domenica 23 gennaio 2022

Menandro intero. Martedì 25 gennaio alle ore 18 inizierò il mio corso partendo da questo autore

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Martedì 25 Gennaio alle ore 18 inizierò il mio corso partendo da questo autore

La commedia nuova. Introduzione
 
Avvertenza: questa introduzione contiene diversi nomi di autori e titoli di testi che non ci sono arrivati. Non è mio costume elencare nomi e titoli annoiando me stesso e non dando niente ai miei allievi.
Perciò nel fare lezione, il 25 gennaio, mi soffermerò sulle critiche fatte alla commedia nuova da autori di valore dei quali abbiamo i testi: Nietzsche, Oscar Wilde, Leopardi.
Il resto può essere utile per una consultazione e lo tralascio in questo post.
 
Menandro di Atene (342-291) è il principale autore della Commedia Nuova.
Di Menandro commenteremo il Dyskolos, e accenneremo agli Epitrepontes.
 
Aristotele nell'Etica Nicomachea distingue solo la commedia Antica dalla Nuova, ma in una tripartizione successiva c’è una fase intermedia: la Commedia di mezzo, caratterizzata dalla parodia mitologica e, quindi, dall'abbandono dei temi collettivi e politici del dramma di Aristofane.
Del resto forti segni di cambiamento sono già presenti nei suoi ultimi lavori: le Ecclesiazuse (del 392) e il Pluto (del 388) non hanno la parabasi e presentano le parti corali ridotte a semplici intermezzi.
 
Questo significa che la commedia agli inizi del IV secolo ha preso la strada che la distingue dal dramma del periodo precedente.
D’altra parte il processo di riduzione del peso del coro comincia già con Eschilo, secondo Nietzsche.
 
La commedia di mezzo
Noi dunque manteniamo lo schema ternario che risale ai grammatici dell'età dell’imperatore Adriano (117-138), probabilmente sulla scia di quelli Alessandrini, e datiamo la Commedia di mezzo negli anni compresi fra il 385 e il 330.
 
Aggiungiamo una triade di nomi per fare il verso a Orazio: Alessi originario di Thuri 372- 270; sarebbe stato zio di Menandro.
Poi Antifane e Anassandride.
 
Di questi autori ci restano solo frammenti dai quali si individuano, oltre le parodie mitologiche di cui si è detto, anche scene di vita quotidiana, mentre si riduce ancora la partecipazione del coro all'azione, in quanto i canti corali tendono a diventare solo intermezzi ( jembovlima), e spariscono gli attacchi personali a uomini politici, sostituiti da filosofi, soprattutto pitagorici e accademici.
Del resto questo elemento non mancava in Aristofane, come abbiamo visto dalle Nuvole Inoltre si sviluppano i tipi fissi quali il soldato gradasso e sbeffeggiato che d'altra parte ha un precedente nel Lamaco degli Acarnesi . Anche la parodia mitologica non mancava nella Commedia Antica: Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che fugge terrorizzato tra le braccia del suo sacerdote (v. 297) e che viene apostrofato dal servo Xantia con:
" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 487).
Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (479).
 
Le corrispondenze tra questi innovatori relativi e il vecchio Aristofane non sono finite: Antifane in un frammento proclama beati i tragediografi i quali non devono inventare la trama dei loro drammi poiché la prendono già tessuta dal mito e quando si trovano negli impicci ricorrono al deus ex machina , mentre i poveri commediografi devono creare tutto ex novo .
Si ricorderà che il poeta delle Nuvole rivendica, senza lamentarsene, la propria eccezionale inventiva e laboriosità.
 
Anassandride fece drammi con intrighi amorosi. L’amore non manca mai nelle commedie di Menandro.
 
Di Alessi della Magna Grecia ricordiamo la commedia intitolata Lino che narra un caso avvenuto al mitico citarista che dava lezioni a Eracle e voleva fargli leggere i poeti, mentre lo scolaro affamato era attratto solo da un libro di cucina.
Nella commedia Lino di Alessi (380-270 a. C., autore della commedia di mezzo, zio o maestro di Menandro) l’autore narra che il mitico citarista dava lezioni a Eracle e voleva spingerlo a leggere i poeti, ma lo scolaro, spinto dalla voracità, prese dalla biblioteca L’arte di cucinare di un certo Simo (fr. 140 K. –A.).
 
Non mancano nel repertorio di questi poeti il travestimento derisorio di tragedie note, soprattutto di Euripide che, presente nei drammi di Aristofane come bersaglio polemico, diviene il modello prediletto da tutti i commediografi successivi.
 
La commedia nuova
La Commedia Nuova (databile dal 325 alla metà del III secolo) è più conosciuta della precedente sia per le recenti scoperte papirologiche di testi di Menandro sia per i rifacimenti latini di drammi degli altri due della triade: Filemone e Difilo, contemporanei del primo.
 
In questo caso però dobbiamo aggiungere almeno un paio di nomi poiché Terenzio prese come modelli del Phormio e dell' Hecyra due commedie di Apollodoro di Caristo ( jEpidikazovmeno" Colui che reclama un giudizio. e la Suocera jEkurav).
Plauto per l' Asinaria utilizzò l'Asino selvatico di Demofilo, entrambi posteriori a Menandro di una trentina d'anni.
Sono due autori della commedia nuova
 
In questa terza fase, il coro non prende nessuna parte all'azione ma riempie gli intervalli con canti e danze; gli attacchi personali sono sempre più rari e innocenti, in quanto indirizzati soprattutto a etère e parassiti. Rimane però un tratto caratteristico della Commedia antica: quello di un personaggio che si rivolge agli spettatori invocati come testimoni o giudici.
 
 Il modello di questi autori è più che mai Euripide: al punto che Filemone "voleva farsi subito impiccare, soltanto per poter visitare Euripide nel mondo infero: purché potesse essere veramente persuaso che l'estinto conservava ancora laggiù le sue facoltà intellettuali".
Sono parole di Nietzsche il quale in La nascita della tragedia (11) parla della commedia nuova, "che venerava nella tragedia la sua precorritrice e maestra", come di una "figura degenerata" del dramma euripideo e spiega:"Dato questo legame che intercorre fra le due forme è comprensibile l'appassionata simpatia che i poeti della nuova commedia sentivano per Euripide... Ma volendo indicare con la massima brevità...ciò che Euripide ha di comune con Menandro e Filemone e che cosa agì su di loro come modello e li spronava all'imitazione, basterà dire che Euripide ha portato sulla scena lo spettatore... la maschera fedele della realtà. L'uomo comune penetrava attraverso lui sulla scena; lo specchio in cui prima non apparivano che tratti grandiosi e audaci ora mostrava soltanto quella penosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche i tratti non riusciti della natura. Odisseo...decadde sotto le mani dei nuovi poeti fino ad assumere la figura del greculo, che d'ora in poi starà al centro dell'interesse drammatico come schiavo domestico bonario e scaltro.
Ciò che Euripide ascrive a proprio merito nelle Rane di Aristofane", quando si vanta di avere reso snella la tragedia (v. 941), "e cioé di avere liberato, con le sue ricette casalinghe, l'arte tragica dalla sua pomposa corpulenza, si sente soprattutto nei suoi eroi tragici.
Ora lo spettatore vedeva e sentiva sulla scena quasi un proprio fedele doppione".
 
Tale realismo dunque può definire anche i poeti della Commedia nuova, tanto che il filologo Aristofane di Bisanzio, prefetto della grande biblioteca di Alessandria vissuto tra il III e il II secolo (257-180) ebbe a domandare: "w\ Mevnandre kai; bive povtero" a[r uJmw'n povteron ajpemimhvsato;", o Menandro, o vita, chi di voi due ha imitato l'altro?
Sono parole echeggiate da Cicerone che nella Repubblica (IV, 13) definì la commedia:"imitationem vitae , speculum consuetudinis, imaginem veritatis ".
 
E' opportuno a questo punto un excursus su Oscar Wilde il quale in La decadenza della menzogna (del 1889) dà la risposta paradossale a questa domanda retorica:"la vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita...Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare...I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele...Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij" (pp.222-224).
 
