplina.
Durante la tirata di Agamennone, Ascilto si allontana.
Encolpio coglie l'occasione di un momento di caos tra gli studenti per tornare nella locanda a cercare l'amico, ma non si orienta: itaque quocumque ieram eodem revertebar, donec et cursu fatigatus et sudore iam madens accedo aniculam quandam, quae agreste holus vendebat" (6, 4), sicché in qualsiasi direzione mi fossi mosso, tornavo nel medesimo punto, finché stremato dalla corsa e già fradicio di sudore, mi avvicino a una vecchietta che vendeva verdura di campo.-eōdem revertebar: è la prima allusione al labirinto che viene nominato più avanti (73) e significa un andirivieni faticoso e senza progresso, o addirittura spaventoso, come è tipico degli incubi.
T. S. Eliot in Gerontion, assume una visione diacronica dei labirinti chiamandoli i corridoi artificiosi della Storia:" Think now/History has many cunning passages, contrived corridors./And issues, deceives us with whispering ambitions, Guides us by vanities " (vv. 34-37), pensa ora, la Storia ha molti anditi ingannevoli, corridoi artificiosi e varchi, ci inganna con sussurranti ambizioni, ci guida con cose vane.
Il disorientato Encolpio domanda all'anicula :"mater, numquid scis ubi ego habitem?" (7), mamma, sai dirmi dove abito? Questa domanda assurda può accostarsi a quanto chiede uno degli occupati otiosi del De brevitate vitae[1] di Seneca. Costoro sono dei maniaci impegnati in attività che, secondo l'autore, sono quanto meno futili e vane. Ebbene riguardo a uno di questi, un delicatus, per giunta, un raffinato, il filosofo riferisce di avere sentito "cum ex balneo inter manus elatus et in sella positus esset, dixisse interrogando ' iam sedeo'?" (12, 7), che sollevato a braccia dal bagno e posto su una sedia sembra abbia fatto questa domanda: "sono già seduto?". Seneca sottolinea l'irrazionalità di certi personaggi, Petronio fa risaltare piuttosto l'incongruenza che è fondamentale per l'umorismo[2] anticipando addirittura alcuni aspetti del nonsense di Edward Lear (1812-1888) che con i limericks[3] del suo A Book of Nonsense (del 1846) eleverà a sistema l'enunciazione dell'incongruo.
La bellezza dell'arte dà gioia, anche se crearla costa sofferenza come si vede nella vicenda del Daedalus di Ovidio che vola fuori dal labirinto e con le ali si eleva su per il cielo, sopra il potere del tiranno:"Possidet et terras et possidet aequora Minos/nec tellus nostrae nec patet unda fugae./ Restat iter caeli: caelo temptabimus ire "(Ars Amatoria , II, 35-37), possiede le terre e possiede la distesa marina Minosse, né la terra né il mare si aprono alla nostra fuga: rimane la via del cielo: tenteremo di andare per il cielo. Infatti "non potuit Minos hominis compescere pinnas "(v. 97) Minosse non poté frenare le ali di un uomo. Dedalo però perse il figlio. Forse il mito significa che il creatore da una parte non può essere imprigionato o coatto, dall'altra non può concedersi il lusso di affetti privati, della paternità e della famiglia.
A un certo punto gli scholastici Encolpio e Ascilto tentano di scappare, ma, terrorizzati dal cane di guardia, cadono nella piscina. Vengono tratti in salvo dal portiere che, però, non permette loro di uscire. Segue la riflessione di Encolpio:"quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperant votum esse? " (73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo ?
Il labirinto significa assenza di progresso e il lavarsi come votum sembra alludere a una purificazione sempre più desiderabile e difficile.
"La struttura del romanzo, per quanto possiamo giudicare, intreccia ad un andamento lineare progressivo un andamento circolare, che riporta periodicamente sulla strada di Encolpio personaggi già incontrati e già lasciati, in una sorta di ritorno indietro nel tempo che ha i tratti angosciosi dell'inutile andirivieni del labirinto. L'immagine del labirinto (esplicitamente rievocata in 73) descrive assai bene l'apparente inutilità del continuo ritrovarsi in luoghi chiusi di Encolpio (questo o quell'albergo, l'arena, la prigione, il lupanare, la casa di Quartilla o di Trimalchione, la nave di Lica, il letto di Circe, la stamberga delle maghe) e del suo continuo evadere"[4].
"Particolarmente ricca di conseguenze mi sembra la presenza del motivo del labirinto, su cui mi sono soffermato in un contributo del 1981[5].
Esso, infatti, costituisce l'intelaiatura della cena sin dal suo inizio: la casa di Trimalchione sembra rappresentare un'oasi per i protagonisti dopo le continue traversie; ma essa svelerà presto la sua vera natura. Gradualmente si è introdotti nell'ambiguità che regnerà nella cena, così come gradualmente si percorrono i corridoi di un labirinto (…) Anche la lunga serie di portate a sorpresa è una proiezione dello schema del labirinto: come, infatti, chi esplora un labirinto se imbocca un corridoio sbagliato è costretto a ritornare sui suoi passi, così i convitati, ed in particolare Encolpio, vengono continuamente spinti a formulare sulle portate congetture che si rivelano ogni volta sbagliate e li costringono a ritornare sulle loro idee"[6].
