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Infatti si sono voluti trovare in Menandro influssi anche di Epicuro, suo coetaneo e compagno di efebia. Particolarmente sarebbe epicureo il v. 734 di L'arbitrato: oujk a\ra frontivzousin hJmw'n oiJ qeoiv;
"non si occupano dunque di noi gli dèi?" , ma non è sicuro che l'apertura del Giardino epicureo (306 a. C.) sia antecedente a questa commedia che pure risale alla maturità artistica di Menandro. Questa ipotesi poi viene smentita dallo stesso personaggio che ha posto la domanda, Onesimo, lo schiavo di Carisio.
Le influenze più consistenti più consistenti in ogni caso derivano dal Peripato come viene indicato dallo studio di A. Barigazzi:"La formazione spirituale di Menandro .
Ne riferiremo alcune affermazioni esaminando le commedie. Menandro ne compose più di cento, ma sino alla fine del secolo scorso conoscevamo solo un migliaio di frammenti e 758 Massime (Gnw'mai) monostiche, forse nemmeno tutte autentiche. Molto nota è la sentenza " o{n oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo" ", fortemente pessimistica, usata da Leopardi come epigrafe del Canto Amore e Morte in questa traduzione:
" Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
Il Recanatese nello Zibaldone (3487) definì l'autore "principe" della commedia nuova neva o deutevra, nuova o seconda
Leopardi dunque come Aristotele considera solo due tipi di commedia greca: l’ajrcaiva e la neva.
Assai più significativo della visione menandrea del resto è il fr. 484 Kö che fa: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\”
"che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".
Dai primi del Novecento in avanti sono stati scoperti papiri che hanno permesso una discreta conoscenza di Menandro: un fortunato reperimento del 1905 portò alla luce cinque commedie le cui lacune non impedivano la comprensione generale. La più estesa e nota è l'Arbitrato ( [Epitrevponte"); altre tre sono la Ragazza di Samo , la Tosata e l'Eroe ; la quinta è tuttora senza titolo.
Nel 1958 è stato pubblicato un codice con una commedia intera, Duvskolo", il Misantropo , che cercherò di rendere familiare a chi mi legge e mi ascolta . Ancora più di recente sono state trovate parti dello Scudo , di L'uomo di Sicione e di altre commedie, ma non voglio proseguire con l'elenco.
Menandro non ebbe successo in vita, come attesta il verso di Marziale (V, 10, 9): "rara coronato plausere theatra Menandro " , raramente i teatri applaudirono Menandro vincitore.
Il poeta ebbe comunque coscienza del proprio valore, tanto che, secondo la testimonianza di Aulo Gellio (Noctes Atticae XVIII, 4) una volta domandò al più fortunato Filemone:"cum me vincis, non erubescis? ", quando mi vinci non arrossisci dalla vergogna?, e da morto fu tanto considerato dagli autori latini che Ovidio, ritenendolo principe e padre della commedia nuova e delle sue figure fisse, ebbe a scrivere ("dum fallax servus, durus pater, improba lena/
vivent et meretrix blanda, Menandros erit " Amores , I, 15, 17-18), finché ci sarà lo schiavo ingannatore, il padre severo, la ruffiana disonesta e la cortigiana adulatrice, ci sarà Menandro.
In effetti il commediografo ateniese venne utilizzato tanto da Plauto quanto, soprattutto, da Terenzio che Cesare chiamò " o dimidiate Menander ", Menandro dimezzato, e che prese dal modello greco non solo l'intreccio e le scene di quattro delle sei commedie a noi pervenute (Andria , Eunuchus , Adelphoe , Heautontimorumenos ) ma anche la più celebre delle sue sentenze umanistiche
"homo sum: humani nil a me alienum puto " (Heaut .77 ), sono uomo: niente di ciò che è umano non mi riguarda. E' questo un verso ideologico e programmatico per entrambi gli autori.