 Da Euripide questi autori invero non hanno preso solo il realismo delle situazioni ma anche elementi strutturali come il Prologo che, recitato spesso da una divinità o da un elemento personificato della natura, informa sull'antefatto del dramma, o anche alcuni aspetti del contenuto quali l'interesse per i fatti amorosi, le vicende familiari, la psicologia dei personaggi, e il linguaggio naturalistico, non lontano da quello parlato.
 
Ora diamo qualche notizia su Filemone e Difilo, quindi passeremo a Menandro con i suoi testi.
 Filemone era originario di Siracusa dove nacque intorno al 360 a. C. ma passò quasi tutta la vita ad Atene dove morì quasi centenario. Quintiliano (Institutio Oratoria , X, 1, 72) ci informa che spesso fu preferito a Menandro, ingiustamente dai critici del suo tempo, ma più tardi, con il consenso di tutti, meritò di essere considerato secondo:"Philemon, qui ut prave sui temporis iudiciis Menandro saepe praelatus est, ita consensu tamen omnium meruit credi secundus ".
 
Di Filemone ci sono arrivati una sessantina di titoli e numerosi frammenti. Ricordiamo tre titoli di drammi utilizzati da Plauto: l' [Emporo", il Mercante da cui deriva il Mercator, lo Qhsaurov", il Tesoro, modello del Trinummus (I tre soldi)
 E il Favsma, il Fantasma, modello della Mostellaria (la commedia del fantasma: mostellum ).
Plauto ha poi derivato le Bacchides dallo Di;ς ejxapatw̃n di Menandro, “Colui che inganna due volte.
Il Favsma è forse di Menandro
 
Leopardi nello Zibaldone (pp. 41-42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nello Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10-16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno".
 
Difilo nacque intorno alla metà del IV secolo a Sinope sul Ponto da dove si trasferì presto ad Atene. Morì a Smirne, sulla costa ionica dell'Asia minore agli inizi del III secolo. Ci sono arrivati una sessantina di titoli e frammenti meno numerosi ma più estesi di quelli di Filemone. Una delle sue commedie aveva come protagonista la poetessa Saffo corteggiata da Archiloco e Ipponatte.
 
Plauto nei Commorientes imitò i Sunapoqnhvskonte" coloro che vogliono morire insieme di Difilo , dramma dal quale Terenzio tradusse "verbum de verbo " parola per parola un "locus ", una scena, che Plauto lasciò "integrum " intatta, e per questo poté essere inserita, con una contaminatio , negli Adelphoe (Prologo, vv. 9-11) del resto ricavati dagli jAdelfoiv di Menandro.
Plautus cum latranti nomine (Casina, 34) utilizzò Difilo anche per Rudens ( La gomena, ma non si conosce il titolo del modello) e per la Casina la sua ultima commedia, del 185. Càsina è la ragazza del caso, derivata dai Klhrouvmenoi , (Coloro che tirano a sorte). Anche la Vidularia (La commedia del baule, vidulus , è modellata su una commedia di Difilo, Scediva, la Zattera.
 
Fine di questa introduzione povera di idèe e di testi a parte Nietzsche, Wilde e Leopardi. Devo dirlo e scusarmi.
Me lo ha insegnato un’allieva di terza liceo al Minghetti, nel 1976, quando ero ancora inesperto e snocciolavo i nomi come avevano fatto i miei docenti con me.
 Tanti titoli e nomi, nessuna citazione di testi.
La ragazza dunque disse che facendo tale tipo di lezione non davo niente a loro, agli allievi. Compresi subito che aveva ragione, gliela diedi e mi corressi.
Correggetemi ancora se vi annoio. Ve ne sarò grato. Annoiare è il crimine degli imbecilli.
 
 
Introduzione a Menandro
 
Occupiamoci ora di Menandro. Visse fra il 342 e il 292 sempre in Atene, da dove non volle mai allontanarsi nonostante inviti di potenti come Tolomeo I Sotèr che lo chiamò alla corte di Alessandria. Fu discepolo di Teofrasto, il successore di Aristotele nella direzione della scuola peripatetica, dal quale ricavò una buona preparazione filosofica e forse alcuni suggerimenti dai Caratteri , trenta schizzi di tipi umani, ciascuno con una inclinazione predominante: la rusticità, l'adulazione, la superstizione, la diffidenza; ho menzionato questi quattro titoli non a caso ma perché corrispondono ad altrettanti protagonisti eponimi di commedie di Menandro il cui debito del resto non va molto oltre la denominazione, siccome nel poeta i caratteri hanno uno sviluppo ben più ampio, e poiché l'interesse per la psicologia umana era diffuso nell'epoca tra pensatori di scuole diverse.
Infatti si sono voluti trovare in Menandro influssi anche di Epicuro, suo coetaneo e compagno di efebia. Particolarmente solleverebbe una questione epicurea il v. 734 di L'arbitrato: oujk a\ra frontivzousin hJmw'n oiJ qeoiv;
"non si occupano dunque di noi gli dèi?"
Una domanda retorica la cui risposta no, siccome gli dèi danno a ciascuno un custode che è il carattere-to;n trovpon- (735
Del resto non è sicuro che l'apertura del Giardino epicureo (306 a. C.) sia antecedente a questa commedia che pure risale alla maturità artistica di Menandro.
Questa ipotesi poi viene smentita dallo stesso personaggio che ha posto la domanda, Onesimo, lo schiavo di Carisio.
 
 Le influenze più consistenti più consistenti in ogni caso derivano dal Peripato come viene indicato dallo studio di A. Barigazzi:"La formazione spirituale di Menandro .
Ne riferiremo alcune affermazioni esaminando le commedie. Menandro ne compose più di cento, ma sino alla fine del secolo scorso conoscevamo solo un migliaio di frammenti e 758 Massime (Gnw'mai) monostiche, forse nemmeno tutte autentiche. Molto nota è la sentenza " o{n oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo" ", fortemente pessimistica, usata da Leopardi come epigrafe del Canto Amore e Morte in questa traduzione:
" Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
Il Recanatese nello Zibaldone (3487) definì l'autore "principe" della commedia nuova neva o deutevra, nuova o seconda
Leopardi dunque come Aristotele considera solo due tipi di commedia greca: l’ajrcaiva e la neva.
 
Assai più significativo della visione menandrea del resto è il fr. 484 Kö che fa: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\
"che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".
Dai primi del Novecento in avanti sono stati scoperti papiri che hanno permesso una discreta conoscenza di Menandro: un fortunato reperimento del 1905 portò alla luce cinque commedie le cui lacune non impedivano la comprensione generale. La più estesa e nota è l'Arbitrato ( [Epitrevponte"); altre tre sono la Ragazza di Samo , la Tosata e l'Eroe ; la quinta è tuttora senza titolo.
Nel 1958 è stato pubblicato un codice con una commedia intera, Duvskolo", il Misantropo , che cercherò di rendere familiare a chi mi legge e mi ascolta . Ancora più di recente sono state trovate parti dello Scudo , di L'uomo di Sicione e di altre commedie, ma non voglio proseguire con l'elenco.
 Menandro non ebbe successo in vita, come attesta il verso di Marziale (V, 10, 9): "rara coronato plausere theatra Menandro " , raramente i teatri applaudirono Menandro vincitore.
 Il poeta ebbe comunque coscienza del proprio valore, tanto che, secondo la testimonianza di Aulo Gellio (Noctes Atticae XVIII, 4) una volta domandò al più fortunato Filemone:"cum me vincis, non erubescis? ", quando mi vinci non arrossisci dalla vergogna?, e da morto fu tanto considerato dagli autori latini che Ovidio, ritenendolo principe e padre della commedia nuova e delle sue figure fisse, ebbe a scrivere ("dum fallax servus, durus pater, improba lena/
vivent et meretrix blanda, Menandros erit " Amores , I, 15, 17-18), finché ci sarà lo schiavo ingannatore, il padre severo, la ruffiana disonesta e la cortigiana adulatrice, ci sarà Menandro.
 
 In effetti il commediografo ateniese venne utilizzato tanto da Plauto quanto, soprattutto, da Terenzio che Cesare chiamò " o dimidiate Menander ", Menandro dimezzato, e che prese dal modello greco non solo l'intreccio e le scene di quattro delle sei commedie a noi pervenute (Andria , Eunuchus , Adelphoe , Heautontimorumenos ) ma anche la più celebre delle sue sentenze umanistiche
"homo sum: humani nil a me alienum puto " (Heaut .77 ), sono uomo: niente di ciò che è umano non mi riguarda. E' questo un verso ideologico e programmatico per entrambi gli autori.
 