Paolo Fedeli fa notare che la presenza del labirinto non è limitata e ridotta alla cena:" All'inizio della parte del Satyricon a noi giunta, quando finalmente riesce a svignarsela dalla scuola di retorica (6, 2), Encolpio si mette alla ricerca di Ascilto, che prima di lui se l'è filata. Ma la Graeca urbs gli si configura subito come un labirinto, in cui è impossibile orientarsi; non solo Encolpio ignora dove sia l'uscita (6, 3: nec quo loco stabulum esse sciebam), ma, errore fondamentale da parte di chi si trova in un labirinto, vaga senza conseguire una direzione precisa (6, 3: nec viam diligenter tenebam): di conseguenza, dato che egli non segue il filo di un ragionamento logico ma si affida al caso, finisce per tornare sempre allo stesso punto, che è poi il punto di partenza (6, 4: itaque quocumque ieram, eodem revertebar). Anche il lupanare in cui troppo tardi Encolpio si accorge di essere entrato (7, 4) si presenta sotto l'aspetto di un labirinto a due accessi: Encolpio entra da una porta, lo attraversa a capo coperto ed esce dall'altra porta. All'uscita incontra Ascilto, anche lui mezzo morto di fatica, che nel racconto delle sue peripezie per tutta la città alla ricerca della locanda ripropone il tema del labirinto (8, 2: cum errarem (…) per totam civitatem nec invenirem quo loco stabulum reliquissem).[7] (…) L'insistenza di Petronio sulla difficoltà di trovare la via d'uscita, i lunghi conciliaboli dei protagonisti alla ricerca della tattica migliore per fuggire, ci fanno capire che anche in questo caso si tratta di un'intenzionale insistenza su un tema che Petronio ha voluto riproporre più volte ai lettori. D'altronde per l'eroe del romanzo antico il mondo ostile che deve affrontare, le mille prove che deve superare prima di giungere alla soluzione felice altro non sono, in definitiva, se non la proiezione dello schema del labirinto, che da Petronio è caratterizzato con tale chiarezza per la prima volta in modo esplicito (…) Mi chiedo se la metafora del labirinto non possa aiutarci a scoprire in Petronio la presenza di un motivo d'importanza fondamentale, che manca nella parte a noi giunta e rappresenta la differenza maggiore tra Petronio e Apuleio, tra Petronio e i romanzi greci: il motivo della purificazione e dell'iniziazione dell'eroe attraverso la prova: il continuo vagare di Encolpio in luoghi labirintici rappresenta la condizione necessaria perché, superata la serie di prove, egli sia mondato da colpe e plachi l'ira divina"[8].
Per quanto riguarda il romanzo di Apuleio, all’inizio del II libro, Lucio si sveglia a Ipata nel cuore della Tessaglia, terra di incantesimi e di streghe.
Il protagonista e io narrante dell’Asino d’oro considerava ogni cosa con curiosità curiose singula coniderabam. In quella città tutto pareva fatato e trasfigurato: ut et lapides quos offenderem de homine duratos crederem, tanto che pensavo che le pietre in cui inciampavo derivassero da uomini induriti, e gli uccelli uomini piumati, e gli alberi uomini con fronde (II, 1).
Lucio gironzolava circumibam (II, 2) frastornato e agitato. Anche qui c’è l’idea del labirinto. Su questo romanzo torneremo
Il labirinto allude anche al mondo sotterraneo: non è un caso che nel VI dell'Eneide il protagonista prima di scendere agli Inferi veda raffigurato il labirinto cretese nel tempio di Apollo: “Dalla parte opposta, elevata sul mare, corrisponde la terra di Cnosso:/qui lo scellerato amore del toro e, postasi sotto furtivamente,/Pasife e la genesi promiscua e la prole bimembre/il Minotauro c'è, ricordo di una Venere infame;/qui la famosa fatica del palazzo e l' inestricabile giro (hic labor ille domus et inextricabilis error );/ma di fatto, commiserato il grande amore della fanciulla regale,/Dedalo stesso distrìca gli inganni e le tortuosità del palazzo/guidando le cieche orme con un filo"" (vv. 23- 30).
Il Minotauro prefigura l'incontro con i mostri dell'Inferno che è poi incontro con una parte di se stessi.
Quando andai a girare la Grecia con la bicicletta, nel 2000 la meta era Creta e una donna mi scrisse:" Ecco che vanno, novella spedizione alla ricerca del Minotauro...ma se lo trovate non uccidetelo, fatelo volare come nel raccontino di Tabucchi (Sogni di sogni )".
Bologna 10 maggio 2021 ore 10, 15
giovanni ghiselli
p. s
Sempre1126660
Oggi97
Ieri405
Questo mese4278
Il mese scorso13471
[1] Del 49 d. C. circa.
[2] Un'interessante definizione del punto di partenza dellumorismo si trova ne Il lupo della steppa di H. Hesse:"Ebbene, ogni superiore umorismo incomincia col non prendere sul serio la propria persona" (p. 231).
[3] "Così comunemente si chiama la forma strofica usata dal Lear. Sembra derivi da un coro, in quel metro, nel quale figurava il nome della città irlandese di Limerick. Un "limerick" si compone di cinque versi (aabba), dei quali gli "a" sono tripodie e i "b" dipodie anapestiche. I "limericks" sono popolarissimi, e ne esiste un'incalcolabile quantità di anonimi". Do un paio di esempi di limerick, tratti dall'antologia del caro maestro C. Izzo:"C'era un vecchio sannita-disgustato della vita:-gli cantarono una ballata,-lo cibarono d'insalata,-e guarirono quel vecchio sannita". "C'era un vecchio dal mento barbuto-che disse:"l'ho sempre temuto!-Due gufi e un pollastrello,-quattro allodole e un fringuello-han fatto il nido nel mio mento barbuto" Storia della letteratura inglese, 2, p. 594 n. 1; 595 n. 2 e n. 3.
[4]M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 183.
[5] Petronio: il viaggio, il labirinto, in "MD", a. VI 1981, pp. 91-117.
[6] P. Fedeli , Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 354.
[7] Dopo aver vagato (…) per tutta la città senza trovare l'uscita.
[8]
P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 355.
Nessun commento:
Posta un commento