lunedì 31 gennaio 2022

Terenzio, Heautontimorumenos. 23

Atto V  scena 1. Terza parte (925- 931)


Menedemo risponde a Cremete che deve fare quello che precedentemente aveva suggerito a lui.
Dunque: “Fac te patrem esse sentiat” fai in modo che ti senta come padre suo.
Sentire significa cogliere con l’intelligenza ma anche percepire con i sensi  e con la sfera emotiva.
Non so, non mi intendo di paternità ma credo che sentire un’amante o un’amica o un amico significhi ricevere parole buone, poi verificarle confrontandole con le azioni corrispondenti. Sentire un professore quale maestro educatore vuole dire avere la coscienza di imparare e il sentimento della crescita grazie a quanto ci ha insegnato. Un padre, un ottimo padre farebbe sentire tutto questo di sé.
Poi: “Fac ut audeat - tibi credere omnia, abs te petere et poscere, - nequam aliam quaerat copiam ac te deserat” (925-927) fai in modo che abbia iil coraggio di confidare tutto a te, a te chiedere e domandare, perché non cerchi  un’altra disponibilità e ti abbandoni.
E’ un’educazione simile a quella scelta da Micione per il nipote negli Adelphoe. Senza la fiducia dell’uno nell’altro e la confidenza associata al rispetto non c’è educazione del ragazzo né dell’adulto perché la paideia è sempre reciproca.

Una mancata educazione, anzi una diseducazione si trova in diversi passi della Lettera al padre (1919) di Kafka: “Bastava la Tua corposità a opprimermi (…) La tua sicurezza era così grande che potevi anche essere incoerente e tuttavia non cessavi di avere ragione (…) Acquistasti ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul loro pensiero (…) Bastava essere felici per qualche cosa, averne l’animo pieno, venire a casa ed esprimerlo, e la risposta era un sospiro ironico, un crollare del capo, un tamburellae delle dita sul tavolo: “s’è già visto di meglio” (…) Bastava che io mi interessassi un po’ a qualcuno - data la mia natura non mi accadeva sovente - perché Tu subito, senza riguardo al mio sentimento e senza rispetto per il mio giudizio, intervenissi con insulti, calunnie, profanazioni”.
Rispetto è la parola chiave da intendere nel significato etimologico suggerito da Fromm: "Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com'è, di conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l'altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Il rispetto, perciò esclude lo sfruttamento; voglio che la persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri, secondo i suoi mezzi, e non allo scopo di servirmi"[1].
 E ancora: se amo una persona "io la rispetto, cioè (secondo il significato etimologico di re-spicere ) io la guardo come essa è obiettivamente e non travisata dai miei desideri o dalle mie paure. La conosco, sono penetrato oltre la sua apparenza fino al fondo del suo essere e ho collegato me stesso con lei dal profondo del mio essere"[2].
A tutto questo però obietto che tra chi umilia e chi si lascia umiliare se questo è un adulto con una sua indipendenza economica, c’è spesso una forma di complicità. Restare a lungo con una persona che ti maltratta quando te ne puoi andare, significa esserne complice.
 
Cremete prova a ribattere:  preferisco di molto che  vada dove gli pare piuttosto che qui riduca il padre in miseria con stravizi scandalosi. Infatti se continuo a fornirgli i mezzi per una vita dispendiosa, per me, Menedemo, la faccenda va a finire davvero  allo zappare la terra (928-931)


Bologna 31 gennaio 2022 ore 20, 18
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La borsa di studio donata dal dio Sole lascia qualche palpito di luce fino alle 18 e fa retrocedere il virus. Ringraziamo il Signore che con l’immagine visibile della sua esistenza ci invita a essere buoni e belli.
 
 
 


[1] E. Fromm, L'arte d'amare , p. 43.

[2] E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea , p. 40.

Terenzio, Heautontimorumenos. 22

Atto V  scena 1. Seconda parte (893-924)



Menedemo nega quanto gli ha detto l’amico Non.
 
Quid non? fa Cremete
 
Menedemo insiste Non, inquam
Poi però spiega che suo figlio incalzava perché si facessero subito le nozze.
 
Cremete stenta a credere Mira narras (896) e domanda se almeno Siro ha detto qualche cosa.
 
Nihil fa Menedemo
 
Cremete ripete  che non si capacita e non capisce,
quindi  l’amico fa una battuta ironica. “equidem miror , qui alia tam plane scis” (897), davvero mi meraviglio di te che capisci le altre faccende tanto esattamente
Poi Mendedemo aggiunge che Syro avrà creato confusione, e conclude escludendo che Bacchide sia l’amante di Clinia.
 