Altro tema considerato tipico della commedia menandrea è quello amoroso: Ovidio, poeta mulierosus , donnaiolo, e lascivus , sensuale, seppure non "desultor amoris ", saltimbanco dell'amore, come tiene a precisare lui stesso (Amores , I, 3, 15), trova in Menandro un predecessore e un maestro: "Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri /et solet hic pueris virginibusque legi (Tristia , II, 369- 370): ", nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore.
Ovidio si giustifica per la sua poesia amorosa: “denique composui teneros non solus amores (361)
Il poeta Peligno elenca gli autori di poesia amorosa: Saffo, Omero, i tragici, Catullo e gli elegiaci latini prima di lui Gallo, Properzio, Tibullo.
 
 L'amore prende vari aspetti: il più comune è quello dell'affetto che, per esempio, provano reciprocamente Carisio e Panfile, gli sposi di L'arbitrato , ma c'è anche la gelosia di Polemone per Glicera in La tosata e un ricordo dello stupro subito dalla stessa Panfile.
 Un amore del resto non contaminato dalla volgarità: Plutarco nella Comparatio Aristophanis et Menandri elogia la decenza e il decoro di Menandro in confronto alla volgarità di Aristofane.
 
Prima di entrare nell'analisi della poetica e della poesia del drammaturgo greco però vale la pena di spendere due parole sui tempi nei quali visse.
 
 Menandro apparteneva alla cerchia di Demetrio del Falero che dal 317 al 307 governò Atene per conto di Cassandro che fu prima reggente (319-306) per conto del padre Antipatro, poi re (306-294) di Macedonia. Questo governo, moderatamente oligarchico, abolì il fiscalismo democratico e garantì una certa tranquillità alla classe abbiente.
Dal 307 al 301 Demetrio Poliorcete, “l'assediatore di città”,-povli", e{rko" “chiusura”- conquistò Atene instaurando una democrazia formale, non senza favorire il culto della personalità, la propria e quella del padre Antigono Ciclope, da parte degli Ateniesi.
Menandro se la cavò grazie all'intercessione di un parente del nuovo padrone della polis.
Il Poliorcete perse Atene in seguito alla battaglia di Ipso (301) nella quale suo padre Antigono fu sconfitto e ucciso dagli altri diadochi: Cassandro, figlio del diadoco Antipatro divenne signore della Grecia e mise a capo di Atene il tiranno demagogo Lacare; ma dopo la morte di Cassandro, nel 294, Demetrio riconquistò Atene, quindi divenne pure re di Macedonia; nel 290 però fu sconfitto da Pirro, e nel 288 Atene, guidata dallo stratego Olimpiodoro, gli si rivoltò contro.
Il grande avventuriero Demetrio finì battuto da Seleuco I, re della parte asiatica dell'impero di Alessandro, e morì nel 283 suo prigioniero. Tuttavia suo figlio Antigono Gonata riconquisterà la Macedonia (277) e fonderà la dinastia degli Antigonidi.
 
 Abbiamo raccontato alcune fasi della vita del Poliorcete non solo per l'influenza che ebbe su quella di Menandro i cui drammi per altro, essendo borghesi e impolitici, non presentano riflessi chiari di questi avvenimenti, ma perché questa biografia avventurosa venne interpretata come un segno dell'onnipotenza alterna di Tuvch (la Fortuna) la divinità volubile e capricciosa che nell'età ellenistica sostituisce gli dèi olimpi.
Plutarco nella suaVita di Demetrio Poliorcete (35) fa questo commento:"Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo: "Tu davvero mi gonfi fusa'/" , e tu sembri bruciarmi kataivqein" (fr. 359 Nauck).
Per quanto riguarda il gonfiare le persone come palloni Ecuba dice: “O grande vanto-gonfiore- w\ polu;" o[gko"- umiliato
degli avi, come davvero eri un nulla! (Troiane, 108-109)
 
Andromaca nelle Troiane di Euripide nota che la nobiltà è diventata schiavitù, nei grandi cambiamenti (metabolaiv) 614-615. La sorte infatti è capricciosa e imprevedibile
(cfr. la conclusione di Medea, Andromaca, Alcesti, Elena, Baccanti).
Ecuba poi rileva anche to; th~ ajnavgkh~ deinovn (v. 616), il terribile effetto della necessità.
Più avanti la vecchia (v. 884) si rivolge a Zeus con queste parole: chiunque tu sia[1], difficile da conoscere, sia necessità di natura (ajnavgkh fuvseo~, v. 886), sia intelligenza dei mortali (nou`~ brotw`n)
Euripide è l’ eterno cercatore non dogmatico.
 
La Fortuna dunque è pure la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato, un giovane ricco vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella.
Il padre Callippide gli dice:"Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti"(795),
 Ebbene, Sostrato replica: “ tutto quello che hai è della sorte ( th'ς tuvchς de; pant j e[ceiς, v. 801) che come ha dato può togliere.
Cfr. Il mutua accepimus di Seneca
Dobbiamo aspettarci i tiri mancini della fortuna: faranno meno male. Ogni volta che qualcuno cadrà al tuo fianco dovrai esclamare:”alium quidem percussisti, sed me petisti” (Ad Marciam, 9, 3), ora hai colpito un altro ma hai mirato a me! I nostri beni, materiali e umani, ci sono dati in prestito, nostro è soltanto l'usufrutto: “mutua accepimus. Usus fructusque noster est » (10, 2). Tutto viene trascinato via.
“In questa rapina rerum omnium (Marc. 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma Traina[2].
Saepe admonendus est animus omnia amet ut recessura, immo tamquam recedentia (10, 3) bisogna spesso avvertire l’animo di amare tutti i beni come cose che se andranno, anzi che se ne vanno. Et sine dilatione omne gaudium haurite: nihil de odierna nocte promittitur (10, 4), e senza indugio assorbite ogni gioia: nulla è promesso per la notte di oggi.
Medea in tutta la tragedia di Seneca rivendica il suum esse del De brevitate vitae[3] . Avendo davanti agli occhi questa visione d'insieme bisogna moderare il dolore: dovete farlo soprattutto voi donne “quae immoderate fertis” (Ad Marciam, 10, 7) che lo portate in maniera smodata, suggerisce Seneca alla madre che ha perduto un figlio.
 
Da questa assolutizzazione della Fortuna discende l'affermazione della necessità del sostegno e del soccorso reciproco: con quello che abbiamo, per morale e per logica, bisogna:
"aiutare tutti"( ejpikourei'n pa'sin, Dyskolos, 807). Il modello anche in questo caso è Euripide.
Nelle Fenicie Giocasta dice a Eteocle disposto a commettere il male per il potere
"che cosa è il più? soltanto un nome:
poiché ai saggi basta il necessario.
Questi mortali tengono la ricchezza come cosa propria,
ma quando vogliono gli dèi la portano via di nuovo.
Il benessere non è sicuro ma effimero" (vv. 553-558).
 
Vediamo qualche parola greca di Euripide.
Il più dunque ha soltanto un nome: tiv d’ ejsti; to; plevon ; o[nomj e[cei movnon ( 553) , poiché ai saggi basta il necessario (ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'ς ge swvfrwsin 554), le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j , au[t j ajfairou'ntai pavlin ( Fenicie 557).
Luogo simile in Orazio:“Linquenda tellus et domus et placens-uxor neque harum, quas colis arborum-te praeter invisas cupressos-ulla brevem dominum sequetur” (Orazio, Odi, II, 14, vv. 21-24), devi lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e di questi alberi che coltivi, nessuno ti seguirà, padrone istantaneo, tranne gli odiosi cipressi.
 
La morale della solidarietà ha un seguito nella Stoà, una delle grandi scuole filosofiche dell'età ellenistica, fondata ad Atene da Zenone intorno al 300 a. C.
 Marco Aurelio, l'imperatore (161-180 d. C.) filosofo, scrive (Ricordi , II, 1):"noi siamo nati per darci aiuto reciproco- pro;ς sunergivan-, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti".
 