Altro tema considerato tipico della commedia menandrea è quello amoroso: Ovidio, poeta mulierosus , donnaiolo, e lascivus , sensuale, seppure non "desultor amoris ", saltimbanco dell'amore, come tiene a precisare lui stesso (Amores , I, 3, 15), trova in Menandro un predecessore e un maestro: "Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri /et solet hic pueris virginibusque legi (Tristia , II, 369- 370): ", nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore.
Ovidio si giustifica per la sua poesia amorosa: “denique composui teneros non solus amores (361)
Il poeta Peligno elenca gli autori di poesia amorosa: Saffo, Omero, i tragici, Catullo e gli elegiaci latini prima di lui Gallo, Properzio, Tibullo.
L'amore prende vari aspetti: il più comune è quello dell'affetto che, per esempio, provano reciprocamente Carisio e Panfile, gli sposi di L'arbitrato , ma c'è anche la gelosia di Polemone per Glicera in La tosata e un ricordo dello stupro subito dalla stessa Panfile.
Un amore del resto non contaminato dalla volgarità: Plutarco nella Comparatio Aristophanis et Menandri elogia la decenza e il decoro di Menandro in confronto alla volgarità di Aristofane.
Prima di entrare nell'analisi della poetica e della poesia del drammaturgo greco però vale la pena di spendere due parole sui tempi nei quali visse.
Menandro apparteneva alla cerchia di Demetrio del Falero che dal 317 al 307 governò Atene per conto di Cassandro che fu prima reggente (319-306) per conto del padre Antipatro, poi re (306-294) di Macedonia. Questo governo, moderatamente oligarchico, abolì il fiscalismo democratico e garantì una certa tranquillità alla classe abbiente.
Dal 307 al 301 Demetrio Poliorcete, “l'assediatore di città”,-povli", e{rko" “chiusura”- conquistò Atene instaurando una democrazia formale, non senza favorire il culto della personalità, la propria e quella del padre Antigono Ciclope, da parte degli Ateniesi.
Menandro se la cavò grazie all'intercessione di un parente del nuovo padrone della polis.
Il Poliorcete perse Atene in seguito alla battaglia di Ipso (301) nella quale suo padre Antigono fu sconfitto e ucciso dagli altri diadochi: Cassandro, figlio del diadoco Antipatro divenne signore della Grecia e mise a capo di Atene il tiranno demagogo Lacare; ma dopo la morte di Cassandro, nel 294, Demetrio riconquistò Atene, quindi divenne pure re di Macedonia; nel 290 però fu sconfitto da Pirro, e nel 288 Atene, guidata dallo stratego Olimpiodoro, gli si rivoltò contro.
Il grande avventuriero Demetrio finì battuto da Seleuco I, re della parte asiatica dell'impero di Alessandro, e morì nel 283 suo prigioniero. Tuttavia suo figlio Antigono Gonata riconquisterà la Macedonia (277) e fonderà la dinastia degli Antigonidi.
Abbiamo raccontato alcune fasi della vita del Poliorcete non solo per l'influenza che ebbe su quella di Menandro i cui drammi per altro, essendo borghesi e impolitici, non presentano riflessi chiari di questi avvenimenti, ma perché questa biografia avventurosa venne interpretata come un segno dell'onnipotenza alterna di Tuvch (la Fortuna) la divinità volubile e capricciosa che nell'età ellenistica sostituisce gli dèi olimpi.
Plutarco nella suaVita di Demetrio Poliorcete (35) fa questo commento:"Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo: "Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi" (fr. 359 Nauck).
La Fortuna dunque è pure la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato, un giovane ricco vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella.
Il padre Callippide gli dice:"Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti"(795),
Ebbene, Sostrato replica: “ tutto quello che hai è della sorte ( th'ς tuvchς de; pant j e[ceiς, v. 801) che come ha dato può togliere.