A questo punto Cremete del tutto disorientato e pure turbato chiede del figlio: “Quid agit?’ 
Menedemo gli racconta tutto: e l’amico si sente perduto: “filist amica Bacchi’: Menedeme, occidi (908)
Poi Cremete spiega che gli resta poco denaro: appena per dieci giorni  decem dierum vix mi est famiglia-909, date le abitudini e le pretese di Bacchide.
 
Nell’Aulularia di Plauto, Metrodoro sostiene che è l’uxor dotata la donna babilonica dalle spese infinite, mentre in questa  commedia di Terenzio è piuttosto l’etera mantenuta che dìssipa i patrimoni di chi se l’è presa in casa.
 
Cremete oramai è certo che l’amante di Bacchide è il proprio figliolo Clitifonte, e a una battuta di Menedemo, che gli ricorda l’inganno in cui era caduto, dice: “Derīdes merito (915), tu mi canzoni a ragione. Quindi se la prende con se stesso Nunc ego mihi suscenseo (915) perché  non si è accorto del tranello pur avendone avuti davanti agli occhi  tanti indizi “ni essem lapis! Quae vidi! Vae miserae mihi! (917), se non fossi stato insensibile come una pietra di fronte a quello che vedevo. Guai a me disgraziato! Quindi minaccia vendetta contro chi l’ha raggirato.
Menedemo cerca di calmarlo rammentandogli il proprio esempio.
Cremete dice all’amico che è fuori di sé per la rabbia: “Prae iracondia, Menedeme, non sum apud me” 920.
Menedemo gli ricorda che tempo prima aveva ricevuto buoni consigli dal lui; e ora non sa darli a se stesso?
 
Breve excursus
Seneca nel trattato De ira (del 41 d. C.) consiglia all’iracondo di prendere tempo. E fa l’esempio appunto del temporeggiatore Fabio Massimo: “Quo alio Fabius affectas imperii vires recreavit quam quod cunctari et trahere  et morari sciit, quae omnia irati nesciunt?  (I, 11, 5), con quale altro metodo Fabio risollevò  le forze inficiate dell’impero se non che  seppe temporeggiare e tirare in lungo e aspettare, tutte cose che gli adirati non sanno fare?
 (…) iram ante vicit quam Hannibalem (5).
 
Anche nell’elezione presidenziale della settimana scorsa ha vinto il cunctator aspettando di essere chiamato. Non era irato, mentre chi lo era non ha saputo aspettare.
 
Seneca suggerisce tra l’altro la frugalità alimentare contro l’ira: “Ne cibis quidem implendi sunt, distendentur enim copora et animi cum corpore tumescent”II, 20, 2,  neppure si devono rimpinzare di cibo; si allargheranno infatti i corpi e gli animi si gonfieranno con il corpo.
 
In effetti il più emotivo e frettoloso in queste elezioni è stato Salvini, l’ingrassato Salvini.
 
Prendere tempo dunque è salutare contro l’ira Maximum remedium irae mora est (II, 29, 1)
 Infine un paio di frasi che ricordo della rimpianta prova scritta di latino alla maturità classica del 1977: “Pugna tecum ipse; si vis vincere iram non potest te illa. Incipis vincere si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus” (III, 13, 1)
 
Rimpiango non solo gli scritti di latino e di greco alla maturità.
Mi piacevano tanto che negli ultimi anni di servizio nella scuola pubblica feci parte della commissione che sceglieva i brani da proporre al ministro.
 
Rimpiango in particolare la maturità del 1977 per la presenza come membro esterno, di latino e greco appunto, del collega Mario Avorio del liceo Telesio di Cosenza. Dopo gli esami diventammo amici e lo siamo rimasti per anni, fino a quando, troppo presto, morì.
Lo rimpiango, e con lui mi manca il tempo in cui la scuola era un luogo di studio e di amicizie.
Ora le coltivo attraverso le mie conferenze e questi miei scritti.
 
 Cremete dunque domanda all’amico: “Quid faciam?” 924

 
Bologna 31 gennaio 2022 ore 13, 29
giovanni ghiselli

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domenica 30 gennaio 2022

Un pensiero notturno sul successo non immeritato di Giorgia Meloni

Perché la Meloni ha tanto successo pur essendo l’erede meno indiretta di un’esecrabile dittatura?
In parte perché è una donna capace e ha un viso espressivo, non tonto come le facce di  quelli e quelle che ripetono rancidi luoghi comuni, ma soprattutto perché una tirannide, se non è sanguinarìria e idiota come il fascismo  di Mussolini , che l’astuta e intelligente  Meloni non rivendica in toto, è meno lontana dagli interessi e dai bisogni del popolo  di una oligarchia come quella attuale.
 Anche questo devo dire al rinnovato Presidente Mattarella che mi sembra una persona perbene.
Bisogna togliere  voti alla destra, facendo una politica di sinistra, davvero di sinistra.