L'umanità di Menandro dunque tende ad essere comprensiva e gentile senza nulla di grande nel bene e nel male: l'amore è soave piuttosto che tremendo come in Saffo, e anche gli altri sentimenti non hanno nulla di apocalittico.
La sua poesia sta nella bontà e nella comprensione che l'uomo deve all'uomo. I suoi personaggi solitamente rifuggono dai sentimenti volgari: perfino le etère, come Abrotono di L'arbitrato sono capaci di finezza d'animo e generosità. I classicisti dell'età imperiale, quando vollero difendere l'eticità della cultura greca davanti alle accuse dei Cristiani, indicarono i testi di Menandro che si svolgono in un clima di generosità, mitezza e di parola castigata.
 
 

Analisi del Dyskolos prima parte (vv. 1-11)
 
Ora passiamo ad esaminare il Misantropo (Duvskolo"), un'opera giovanile: rappresentata alle Lenee del 316 a. C.
Nel Prologo il dio Pan ci dà informazioni sul protagonista, un vecchio contadino dell'Attica, uno di quegli agricoltori"capaci di coltivare anche le pietre"(vv. 3-4). Da questi primi versi si vede che la dimensione eroica, checché se ne dica, non è del tutto sparita dalla commedia nuova: il contadino di Menandro conserva qualche cosa dell'eroismo di quello di Esiodo, dal momento che sopravvive traendo l'estremo prodotto possibile da una terra avara.
Ma Cnemòne non è solo un tenace e duro lavoratore; è pure un
"uomo disumano assai,
intrattabile (duvskolo" appunto) con tutti, che non sta bene con la gente"(vv. 6-7).
Se Cnemone è un disumano (ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo")
chi è umano secondo Menandro?
 
Colui che si adatta ad una società borghese, leggera, cortese priva di precise convinzioni politiche e morali, come suggerisce Bruno Snell in Poesia e società “Nel prologo il dio Pan definisce il dyskolos, l’eroe della commedia, un ajpavnqrwpo" a[nqrwpo" sfovdra (v. 6), un uomo disumano assai. Che significa uomo? E’ disumano chi non è amichevole con nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza[4].
In Tirteo era un “uomo” chi possedeva la virtù del coraggio e dava tutto allo Stato, anche la vita (…) Poi essere uomo significa avere un logos. Ma la tragedia più tarda presenta un movimento inverso. All’Agamennone del principio dell’Ifigenia in Aulide la riflessione ha tolto la sicurezza dell’agire, ed Euripide dice spesso che qualcuno è troppo sapiente. Menandro, quando parla semplicemente dell’uomo, non pensa né ad antiche virtù né a capacità spirituali. Per i suoi uomini non esiste un fine al di là della propria vita. Lo Sato non pone compiti di qualche valore, da quando i Macedoni hanno occupato città già autonome. L’aspirazione al sapere tocca ai filosofi e ai dotti specialisti: anche i problemi del bene e del male sono diventati “teorici” e sono oggetto di dispute per le scuole filosofiche…Ma che significa umano e disumano per Menandro?”. La società è mutata, è “ormai limitata alla semplice convivenza, non più legata da fini o interessi comuni… Per Menandro anthropos è l'uomo che si adatta a una simile società, a questa società che è in pari tempo signorile e borghese (e che parla un attico affascinante). Anche in questa società i Greci confermano di avere il talento di creare forme esemplari. Dalla commedia borghese di Menandro e dei suoi contemporanei derivano le commedie romane di Terenzio e di Plauto e, attraverso queste, le commedie del Rinascimento e del barocco e quindi la commedia moderna, il dramma borghese dei moderni e i film dei nostri giorni. Così l’Occidente ha imparato che cosa sia la “società". Le convenzioni, ciò che “uno” fa…furono in gran parte fissate dalla Commedia Nuova del tardo quarto secolo.
Proprio perché è priva di specifiche dottrine religiose, politiche e morali, la Commedia Nuova ha potuto segnare con la sua impronta la cultura sociale dei Romani e poi di altri popoli occidentali. E’ più facile importare e trapiantare le buone maniere che gli usi religiosi e i principi morali”[5]
(…) “E' la civiltà delle buone maniere dalla quale Cnemone si è colpevolmente escluso diventando un disumano regredito a “un'esistenza precivile, da Ciclope”[6].
 
 Polifemo e i suoi simili infatti:
 "non hanno assemblee deliberative, nè leggi
ma abitano sulle cime di alti monti
in caverne profonde, e ciascuno dà leggi
ai figli e alle mogli, né si curano l'uno dell'altro"(Odissea , IX, 112-115).
E' questo il primo ritratto dell'uomo impolitico e del tutto asociale che la grecità, almeno quella ateniese fino a Menandro, biasima: Tucidide (II, 40, 2) fa dire a Pericle:"Siamo i soli infatti a considerare non tranquillo ma inutile (oujk ajpravgmona, ajll ; ajcrei'on) chi non si interessa degli affari pubblici".
Il misantropo dunque è un asociale che
"non ha mai rivolto per primo la parola a nessuno" (10), tranne un fuggevole saluto al simulacro dello stesso dio Pan, solo perché"costretto dalla vicinanza"(11).
 
 Un individuo simile a Cnemone è quello che impersona La scortesia , il XV dei Caratteri di Teofrasto:" La scortesia (aujqavdeia) è durezza nel relazionarsi con le parole, e lo scortese è il tipo, se riceve la domanda-dov'è il tale?-, è capace di rispondere-non mi dare briga-(pravgmatav moi mh; pavrece)".
Disumano allora è "chi non è amichevole con nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza" ne inferisce Snell (Poesia e società,. p. 151) che in una nota cita anche Shakespeare:"He' s opposite to humanity ", è un nemico del genere umano, detto di Apemanto, filosofo senza creanza, in Timone d'Atene (I, 1).
 
Nel Timone d'Atene di Shakespeare (1607) il protagonista eponimo, diventato misantropo per l’ingratitudine umana dice: All’s obliquy;-there is nothing level in our cursed –natures-but direct villainy. Therefore be abhorred-all feasts, societies, and throngs of men-His semblable (similis-)yea himself, Timon disdains-(dedignari)-Destruction fang-(azzanni,allied to latin pangere conficcare affondare) mankind. IV, 3, 18-24)., tutto è storto; non c’è niente di diritto nella nostra maledetta natura, solo malvagità che va diritta al fine. Perciò siano detestate tutte le feste, le compagnie, e le folle di uomini. Timone disprezza il suo simile, anzi se stesso. Che la distruzione azzanni l’umanità.
 
Cfr. anche La diffidenza di Teofrasto-ajpistiva.
La diffidenza è senza dubbio l’opinione di disonestà contro tutti e il diffidente è un tale che quando manda un servo a fare la spesa gliene manda dietro un altro perché chieda al bottegaio quanto abbia pagato il compratore
 
 Insomma costoro sono persone che peccano contro le convenienze le quali sono cresciute di importanza da quando la polis non dà compiti di grande valore siccome i Macedoni hanno occupato l'acropoli , e l'aspirazione al sapere, all'arricchimento filosofico o letterario dell'anima riguarda i dotti specialisti. Proprio questa mancanza di alti ideali o di specifiche dottrine ha messo la Commedia nuova in una condizione di esemplarità rispetto a Plauto, Terenzio e anche ad autori del Rinascimento, dell'età barocca e pure di quella moderna.
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Seconda parte (vv. 14-161)
 
 Disumano è pertanto Cnemone per il fatto che non si adatta a una società di persone civili e cortesi. Il dio Pan sta recitando il prologo e ci informa che il misantropo,"ha sposato una vedova"(14) che aveva già un figlio, Gorgia, e con lei litigava sempre. Poi "gli nasce una bambina: peggio ancora"(19-20).
 
Un'espressione del genere si confà a un analogo personaggio di Terenzio: Demea degli Adelphoe che dice di sé (866-868):
"ego ille agrestis, saevos, tristis, parcus, truculentus, tenax,
duxi uxorem: quam ibi miseriam vidi! Nati filii;
alia cura ", io quel rozzo campagnolo, disumano, tetro, avaro, duro, testardo, ho preso moglie: quale miseria ci ho trovato! Sono nati i figli; altra preoccupazione.
Questa descrizione invero deriva dal
 fr. 11 Körte. di Menandro:" jEgw; d j a[groiko", ejrgavth", skuqrov" , pikrov", feidwlov"", io villano, lavoratore, arcigno, duro, tirchio. Come si vede le stesse cose, e gli stessi tipi ritornano.
 