Cfr. Il mutua accepimus di Seneca
Dobbiamo aspettarci i tiri mancini della fortuna: faranno meno male. Ogni volta che qualcuno cadrà al tuo fianco dovrai esclamare:”alium quidem percussisti, sed me petisti” (Ad Marciam, 9, 3), ora hai colpito un altro ma hai mirato a me! I nostri beni, materiali e umani, ci sono dati in prestito, nostro è soltanto l'usufrutto: “mutua accepimus. Usus fructusque noster est » (10, 2). Tutto viene trascinato via.
“In questa rapina rerum omnium (Marc. 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma Traina[1].
Saepe admonendus est animus omnia amet ut recessura, immo tamquam recedentia (10, 3) bisogna spesso avvertire l’animo di amare tutti i beni come cose che se andranno, anzi che se ne vanno. Et sine dilatione omne gaudium haurite: nihil de odierna nocte promittitur (10, 4), e senza indugio assorbite ogni gioia: nulla è promesso per la notte di oggi.
Medea in tutta la tragedia di Seneca rivendica il suum esse del De brevitate vitae[2] . Avendo davanti agli occhi questa visione d'insieme bisogna moderare il dolore: dovete farlo soprattutto voi donne “quae immoderate fertis” (Ad Marciam, 10, 7) che lo portate in maniera smodata, suggerisce Seneca alla madre che ha perduto un figlio.
Da questa assolutizzazione della Fortuna discende l'affermazione della necessità del sostegno e del soccorso reciproco: con quello che abbiamo, per morale e per logica, bisogna:
"aiutare tutti"( ejpikourei'n pa'sin, Dyskolos, 807). Il modello anche in questo caso è Euripide.
Nelle Fenicie Giocasta dice a Eteocle disposto a commettere il male per il potere
"che cosa è il più? soltanto un nome:
poiché ai saggi basta il necessario.
Questi mortali tengono la ricchezza come cosa propria,
ma quando vogliono gli dèi la portano via di nuovo.
Il benessere non è sicuro ma effimero" (vv. 553-558).
Vediamo qualche parola di Euripide.
Il più dunque ha soltanto un nome: tiv d’ ejsti; to; plevon ; o[nomj e[cei movnon ( 553) , poiché ai saggi basta il necessario (ejpei; tav g j ajrkounqj iJkana; toi'ς ge swvfrwsin 554), le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j , au[t j ajfairou'ntai pavlin ( Fenicie 557).
Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando Callippide dice a Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il figlio, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Orazio:“Linquenda tellus et domus et placens-uxor neque harum, quas colis arborum-te praeter invisas cupressos-ulla brevem dominum sequetur” (Orazio, Odi, II, 14, vv. 21-24), devi lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e di questi alberi che coltivi, nessuno ti seguirà, padrone istantaneo, tranne gli odiosi cipressi.
La morale della solidarietà ha un seguito nella Stoà, una delle grandi scuole filosofiche dell'età ellenistica, fondata ad Atene da Zenone intorno al 300 a. C.
Marco Aurelio, l'imperatore (161-180 d. C.) filosofo, scrive (Ricordi , II, 1):"noi siamo nati per darci aiuto reciproco- pro;ς sunergivan-, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti".
L'umanità di Menandro dunque tende ad essere comprensiva e gentile senza nulla di grande nel bene e nel male: l'amore è soave piuttosto che tremendo come in Saffo, e anche gli altri sentimenti non hanno nulla di apocalittico.
La sua poesia sta nella bontà e nella comprensione che l'uomo deve all'uomo. I suoi personaggi solitamente rifuggono dai sentimenti volgari: perfino le etère, come Abrotono di L'arbitrato sono capaci di finezza d'animo e generosità. I classicisti dell'età imperiale, quando vollero difendere l'eticità della cultura greca davanti alle accuse dei Cristiani, indicarono i testi di Menandro che si svolgono in un clima di generosità, mitezza e di parola castigata.
Bologna 7 dicembre 2022 ore 17, 12
giovanni ghiselli
p. s.
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[1]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , p. 13.
[2] Composto tra il 49 e il 52 :
“Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est”, 2, 4, , quello è
dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
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