Buona notte
gianni

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L’importanza della cura anche formale nel parlare e nello scrivere


 

Nell’Ars poetica Orazio suggerisce: “ carmen reprehendite quod non/ multa dies et multa litura coercuit atque/ praesectum decies non castigavit ad unguem” (vv. 292-294), biasimate la poesia che né un lungo tempo né molte cancellature hanno rifinito né dopo averlo sfrondato una decina di volte non ha corretto fino alla perfezione.  

 

Su Orazio sentiamo Nietzsche

 :"Non ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue quel che lì è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni, questo maximum , in tal modo realizzato, nell'energia dei segni-tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia diventa in paragone qualcosa di troppo popolare-nent'altro che loquacità sentimentale"[1]. 

 

Ho trovato pregevole la concisione e la densità significativa di quanto ha detto ieri sera Sergio Mattarella poco dopo la sua rielezione

 

Bologna 30 gennaio 2022 ore 17, 19

giovanni ghiselli

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[1] Crepuscolo degli idoli, Quel che debbo agli antichi, 1.

Al rieletto Presidente della nostra Repubblica

Bene per la dignità del nostro Stato il ritorno di Mattarella alla Presidenza. Male per la decenza del parlamento della Repubblica il fatto che non abbia avuto la capacità di consentire a un signore anziano quello che avrebbe preferito: cambiare attività dopo sette anni impiegati in un lavoro che immagino non conceda tregua.
 
Poche ma belle, anzi poche e belle le parole del Presidente che ha accettato la conferma dopo avere constatato l’inettitudine dei “grandi” elettori che avrebbero dovuto scegliere un successore secondo i suoi desideri.
 
Sergio Mattarella ha dato un esempio a noi tutti ricordandoci il dovere dell’abnegazione del nostro interesse particolare in favore del bene generale.
 
Ha pure detto che spera di interpretare “le attese e le speranze degli Italiani”.
 
Ebbene, le mie e, credo, quelle della maggioranza di noi, sono una riforma della scuola che dia informazione con educazione, che promuova anche socialmente i  giovani più studiosi e bravi, sia tra i discenti sia tra i docenti;  poi una drastica riduzione delle sperequazioni economiche che offendono la Giustizia, ne prendono a calci il volto santo; quindi la tutela della vita e della dignità dei lavoratori e dei pensionati.
 
Ti saluto con tanti in bocca al lupo Presidente, come vecchio professore, all’incirca tuo coetaneo, e come educatore che non si sottrae all’impegno della Paideia
offerta a quanti vogliono leggere e ascoltare le parole con le quali cerco di propagare non solo il sapere (to; sofovn) ma anche, e soprattutto, la sapienza (hJ sofiva) dei classici autori dell’ eterno umanesimo che è amore per l’umanità.  
 
Bologna30 gennaio 2022 ore 9,33
 giovanni ghiselli

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sabato 29 gennaio 2022

Elena 2. L’approccio insufficiente e il rimuginare per la riparazione.


Se conoscere è ricordare quanto abbiamo imparato in altre vite, come afferma Platone[1], anche amare è legato alla reminiscenza di qualche persona antica, o, viceversa, alla dimenticanza di qualche situazione penosa.

Ho amato un’Elena che mi ha fatto venire in mente un’altra Elena, e mi ha ricordato la mamma, e mi ha aiutato a scordare il dolore delle frustrazioni passate.

Questa nuova Helena, la finnica, dunque mi disse di avere studiato lettere e che le insegnava da un anno in una scuola media di Yväskylä. Avrebbe compiuto ventisei anni in settembre: “ha dieci mesi meno di me”, pensai.

Le piaceva molto imparare e insegnare. “Dum docemus, discimus”, le dissi per impressionarla favorevolmente. Sorrise e rispose: “videlicet”,  si capisce, forse non senza una punta di ironia.

All’epoca la gente di educazione accademica usava parole latine come segno di appartenenza a un gruppo eletto. Adesso, quale laudator temporis acti me puero, mi dolgo del fatto che gli ignoranti blaterino storpiando l’italiano mescidato con una lingua franca spacciata per inglese.

Hanno la mente distorta e l’anima malata, poiché parlare male fa male all’anima[2].

 

Ma torniamo ai tempi belli, quelli della vita piena.

Helena amava la vita.

La propria e quella degli altri. Questo è il predicato di nobiltà più nobile e raro.