Sicché la moglie di Cnemone lo ha lasciato; ha lasciato la bambina con il padre ed è andata a vivere con il figlio su un piccolo podere nelle vicinanze dove i due si mantengono a stento. Per fortuna:
"il ragazzo ha cervello al di sopra della sua età:
infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere"
("proavgei ga;r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva", v. 29).
 
Ecco dunque che pure in questa commedia si annida la formula delfica che è la fondamentale legge tragica codificata da Eschilo nell'Agamennone (v. 177) con le parole:"tw'/ pavqei mavqo"", attraverso la sofferenza la comprensione.
 
Ma il vecchio è ancora lontano dalla resipiscenza, da quell’ "ora comprendo" che rende pure l’egoista e stupido Admeto meritevole di grazia ( cfr. Alcesti, a[rti manqavnw, v. 940).
 
Ottima invece è la ragazza figlia del mosantropo, una parqevno" la quale "in conseguenza dell'educazione ricevuta non sa nulla di cattivo"(35-36). E' strano che una giovane crescendo in un'ambiente del genere possa fruire di una buona educazione, ma intanto, come specificherà più avanti Menandro, il padre è "selvaggio" sì, però è anche un "nemico della malvagità" .
 La ragazza dunque non è stata educata tra le donne ma liberamente in certo modo, e con un padre selvaggio che odia il male(mh; ga;r ejn gunaixi;n ejstin hJ kovrh-teqrammevnh (…) ejleuqerivwς dev pwς meta; patro;ς ajgrivou misoponhvrou tw' trovpw ( 384ss)
 
L’educazione delle fanciulle
Dietro l'approvazione di tale paideia per le fanciulle c'è la filosofia del Peripato: Barigazzi (La formazione spirituale di Menandro) ci informa che Teofrasto in un frammento consiglia di tenere le bambine chiuse in casa perché crescano riservate e pudiche. La moglie infatti deve essere scelta per la modestia, la scarsa loquacità, e l'indole buona. Alla donna dunque non servono grandi qualità intellettuali.
Affermazione dalla quale, sia chiaro, dissento con forza.
 
Nella seconda parte dell'Economico (capp. VII sgg.) di Senofonte, Socrate riferisce un dialogo tenuto con Iscomaco che è un gentiluomo (kalo;" kai; ajgaqov" ) di campagna. Quest’uomo considera l'agricoltura come la più nobile tra le attività economiche perché produce ricchezza e pure uomini nobili, pronti a difendere la patria.
 
Secondo Iscomaco la sposa deve occuparsi dei lavori interni alla casa, mentre il marito seguirà quelli esterni. Infatti per la donna è più bello restare dentro casa che vivere fuori ("Th'/ me;n ga;r gunaiki; kavllion e[ndon mevnein hj; quraulei'n", Economico , VII, 30) mentre per l'uomo è più vergognoso rimanere in casa che impegnarsi nelle cose esterne.
Iscomaco racconta che, quando si era sposato, sua moglie non aveva ancora 15 anni : “ h] e[th me;n ou[pw pentekaivdeka gegonui'a h\lqe pro;ς ejmev”, e nel tempo precedente viveva sotto un’assidua sorveglianza “o{pwς w;ς ejlavcista me;n o[yoito, ejlavcista d j ajkouvsoito, ejlavcista d’ ejrhvsoito” (VII, 4), perché vedesse il meno possibile, ascoltasse il meno possibile, domandasse il meno possibile .
 
Nell’Edipo a colono il vecchio cieco dice che i due figli maschi seguono gli usi Egiziani: in Egitto gli uomini stanno in casa a fare la tela, le femmine escono a lavorare.
Vediamo un aspetto dei costumi egiziani. Lo storiografo che ama rilevare le diversità degli usi dei vari popoli, non senza la santa tolleranza[7], nota che questo popolo, conformemente al clima diverso e al fiume differente dagli altri, ha costumi e leggi contrari a quelli degli altri uomini:" ejn toi'si aiJ me;n gunai'ke" ajgoravzousi kai; kaphleuvsi, oiJ de; a[ndre" kat j oi[kou" ejovnte" uJfaivnousi" (II, 35, 2), presso di loro le donne vanno al mercato e trafficano, gli uomini invece tessono stando in casa.
Di questo passo erodoteo si ricorda Sofocle nell'Edipo a Colono senza però che il protagonista consideri equivalenti, o dipendenti dal clima, costumi tanto diversi: infatti il vecchio cieco incestuoso e parricida biasima i figli maschi poiché hanno costumi simili agli Egiziani: là i maschi siedono in casa lavorando al telaio (oiJ me;n a[rsene~ kata; stevga~ - qakou'sin iJstorgou'nte~, vv. 339-340), mentre le loro compagne vanno sempre fuori a procurare il cibo per vivere. Altrettanto fanno i figli di Edipo e Giocasta: Eteocle e Polinice " kat j oi\kon oijkorou'sin w{ste parqevnoi" (v. 343) restano in casa come fanciulle, mentre le due figlie, Antigone e Ismene , si sobbarcano i gravi affanni del padre.
 
Nel Duvskolo" di Menandro Sostrato, l'innamorato e pretendente della figlia del misantropo, in un breve monologo, elogia l'educazione presumibilmente ricevuta dalla ragazza la quale è una meraviglia perché il padre l’ha fatta crescere tenendola sola con sé e isolandola dal consorzio umano:"Se questa fanciulla non è stata educata tra le donne e non conosce nessuno di questi mali nella vita, e non è stata terrorizzata da qualche zia e balia, ma è venuta su liberamente con questo padre selvaggio che odia il male, come potrebbe non essere la mia felicità unire la mia sorte alla sua?" (vv. 384-389).
 
 Una bella sentenza di Menandro ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura "niente è tanto congeniale come l'uomo e la donna, a guardarci bene".
 
 La ragazza in questione è pure pia; anche per questo riesce simpatica a Pan il quale intende proteggerla e favorirla: al punto che ha fatto innamorare di lei "un giovane figlio di un uomo ricco"(39-40) che passava di là.
In Menandro il denaro non è sterco del diavolo e oggetto di anatema come in Shakespeare (Romeo e Giulietta) e nei Manoscritti economico filosofici del 1844 di Marx.
 
Il matrimonio borghese
Finito il prologo recitato da Pan, entra l'innamorato, Sostrato, accompagnato da Cherea, parassita e amico. Costui afferma la necessità di una distinzione: una cosa è l'attrazione per l'etèra che lui procura al padrone della sua greppia perché possa soddisfare subito quel desiderio di concubitus vagus :"poiché il temporeggiare fa crescere di molto la passione"( to; me;n braduvnein ga;r to;n e[rwt j au[xei-62); tutt’altra cosa è l’amore per la ragazza libera: allora mi informo "sulla famiglia, i beni, i costumi"( puvnqanomai gevno", bivon, trovpou"- 65-66).
 
Una prassi questa che ha un sapore di cultura borghese.
Basta pensare ai diversi matrimoni imposti a Tony dal padre poi dal fratello, secondo il denaro vero o immaginato del pretendente e tutti falliti, nella saga borghese di I Buddenbrook . Decadenza di una famiglia di Thomas Mann.
Nell’ ultima pagina, questa donna che si è sacrificata invano per la famiglia rinunciando all’amore per uno studente povero che la amava quando era ragazza, compiange la morte del nipote adolescente Hanno “mentre le lacrime le scorrevano sulle guance cascanti e scialbe”
Quindi la donna cinquantenne dice queste parole: “ci sono momenti in cui non c’è conforto e, Dio mi perdoni, si comincia a dubitare della giustizia, della bontà…di tutto. La vita, voi sapete, frantuma tante cose nel nostro cuore, delude tante volte la nostra fede… Rivedersi? Fosse vero!” XI parte capitolo 4.
 
Viceversa dovrebbero prevalere l'inclinazione reciproca, quando conveniunt mores , concordano i caratteri, come si legge nell’ Andria (696) di Terenzio
 
Analoga riflessione si trova in Svevo:"Se il giovine ama la ragazza, l'affare è certamente buono; se non l'ama, pessimo"(Una vita , p. 208).
Invero pur se i caratteri concordano possono esserci tanti ostacoli: disunità di tempo e di luogo per esempio.
 
E’ ve’ Päivi?
 
 
A Sostrato il sistema delle informazioni non piace, comunque ha mandato lo schiavo Pirria (71) dal padre della ragazza. Anzi l'innamorato è in pena per il ritardo (78). Ma ecco che Pirria arriva come servus currens poiché grida:"c'è un matto che mi insegue, un matto"( maivneq j oj diwvkwn, maivnetai, 82).
Non solo: il poveretto è stato pure fatto bersaglio di zolle e pietre ( bavllomai bwvloi", livqoi", 83).
 Il vecchio che abita lì dunque è "matto e indemoniato"(89-90). Quando Pirria bussò alla porta venne fuori "una vecchia disgraziata" (99) la quale glielo indicò su una collina dove raccoglieva qualcosa. Pirria allora si è avvicinato, ma il contadino lo ha aggredito apostrofandolo con un:
"maledetto uomo- ajnovsie a[nqrwope-, tu vieni nel mio campo? Che cosa vuoi?".
Quindi ha preso una zolla e gliel'ha tirata in faccia (108-111).
 
 Poi l'ha assalito con un paletto gridando:"che cosa abbiamo a che fare tu ed io?"( soi; de; kajmoi; pra'gma tiv- ejstin; 114-115.
 
Parole che vogliono difendere la propria autonomia dalla persona invadente chiunque egli o ella sia.
Cfr. N.T. Giovanni in altro contesto 2, 1, 11: tiv ejmoi, kai; soiv , guvnai; Quid mihi et tibi mulier?). Parole di Gesù a Maria.
T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p.691).
 
Ma non basta: Pirria[8] si è dato alla fuga e il vecchio a inseguirlo tirandogli "zolle pietre e anche pere, come non aveva più altro"(120-121). Il servo dunque consiglia a Cherea di battere in ritirata, di rimandare la visita, per lo meno, dicendo :
"sappi bene che
in tutte le cose è più efficace scegliere il momento opportuno ( " ejsti; praktikwvteron eujkairiva"127-128).
Cfr. l’ajkairiva di Teofrasto Caratteri XII. E’ l’inopportunità è l’incapacità di scegliere il momento per rivolgersi alle persone
 
Questo consiglio percorre gran parte della cultura classica: il principale teorico della necessità di cogliere l'occasione (kairov") è Isocrate: Non si deve fallire l'occasione:"tw'n kairw'n mh; diamartei'n"(Contro i sofisti , 16)
Nella commedia latina possiamo ritrovare l'affermazione ai vv. 364-365 dell'Heautontimorumenos di Terenzio:"in tempore ad eam veni, quod rerum omniumst -primum " (364-365), sono andato da lei al momento giusto che è quello che conta più di tutto. Parla il servo Siro a Clitifonte. Racconta come ha avvicinato Bacchide.
 
 Cherea e Pirria, vorrebbero rimandare l'incontro ma si avvicina il pazzo in persona, sempre gridando:
"quanto era beato Perseo per due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava nessuno di quelli che camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori"(153-157).
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con la testa della Gorgone
 
Cnemone vorrebbe essere come lui:
"cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!"(157-159).
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"non si può più vivere, per Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere (lalou's j)"(160-161). La chiacchiera è la più radicale antitesi dell’essere, delle idee, della sostanza delle cose.
 
Questo bisogno di solitudine, condannato da Omero a Menandro come disumano, più avanti, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in "turba ", folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario.
 
Prendiamo Seneca tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora è:"recēde in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
Un'eco in Nietzsche: “c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine-io ho sempre e solamente sofferto per la moltitudine”[9]. E poi: “ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[10].
 
In altri tempi (1938) C. Pavese scrive :"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere , 8 dicembre). E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E infine (25 aprile 1946):"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie-torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.
 
Da un paio di anni oramai il veleno diffuso nell’aria che respiriamo ha fatto diventare molti di noi dei misantropi.
Dobbiamo liberarcene.
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Terza parte (169-232)
 
Il bisogno della solitudine. Cnemone e Des Esseintes.
 
Menandro e Huysmans parlano di molti tra noi
 
 Cnemone vede Sostrato davanti alla porta di casa sua e invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" ( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, Menandro, Dyskolos, v.169). Sembra anticipare il deserto di rapporti umani dove viviamo oggi.
 Cfr. la solitudine voluta dallo “schifiltoso anacoreta” di Huysmans che non sopporta la vicinanza dei profittatori e degli imbecilli.
 
“E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie…Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste…Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione di ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte di ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano… Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle Banche”
[11].
 
Viceversa Socrate all’inizio del Fedro aveva detto che preferiva la città alla campagna: “filomaqh;ς gavr eijmi: ta; me;n ou\n cwriva kai; ta; devndra oujdevn m j ejqevlei didavskein, oiJ d j ejn tw̃/ a[stei a[nqrwpoi (230D), io infatti amo imparare: i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, gli uomini nelle città invece sì.
 
 L'innamorato si scusa dicendo di aspettare una persona, ma il vecchio entra dritto in casa lamentando di sentirsi oltraggiato (178).
Allora Sostrato decide di chiedere aiuto a Geta, lo schiavo di suo padre:
"egli ha qualche cosa di infuocato (e[cei ti diavpuron) ed esperienza
di faccende di ogni tipo"(183-184).
Dunque può avere la meglio pure sul caratteraccio del misantropo.
 
Ecco che appare uno dei tarli di questa società urbana e cortese: gli schiavi sono più attivi e intelligenti dei padroni i quali non vanno oltre la comprensione e le buone maniere. Non solo manca l'antico spirito civico in tutti i personaggi di Menandro, ma in quelli liberi anche l'intraprendenza nelle faccende che stanno loro più a cuore: è iniziata quella paralisi della classe colta che porterà al trionfo degli schiavi importati da fuori poi dei barbari invasori.
Cfr. la dialettica servo signore di Hegel: “il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla”[12]
Vero è che attraverso il lavoro del servo e il suo rapporto diretto con la realtà, avviene un rovesciamemto dialettico. Secondo Hegel in termini di coscienza. Lavorando il servo giunge alla consapevolezza, alla coscienza di sé e del mondo oggettivo
La servitù una volta compiuta diventerà il contrario di quello che è immediatamente. Diventata autocoscienza la servitù si trasformerà nel proprio rovescio. Marx utilizzerà questa dialettica servo-signore come chiave di lettura dell’intera storia che è storia di lotta di classi.
Aggiungo di mio che l’autocoscienza, il conosci te stesso, si raggiunge pure e forse più profondamente attraverso la lettura e la comprensione dei classici antichi e moderni.
 
Molti Romani delle classi alte non facevano figli o ne facevano uno solo. Calo dell’interesse per il prossimo e calo della passione.
 
Nel Satyricon leggiamo (129):" adulescens, paralysin cave ", guardati dalla paralisi ragazzo; e poco dopo (131):"quid est-inquit-paralytice? ecquid hodie totus venisti? ", come va-disse- paralitico? Oggi sei venuto tutto intero?
Sta parlando con la mentula contumace. Oggi usano il viagra.
Cfr. T. S. Eliot: “I have lost my passion: why should I need to keep it-since what is kept must be adulterated?” (Gerontion, 61-62). Anche Cnemone è un gevrontion.
 
Augusto deplorava il fatto che senatori e cavalieri non si sposavano e non facevano figli e li chiama assassini della stirpe (cfr. Cassio Dione)
Cassio Dione racconta che Augusto nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro;" oijkovnomo" paidotrovfo" "(LVI, 3, 3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri figli; inoltre anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi l’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta:"a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini[13].
Poi Augusto accusò i celibi paragonandoli ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, disse, non è che volete vivere senza donne, visto che nessuno mangia o dorme solo:"ajll' ejxousivan kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6-7), ma volete avere la facoltà della dismisura e dell'impudenza. Infine il Princeps senatus ammise che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunse, non mancano i vantaggi. Ci sono per giunta i premi promessi dalle leggi:"kai; ta; para; tw'n novmwn a\qla", 8, 4).
Cfr. Sofocle, Edipo re. “ poiché nulla vale una torre né una nave/vuota di uomini che non abitano dentro” (56-57)
. In Tucidide, VII,77, Nicia, lo stratego maldisposto alla guerra, incoraggia la volontà di ritorno in patria dei soldati Ateniesi dicendo:"a[ndre" ga;r povli" kai; ouj teivch oujde; nh'e" ajndrw'n kenaiv, gli uomini infatti costituiscono la città, non le mura né le navi vuote di uomini. C. Diano (Edipo figlio della Tyche, p.82) sostiene che la rispondenza dei due testi è tale da escludere una coincidenza fortuita.
 