Si faceva conoscere parlando con precisione, senza parole di troppo, senza luoghi comuni, senza inciampare mai in quanto diceva. Lo faceva con semplicità elegante, non usava la micrologica e pur prolungatissima ciancia delle persone vuote, scontente, spesso pure cattive.

 La trovavo simile e complementare alla mia persona: mi suggeriva e rappresentava l’idea della donna in grado di adoperare bene la propria indole e intelligenza, capace di non ripetere gli stereotipi rancidi continuamente impiegati dagli imbecilli, gli ottusi ripetitori della pubblicità che fa come Circe[3]: trasforma gli uomini, quelli che hanno l’apparenza di uomini, nei maiali veri che sono. Anzi, i maiali veri in confronto a certi cialtroni panciuti fanno la loro porca figura.

 

Helena mi piaceva e mi andava a genio quanto a ciascuno dovrebbe piacere il proprio destino. Quel fato dovevo ancora conquistarlo però.

Infatti io a lei, nel primo approccio, non piacqui altrettanto: da come mi guardava e ascoltava, capivo che non l’avevo colpita con l’aspetto né con altro. L’indifferenza con cui mi guardava non cambiava la bella natura del suo incarnato e della sua persona. Piuttosto, quello sguardo, che nel guardarmi  non si accendeva, rendeva mogio e sbiadito il personaggio brillante che avrei voluto presentare ai suoi occhi.

A un tratto credetti che il suo sguardo annoiato, quasi contrariato, volesse significarmi: “perché non te ne vai? Tu, trattenendomi qui con te, mi fai perdere tempo!”.

Eppure mi trovavo nella mia forma migliore: snello e abbronzato pur dopo il servizio militare. Il fatto è che non trasmettevo forza né sicurezza con il mio sguardo: in faccia avevo il colorito del sole, ma non il suo sangue[4]; il mio parlare non era abbastanza intenso e preciso, non aveva densità né bellezza, anche per via dell’inglese che conoscevo meno bene di lei. Non trovavo la forza di esprimere il meglio di me: la mia diversità dalla gente comune priva di logos e di pathos.

Dovevo avere il coraggio di affondare lo sguardo, come un palombaro[5], dentro la mente per ricavarne qualche pensiero profondo, luminoso e semplice, privo di affettazione, degno di quella donna, e di me. Lei però non mi incoraggiava. Sentivo che stavo assumendo espressioni e atti  sempre più imbarazzati . Le raccontavo soltanto con quale mezzo, per quale via, e con chi, ero arrivato il giorno prima dall’Italia, e che cosa contavo di fare a Debrecen il mese seguente: molto esercizio fisico, qualche lettura, e, magari, se il destino mi assecondava, potevo fondare un’intesa proficua con una donna di valore, se tale pregiata signorina o signora si lasciava conoscere e mi accoglieva. Non ebbi il coraggio di dirle: “con te o con nessun’altra; senza di te la mia crescita umana rimarrà bloccata per sempre: il destino mi ricaccerà nello squallore dell’insignificanza”. Non glielo dissi, ma pensavo proprio in questa maniera tragica.

Ancora però non avevo compreso che per fare qualcosa bisogna essere qualcosa, e, a dire il vero, in quel tempo remoto non ero un granché, quindi non potevo fare niente di egregio. Sapevo commettere qualche bravata giovanile e mi presentavo con un aspetto e uno stile forse non del tutto volgare. Conoscevo già alcune belle sentenze di autori ottimi e le snocciolavo perché suonavano bene e in certe occasioni mi avevano fatto ben figurare.

 

La scuola di Helena, la mia professoressa dell’amore, la finlandese Diotima, mi ha insegnato sulla vita più del sapere succhiato dai libri nei venti anni precedenti.

Lascio il giudizio a te, lettore. Più avanti vedrai.

In quel momento capii solo che non potevo avere quella donna siccome sulla bilancia del fato non ero in grado di mettere un contrappeso mio del valore di lei. Dovevo scavare dentro di me e trovarlo. Oppure piangere la bella creatura perduta prima ancora di averne tratto i benefici che avrebbero potuto dare alla mia vita una svolta verso le cose grandi e belle cui mi sentivo portato. E forse, se non mi avesse amato, sarei morto a[wro", anzi tempo.

“In questo caso, mi sia lieve il suol”, pensai, tragicomicamente.

Oppure potevo consolarmi con un’altra donna, più nobile no, però, e perciò, meno impervia e inaccessibile. “E lei ne troverà un altro forse più fortunato, certo non più innamorato di me”, pensai.

Ma prima di cedere e di cercare uno straccetto di ganza ordinaria tra le creature insignificanti che andavano e venivano, volli provare ancora a conquistare il mio destino che vedevo incarnato in quella donna suprema. Mi preparavo delle frasi significative per significarle appunto che non ero una persona comune

“ Tu  e io separati siamo ciascuno soltanto un suvmbolon, la metà di un segno di riconoscimento. Dobbiamo costruire l’interezza fatta da entrambi. Uniti, saremo un androgino perfetto di pura origine lunare.

 Devo gettare un ponte vertiginoso tra il tuo spirito e il mio. Spero che la vertigine ci faccia cadere nello stesso letto, dopo esserci abbracciati durante il volo”, pensai preparandomi come uno scolaro.

Poi: “Sarà l’abbraccio voluttuoso di due condannati a morire, non posso negarlo, come accade a tutte le altre miserande creature mortali.

Eppure, se questo amplesso avverrà, rimarremo uniti per sempre: attraverseremo insieme le onde del tartareo Acheronte: nemmeno l’orrendo traghettatore potrà separarci agitando implacabile il terribile remo.

Neanche Minosse che,  seduto sul prato degli asfodeli presso il triodo dal quale si dipartono vie diverse, emette sentenze inappellabili, nemmeno questo giudice supremo potrà obbligarci a prendere cammini divergenti: se tu dovrai imboccare la strada caliginosa del Tartaro, io ti seguirò, anche se avessi la possibilità di dirigermi all’isola dei beati piena di luce. Senza di te, in nessun luogo”. Questo pensai ed ero pazzo, ma di una pazzia più saggia della saggezza del mondo.

Di una pazzia che non è alienazione meschina e volgare; anzi è la divina manìa dalla quale derivano agli uomini i beni più grandi.

Note

[1] Menone (81d)

[2] Di nuovo Platone: Fedone: "euj ga; r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e) , sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

[3] hJ suw`n morfwvtria-Kivrkh, Euripde, Troiane, 437-438.

[4] Cfr. il faraone Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i suoi fratelli: “Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E scostando la batista dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte interna dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!” Giuseppe il nutritore (IV volume), p. 204.

Anche Medea ha sangue del sole.

[5] Cfr. Eschilo, Supplici407 divkhn kolumbhth`ro~. Pubblicato fin qui

 

Bologna 29 gennaio 2022 ore 19, 18

giovanni ghiselli

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Terenzio, Heautontimorumenos. 21

Atto V scena 1. Prima parte (874-893)

Menedemo entra in scena parlando tra sé. Fa un confronto tra il proprio metodo mentale e quello dell’amico cui queste parole assegnano un poco  anche il ruolo del rivale.
Il padre di Clinia riconosce di non essere tanto astuto e acuto - ego me non ita astutum neque ita persipicacem esse id scio (874)
Ma, continua,  il mio consigliere e guida ha questo vantaggio su di me- hoc mihi praestat (876): a me si addicono tutti questi titoli che si dicono sugli stolti: caudex, stipes, asinus, plumbeus 877, ceppo, tronco, asino, ottuso e refrattario; a lui niente può adattarsi poiché la sua ingenuità stultitia eius supera tutti questi epiteti.
Dunque Menedemo dubita di quanto gli ha detto Cremete.
 
Non si capisce se questa stultitia è ritenuta ingenuità buona, sancta simplicitas, come quella del’Idiota di Dortoevskij o solo comune stupidità. Sembra più probabile la seconda ipotesi, ma non ne sono sicuro.
E Mattarella? E’ stato una consumata volpe nel fare il ritroso o l’hanno proprio messo con le spalle al muro? Credo di nuovo piuttosto nella seconda ipotesi
Comunque è andata bene così.
 
Entra in scena Cremete rivolto però verso casa sua: parlando a voce alta alla moglie. Le dice di smettere di importunare gli dei deos gratulando obtundere (879) continuando a ringraziarli per la figlia ritrovata.  Li offende giudicandoli con il metro adatto alla sua mente che non capisce una cosa se non la sente ripetere cento volte.
 
Tolstoj suggerisce il contrario: di giudicare tutti con il metro che ci dà Dio: "A nessuno passa per la testa che ammettere una grandezza alla quale non sia applicabile la misura del bene e del male non vuol dire altro che confessare la propria nullità e la propria incommensurabile piccolezza. Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non esiste nulla di incommensurabile e non c'è grandezza là dove non c'è semplicità, bene, verità"[1].
 