Torniamo al Dyskolos
Si apre la porta della casa ed entra in scena la figlia (kovrh) che si lamenta poiché:
"la nutrice attingendo
ha fatto cadere la secchia nel pozzo (to;n kavdon...eij" to; frevar)"(190-191).
Sostrato è abbagliato da quella bellezza "insuperabile" e le offre aiuto; quindi dice a se stesso, quasi sbigottito, che la fanciulla:
"ha un'aria nobile e semplice (a[groiko" , 202) rivalutando quella rusticità (ajgroikiva) che nel padre di lei aveva fatto brutta figura.
Probabilmente la brutta rusticità del padre era servita a concimare quel fiore.
 
“Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno[14] era servito solo da fertilizzante”[15].
 
Nel secolo successivo in effetti cresce la simpatia per la rusticità.
La natura è il paradiso perduto dei moderni uomini civilizzati.
L'uomo di cultura del III secolo vede circonfusa di luce radiosa la vita di pastori e contadini, con tutto il primitivo. Così Callimaco apprezza la felicità della misera capanna di Ecale, e Aconzio cerca la solitudine in mezzo ai boschi. Nelle città si cercava l'avvicinamento alla natura con mezzi artificiali: i Tolomei fecero piantare giardini e boschetti ad Alessandria; ad Antiochia, i Seleucidi fecero costruire passeggiate con giochi d'acqua. Nel II d. C. Adriano (117-138) farà riprodurre a Tivoli la valle di Tempe in miniatura. Ad Alessandria fu costruita una collina artificiale, i templi a contatto con la natura in boschi o su promontori marini. Del resto i templi di Dodona, di Delfi, di capo Sunio erano già tali.
Anche i privati si fanno costruire case con giardini e fontane, e si fanno affrescare con paesaggi le pareti delle case. L'arredamento è più curato rispetto all'età classica quando interessava meno poiché si passava la vita fuori di casa. Allora la plastica si occupava essenzialmente del corpo umano; in epoca ellenistica troviamo accenni paesaggistici anche nelle sculture, come il Fauno Barberini (III sec. a. C.) steso su una roccia.
Enrico VI (1592) di Shakespeare dirà : “Che vita felice, se fossi un semplice pastore!” (III, 5).
 
 Quindi entra Davo , il servo di Gorgia, il fratellastro della kovrh, la ragazza che continueremo a chiamare così poiché non ha nome. Questo schiavo si lamenta della povertà che coabita "continuamente"(ejndelecw'" 210) con loro.
 
Il numero dei poveri cresce da tempo.
Il problema di cui si parla senza che vi si ponga rimedio.
 
La povertà era diffusa nell'Attica del IV secolo: Isocrate nell'Areopagitico (del 357) denuncia la decadenza economica di Atene:"ora sono in maggior numero i bisognosi rispetto agli abbienti"( nu'n de; pleivou" eijsi;n oiJ spanivzonte" tw'n ejcovntwn, 83). L'oratore indicava un rimedio nel ritorno al predominio dell'Areopago, quando nessuno chiedeva la carità.
 Menandro piuttosto indica una soluzione nella filantropia e nei matrimoni tra poveri e ricchi. Intanto però i diseredati cominciavano ad agitarsi gridando:"abolizione dei debiti!" e "distribuzione delle terre!".
 
Un'espressione che si trova già nella Repubblica platonica, del 370:"crew'n te ajpokopa;" kai; gh'" ajnadasmovn"(566a), cancellazioni di debiti e distribuzioni di terre. E’ un proclama del demagogo.
 
E’ necessario restituire dignità al lavoro. Nessun lavoratore deve essere pagato in maniera che debba vivere assillato dal bisogno.
 
Quando iniziai a insegnare e dovevo pagare una stanza in un albergo di Cittadella poi in un appartamento di Padova, non ce l’avrei fatta con il mio stipendio di 118 mila lire al mese, uguale a quello del ferroviere Pinelli.
Dicevo che era giusto che non venissi pagato più dell’anarchico defenestrato o di un operaio.
Sbagliavo: l’operaio, magari con figli, doveva essere pagato più di me perché il mio affitto lo pagava una zia, il suo probabilmente no.
Me lo fece capire un medico cubano educandomi e gliene sono ancora grato perché a casa mia invece mi avevano insegnato che era cosa giusta la povertà dei contadini mezzadri e della “serva”.
Lo incontrai a Budapest e mi disse che guadagnava meno di uno che tagliava la canna da zucchero e aveva dei figli, e che era giusto così perché lui non aveva figlioli.
 
 
La donna come tesoro
Intanto Davo il servo di Gorgia, vede Sostrato indaffarato per aiutare la sorella del padrone e commenta:
"che guaio è mai questo? Non mi piace
per niente la faccenda. Un giovane rende un servizio
alla ragazza: non sta bene"(Menandro, Dyskolos, 218-220).
Quindi manda mille accidenti a anemone, il padre della ragazza bellina assai, il Dyskolos
 "che ha lasciato in solitudine una ragazza priva di malizia
senza la sorveglianza conveniente"(222-223).
La fanciulla secondo Davo è in pericolo poiché l'uomo è cacciatore e Sostrato si è buttato sulla preda "considerandola come un ottimo affare e{rmaion, un tesoro"(225-226); quindi corre ad avvisarne il fratello.
Cfr. Shakespeare Amleto (I, 3).
Laerte consiglia Ofelia di non ascoltare Amleto con orecchio troppo credulo: perderai il tuo cuore o aprirai il tuo casto tesoro alla sua licenza indisciplinata: “or your chaste treasure open-to his unmaster’d importunità”.
 
Meno raffinato è il ragazzo russo che nel film Scompartimento n. 6 dice alla ragazza finlandese la quale divide lo scompartimento con lui nel treno che viaggia da Mosca a Leningrado poi procede verso nord: “ cosa vai a fare lassù? A vendere la fica?”. Una domanda brutale ma che potrebbe sortire un effetto di curiosità o addirittura di simpatia per la stranezza. Infatti tra i due nasce una bella solidarietà. Personalmente non ho mai usato tale tattica.
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. quarta parte (233-296)
 
Il valore anche politico del tempo libero
 
All'inizio del secondo atto (233-426) entrano Davo e Gorgia.
Il padrone esordisce rimproverando lo schiavo poiché non è intervenuto decisamente in favore della sorella che gli sta a cuore (240) mentre la ragazza veniva accostata da uno sconosciuto.
Si tratta ovviamente di Sostrato il quale sta sopraggiungendo.
Gorgia lo vede e dice che è un brutto tipo già solo a vederlo: “kakou'rgo" eujqu;" ajpo; tou' blevmmato" (258)
 
Sostrato entra in scena parlando tra sé: critica la madre che gli ha sottratto il servo Geta; lo ha mandato a ingaggiare un cuoco per un sacrificio, poiché la superstiziosa signora
"va in giro ogni giorno a fare sacrifici
per tutto il paese"(261-262).
 
Questo personaggio può essere accostato al carattere della superstizione (deisidaimoniva) che Teofrasto definisce:" deiliva pro;" to; daimovnion", viltà di fronte agli spiriti.
 
In ogni caso Sostrato non si è curato del sacrificio e si avvicina alla porta di Cnemone per bussare. Ma Gorgia lo ferma e gli parla. Lo mette in guardia dall'esercitare quella prepotenza che la ricchezza può consentirgli:
"all'uomo facoltoso gli affari fioriscono
fino a quando può sostenere la sua fortuna
senza commettere ingiustizia mhde;n poihvsa" a[dikon"(274-276).
 