Cremete poi domanda perché il loro figliolo non si faccia vedere da tanto tempo.
Menedemo ha sentito qualche parola e gli domanda chi sia in ritardo
Cremete invece di rispondere, scortesemente e nervosamente, gli pone una domanda: vuole sapere se ha riferito a Clinia quanto poco pima aveva saputo.
Menedemo risponde che suo figlio è felice di sposarsi
Cremete ride, e Menedemo gli fa: “quid risisti?” (885) che cosa cè da ridere?
La risposta è che gli sono venute in mente le astuzie - calliditates - 887 di quell’imbroglione di Siro. Itane? Davvero? Fa Menedemo, e Cremete lo  assicura che quella canaglia di servo è capace di falsificare le espressioni delle persone - Voltus quoque hominum fingit scelus (886)
Sarebbe come un bravo regista che sa suggerire a ottimi attori in quale maniera atteggiarsi.
Menedemo domanda se Clinia allora avrebbe recitato la parte dello sposo felice senza esserlo. Cremete conferma.
Menedemo non contraddice l’amico  perché continui a parlare
 Cremete fa un’altra domanda:  vuole sapere da Menedemo quanti soldi gli sono stati chiesti per le nozze del figlio: per la fidanzata ci vogliono vestiti, gioielli e ancelle, opportunamente - sponsae vestem aurum atque ancillas opus esse- avrà detto il servo Dromone argentum ut dares (893) perché tu dessi del denaro.
 
Tutt’altra cosa ancora alla fine del I secolo dopo Cristo erano i matrimoni dei Germani
 
Traduco qui il capitolo 18 della Germania (98 d. C.) di Tacito:
 Tuttavia là i matrimoni sono una cosa molto seria Quamquam severa illic matrimonia, e non potresti approvare di più alcun aspetto dei loro costumi. Infatti  quasi i soli tra i barbari si accontentarno di una moglie a testa, eccetto pochissimi che, non per libidine ma per la nobiltà, sono richiesti con moltissime offerte matrimoniali. La dote non è la moglie che la porta al marito ma il marito alla moglie. Partecipano  i genitori e i parenti e apprezzano i doni, doni non scelti per i capricci delle donne, né tali che con essi la nuova sposa si acconci, ma dei buoi e un cavallo imbrigliato e uno scudo con lancia e spada. In cambio di questi doni si prende la moglie, ed ella stessa a sua volta porta qualche arma all'uomo: questo reputano il legame più saldo, questi i riti segreti, questi gli dei coniugali.
 Perché la donna non si consideri esente dai pensieri di valore e dalle vicende della guerra, è avvisata, dalla stessa cerimonia augurale del primo momento del matrimonio, che viene quale compagna di fatiche e di pericoli e che  accetterà le medesime condizioni in pace e correrà  i medesimi rischi in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo le armi donate.
 Così deve vivere, così morire; ella riceve una tradizione da trasmettere ai figli intatta e degna, che le nuore poi ricevano, e a loro volta consegnino alle nipoti.
Quamquam : qui è avverbio con valore coordinativo correttivo. Corregge l'ultima affermazione del capitolo precedente secondo la quale le donne restano "nudae bracchia ac lacertos; sed et proxima pars pectoris patet " (17, 2) con le braccia e gli avambracci scoperti, ma si vede anche la parte più alta del petto. Per un abbigliamento del genere si può osservare Il ratto delle Sabine[2] di David. Tra l'altro le Sabine sono reputate donne assolutamente serie da Livio e Virgilio[3].


Bologna 29 gennaio 2022 ore 18, 24
Giovanni ghiselli

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[1] Guerra e Pace  , p. 1607.
[2] 1799, Parigi, Louvre.
[3] Tito Livio che elogia l'educazione severa e rigida di quel popolo "quo genere nullum quondam incorruptius fuit" (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero. Anche Virgilio nella Georgica II elogia la vita laboriosa e casta degli antichi rustici Sabini: "Interea dulces pendent circum oscula nati,/casta pudicitiam servat domus, ubera vaccae/lactea demittunt, pinguesque in gramine laeto/inter se adversis luctantur cornibus haedi… Hanc olim veteres vitam coluere Sabini " (vv. 523-526 e 532), intanto i dolci figli tutti intorno gli pendono dalle labbra, la casta famiglia conserva la pudicizia, le poppe della vacca scendono piene di latte, e grassi sull'erba rigogliosa combattono con le corna puntate contro i capretti… Questa vita una volta praticarono i Sabini.

L’elezione


 

L’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

 

Ieri sera Massimo Cacciari ha detto che il male minore sarebbe la conferma nei loro posti dei Dioscuri Mattarella e Draghi.

La nostra nave senza nocchier sotto un cielo che minaccia tempesta non deve perdere altro tempo.

I due dalle stanze dei palazzi, dovranno fare come Castore e Polluce,  che assistiti dalla sorella Elena assunta in cielo,  dalle balze dell’etere salvano i marinai a detta di Apollo deus ex machina nell’esodo dell’Oreste di Euripide (vv. 1636-1637).

 

Una mezza indecenza non riuscire a rinnovare queste due cariche supreme, però meno indecente, aggiungo, del sopire, troncare; troncare sopire che  il conte zio suggerisce al “molto reverendo” padre provinciale nel romanzo di Manzoni (I promessi Sposi, capitolo XIX).

 E’ quanto abbiamo visto fare da diversi giorni: è il metodo di Letta nel contrapporsi alle alzate d’ingegno dell’infarcito Salvini. La situazione di questo nostro paese e pure quella internazionale richiedono la soluzione del “problema Presidenti” in tempi brevi e la proposta di Cacciari mi sembra plausibile

Bologna 29 gennaio 2022 ore 12, 34

giovanni ghiselli 

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Terenzio, Heautontimorumenos. 20

Giorgio de Chirico, Pilade e Oreste
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Atto IV scena 8 seconda parte (857-873)

 
Menedemo lamenta la frustrazione della sua gioia precedente: “ah frustra sum igitur gavisus miser”. (857).
 
Il gaudere deve essere reso funzionale all’intelligenza e alla maturazione come ogni forma di pathos. Gli amori che finiscono dopo averci dato una gioia anche breve bon devono essere mai rinnegati ma contribuire per sempre al nostro potenziamento e progresso.
 
Tuttavia, continua il padre innamorato del figlio, preferisco qualunque cosa al perderlo: “Quidvis tamen iam malo quam hunc amittere” (858).
Ha imparato dal dolore precedente.
 
Quindi chiede consiglio all’amico sul da farsi. Comunque non vuole dare un dispiacere al figlio: “ne sentiat me sensisse atque aegre ferat” 860.
Il poliptoto verbale sottolinea la volontà di non affliggere Clina facendogli sapere quanto lui ha saputo.
 
Cremete rimprovera all’amico l’eccessiva indulgenza: “nimium illi, Menedeme, indulges” 861.
Il fatto è che Menedemo vuole rimediare all’eccessiva severità dell’antefatto.
Ma Cremete non cede: oramai si è iniziato così e vuole percorrere  questa sta strada metodicamente, fino in fondo.
Cremete ha visto l’amico risoluto e gli dice che può lasciare credere al figlio che lui crede alla storia delle nozze: “dic convenisse, egisse te de nuptiis” 862, di’ che ci siamo incontrati e che hai trattato per le nozze.
 
Il matrimonio è anche un affare e richiede trattative. Uno dei motivi per non sposarsi. Non c’è nessuna ragione favorevole a questo costume.
Credo di avere già citato l’Alcesti di Euripide e altri testi con i quali autorizzo questa mia posizione.
 
Cremete aggiunge che Menedemo può dire al figlio che l’accordo tra i due padri sulle nozze dei figli c’è stato. Em, istuc volueram” (866), ecco questo volevo, ringrazia l’amico.
Cremete spinge Menedemo ad affrettarsi e questo risponde di nuovo che lo desidera.
Cremete però non rinuncia a metterlo in guardia: “ut istam rem video, istius obsturabere” (obsaturaberis) ne sarai sazio (869). Come di un cibo che mangiato più volte viene a noia, fino al disgusto.
 
"Il problema del matrimonio è che finisce tutte le notti dopo che si è fatto l'amore, e bisogna tornare a ricostruirlo tutte le mattine prima della colazione" sostiene il dottor Urbino, "il marito" di un romanzo di Màrquez[1]. Questo è un lavoro che una persona non si sobbarca se ne ha uno migliore
 
Quindi Cremete suggerisce a Menedemo di dare il denaro cautim et paulatim- si sapies  (870-871) con cautela e poco alla volta, se sarai  accorto. Medemo promette che gli darà retta-faciam-
 
Così i due amici si accordano: mentre si apprestano a  tornare ciascuno in casa sua, Cremete promette a Menedemo il suo aiuto:“Ego domi ero, siquid me voles (872) e il padre di Clinia risponde: “Sane volo” certo che voglio, poi aggiunge: “Nam te scientem faciam , quidquid egero” 873, infatti ti metterò al corrente di ogni mia azione. L’amicizia tra questi due vecchi ricorda quella tra Pilade e Oreste in diverse tragedie
L’amicizia è tenuta in maggior conto della parentela da Oreste e da Euripide il quale nell'Oreste[2]  fa dire al protagonista, in lode dell'amicizia di Pilade: "acquistate amici, non solo parenti:/poiché chiunque collimi nel carattere, pur essendo un estraneo,/è un amico più caro ad aversi di mille consanguinei (murivwn kreivsswn oJmaivmwn ajndri; kekth`sqai fivlo~)" (vv. 804-806)

Fine del IV atto


Bologna 29 gennaio 2022 ore 10, 11

giovanni ghiselli

p. s.
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[1] L'amore ai tempi del colera, p. 222.
[2] Del 408 a. C.

venerdì 28 gennaio 2022

Terenzio, Heautontimorumenos. 19

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Atto IV scena 8 (842-873) prima parte (842-857)


 
Menedemo esce fuori da casa sua parlando tra sé,  comunque a voce alta.  i Reputa se stesso “multo omnium nunc fotunatissimum” (842) dopo che il figlio gli ha spiegato come stanno le cose.
 Questo ritenere di essere giunto sul colmo della felicità viene considerato dai Greci più saggi come Solone una forma di u{bri" che può scatenare la cosiddetta “invidia degli dèi”.
 
Sentiamo Erodoto.  Creso lo straricco re di Lidia aveva pacchianamente sfoggiato le sue ricchezze al legislatore ateniese aspettandosi che Solone lo giudicasse l’uomo più felice della terra o almeno il secondo in questa graduatoria.
Ma il saggio nomoqevth" gli disse: "O Creso, tu fai domande sulle vicende umane a me che so che il divino è tutto invidioso e perturbatore. Infatti nel lungo tempo molti accadimenti ci sono da vedere che uno non vuole, molti anche da soffrire. Io a settant'anni pongo il termine della vita dell'uomo (…)
 Di  tutti i giorni compresi in settant'anni, che sono ventiseimiladuecentocinquanta, l'uno di loro non porta affatto nessuna faccenda  uguale all'altro.
Perciò l'uomo è del tutto in balìa degli eventi (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforh v, I, 32, 4).
A me tu appari molto ricco, Creso, e vedo che sei re di molte genti: ma quello che tu mi domandavi, ancora non te lo dico, prima di venire a sapere che tu hai finito bene la vita.
Per nulla infatti colui che è assai ricco è molto più felice di chi vive alla giornata, se non lo accompagna la sorte di finire bene la vita con tutte le sue belle cose. Molti uomini straricchi infatti sono infelici, e molti che hanno risorse misurate, sono fortunati (…)
 Se, dopo avere avuto il  benessere e una buona reputazione, un uomo finirà anche bene la vita, questo è colui che tu cerchi, quello degno di essere chiamato felice, ma prima che sia morto, aspetta e non chiamarlo ancora felice, bensì fortunato (Storie, I, 32, 7)
 
Torniamo a Terenzio
Cremete  ha sentito quanto ha detto Menedemo, e per quanto ne sa lui, esclama tra se: “ut errat!” (844)
Quindi i due vecchi si parlano
Menedemo chiede a Cremte: “Serva, quod in te est, filium et me et familiam”, 845. Quindi gli dice che suo figlio vuole in moglie la figlia  ritrovata dall’amico poprio quel giorno.
Cremete però  ricorda a Menedemo che sta per cadere in una  truffa ordita per derubarlo.
Menedemo sa che Bacchide è amante di Clitifone, mentre Cremete sa che il progetto di matrimonio di Clinia con sua figlia è un inganno inventato per chiedere al padre i soldi che il giovane pseudosposo darà a Bacchide.
 
In questi imbrogli veri o inventati c’è molta stortura e non sono facili da seguire da parte di chi ha un modo di fare diretto.
Una gioco contorto di questo genere sta avvenendo nell’attuale game of chess , nel senso eliotiano,[1] del nuovo presidente della Repubblica.
Un’altra stortura della verità che invece è una cosa dritta:  fra i titoli del telegiornale delle 19 uno faceva: “il nemico è il riscaldamento globale”.
Da alcuni giorni i contagi non aumentano perché la luce del sole sta crescendo di molto e un poco anche il calore. E’ evidente che c’è un nesso tra il calo dei contagi, la diminuzione dei ricoverati in terapia intensiva, dei morti per covid,  e l’innalzarsi del sole nel cielo con l’intiepidirsi dell’aria. Lo vediamo per la terza volta in più di due anni. Ma i conformisti del luogo comune, in cattiva fede se sono degli opportunisti farabutti o in buona fede se cretini integrali, devono dire che il sole e il caldo sono nemici della vita. E’ una bestemmia tra le più turpi.
 
Menedemo crede subito a Cremete e sconsolato dice: id est profecto: id amicae dabitur”, è proprio così, lo darà all’amante. Cioè all’etera Bacchide, altro che la vergine Antifila!
E Cremete conferma: “Scilicet- daturum”, si capisce, glelo darà (856-857)  


Bologna 28 gennaio 2022 ore 20, 14
giovanni ghiselli

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Ora vado a correre per almeno 30 minuti
 


[1] Cfr. T. S. Eliot, The Waste Land, II A game of chess

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...