 Anche la sorte favorevole dunque può essere un peso gravoso da portare: ci vuole senso del limite.
Il vecchio Johann Buddenbrook, nonno del console Thomas, aveva lasciato”parecchie buone esortazioni ai discendenti, tra le quali emergeva in grosse lettere gotiche, accuratamente miniate e incorniciate, questa sentenza: “Figlio mio, dedicati con ardore agli affari durante il giorno, ma combina soltanto quelli che ti consentono di dormire tranquillo di notte”[16].
 
Il problema del tempo libero
Cruciale per uno studioso, per uno sportivo, per una persona umana.
 
Dacché sono in pensione (ottobre2010) posso studiare quanto voglio, cioè molto. E posso fare sport quanto mi pare.
Negli ultimi anni di insegnamento gran parte del mio desiderio e del mio bisogno di studio, di sport, di riflessione, di riposo, veniva represso e impedito da frequenti, lunghe e inutili riunioni scolastiche fondate sul didattichese fatto di “sapere, saper fare, saper essere” con totale trascuratezza dei testi degli autori che sono le colonne dell’educazione, il fondamento basilare del sapere.
 
Sentiamo Menandro su questo problema di fondo
 
Gorgia continua:
"che cosa voglio dire? Tu, anche se sei molto ricco,
non contare troppo su questa condizione, e non disprezzare
noi che invece siamo poveri- mhvte tw'n ptwcw'n pavlin- hJmw'n katafrovnei-. Anzi cerca di mostrarti sempre degno-a[xion-
della tua buona sorte" (284-287).
 
Questo invito alla moderazione corrisponde alle leggi suntuarie di Demetrio del Falero che voleva frenare il lusso e togliere occasioni alla grande speculazione.
 Che l'ingiustizia non paghi del resto è un topos vigente da Omero, il quale nell'Odissea (VIII, 329) scrive: "non sono prospere le azioni cattive: il lento raggiunge il veloce".
 
Gorgia continua a diffidare Sostrato dal cercare di sedurre la sorella approfittando della superiorità economica:
"non è giusto
che il tuo tempo libero - th;n sh;n scolhvn - rechi danno a noi
che tempo libero non abbiamo - toi''" ajscoloumevnoi" Sappi che il povero il quale
subisce ingiustizia è l'essere più arrabbiato del mondo ptwco;" ajdikhqeiv" ejsti duskolwvtaton" (293-296).
E' questo un invito a non esasperare il malessere dei poveri attraverso la loro umiliazione che invece va attenuata con il rispetto e la filantropia secondo Menandro.
 
Nelle Supplici di Euripide (422 a. C.) l’araldo del re di Tebe Creonte, sostiene che il governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là a proprio profitto.
Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche: "oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" –kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
 
Nell’Areopagitico (357 a. C.) Isocrate scrive che nel tempo dei larghi poteri dell’Areopago, la paideiva era conforme ai mezzi di cui ciascuno disponeva. I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio:" ejpi; ta;" gewrgiva" kai; ta;" ejmporiva"" (44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, ippica, caccia, e alla filosofia.
La filosofia di Isocrate non è specialistica come quella di Platone, bensì era cultura generale sul tipo di quella che una volta impartiva il liceo classico selezionando la classe dirigente.
 
Le complicazioni burocratiche servono proprio a togliere tempo libero a chi ne deve sottostare. Chi non ha la scolhv non può riflettere, studiare, pensare e criticare i soprusi che subisce.
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Quinta parte
 
Sostrato risponde in modo assai ragionevole e garbato: con quella cortesia che non è la magnanimità degli eroi i quali sanno, o credono, di impiegare le proprie forze in compiti alti e ardui, ma nemmeno si riduce a quella "calva assenatezza" di cui parla Rohde (in Psiche ) per definire la stanchezza della grecità decadente dopo la fase eroica.
 
Sentiamone alcune parole
“Un calmo razionalismo, un lieto arretrare alle cose ragionevolmente pensabili, senza bisogno di provare il terrore d’un mondo misterioso dell’al di là: ecco la disposizione d’animo che domina scienza e cultura nel periodo ellenistico (…) una calva assennatezza, una intelligenza da vecchi, savia e povera, quale ci appare lampante dalla narrazione storica di Polibio, come disposizione d’animo del narratore e di coloro di cui narra. Non era tempo questo d’eroi e d’eroismo”[17].
 
Ecco dunque l'apologia del ricco innamorato:
"Ho visto una ragazza e me ne sono innamorato.
Se tu hai parlato di questa ingiustizia, io forse l'ho commessa.
Chi può dirlo? Ma non vengo qui
per lei; voglio vedere suo padre.
Io infatti sono un uomo libero,
ho mezzi sufficienti e sono pronto a prenderla
anche senza dote- lambavnein aujth;n a[proikon-proivx -proikov" hJ- dono-, proi'ka gratis impegnandomi per giunta-
ad amarla per sempre. Se sono venuto qua con cattive intenzioni
o volendo usare male arti contro di voi a vostra insaputa,
Pan qui presente, o ragazzo, e insieme le Ninfe
mi colpiscano subito qui, davanti a questa casa"(302-312).
Sostrato dunque è un giovane serio, poco occupato, senz'altro scopo nella vita che sposarsi e riprodursi con una ragazza per bene. Tale gli è sembrata questa kovrh.
Sostrato non rappresenta la dimensione eroica dell’ umanità, ma nel suo genere minore è degno di rispetto. Gorgia lo capisce e gli offre la sua amicizia (317). L’innamorato della sorella lo contraccambia riconoscendogli nobiltà di carattere (genniko;n oJrw' se tw'/ trovpw/ 321).
 
Oh gran bontà di questi cognati antichi! Erano di classe sociale diversa, quindi probabilmente di abitudini diverse, eppure si rispettavano a vicenda.
 
Quindi Gorgia spiega a Sostrato quanto sia cattivo, rustico selvaggio Cnemone e quanto incomba sulla figlia:
"per lui il piacere più grande è non vedere mai nessun
uomo; per lo più lavora tenendo la figlia
con sé; e parla solo con questa,
con un altro non può farlo senza sforzo.
Dice che la darà in moglie quando avrà trovato
un pretendente del suo stesso carattere"(332-337).
 
Sostrato fa il commento più ovvio:
"cioé mai". levgei" oujdevpote.
 
 Sicché Gorgia gli consiglia di lasciar perdere:
"non darti delle brighe amico: mh; dh; pravgmat j e[ce-
lo farai per niente. Lascia che ce le prendiamo
noi parenti, cui la sorte le ha assegnate"(338-340).
Sostrato però non dà retta e reagisce dando voce al meno prevedibile e controllabile dei sentimenti umani:
"ma per gli dèi, non sei mai stato innamorato di una, tu ragazzo?"(oujpote hjravsqh" tinov", meirakion; 341).
"Non me lo posso permettere carissimo"( oujd j e[xesti moi, bevltiste, 342) è l'amara risposta del povero.
 
Ora i giovani per le stesse ragioni non possono permettersi di fare figli.
 
Il ricco non capisce questa ragione e domanda:
"chi te lo impedisce?" tiv" e[sq j oJ kwluvwn; pensando magari al vecchio misantropo, ma Gorgia fa vedere un panorama negativo più ampio:
"il calcolo dei miei guai pesenti oJ tw'n o[ntwn kakw'n logismov"
che non mi dà un momento di respiro ajnavpausin didou;" oujd j hjntiou'n"(343-344).
 
 Ecco allora che in questa storia d'amore fa capolino il problema del pauperismo. Un problema attuale.
 
Sostrato invece non è povero e può permettersi il lusso di indirizzare tutti i suoi pensieri sull'amore che infatti Teofrasto definì:"affezione di un animo disoccupato"pavqo" yuch'" scolazouvsh"" (Stob. 4, 20, 66).
 
L’amore viene spesso associato all’otium nel senso meno buono
 
Catullo nel carme 51 collega il proprio amore per Lesbia all'otium :"otium, Catulle, tibi molestumst "(v. 13), lo stare senza far niente, Catullo, ti fa male.
 
 Ovidio nei Remedia amoris insegna che l'otium , la pigra mollezza, è alimento della malattia d'amore; l’emancipazione dalla schiavitù amorosa dunque comincia già dall'impegno in una vita attiva: tam Venus otia amat; qui finem quaeris amoris,/ (cedit amor rebus) res age, tutus eris (Remedia amoris 143-144.)
 
 L'ozio come responsabile dell'amore riprovevole viene indicato anche da Menedemo, il punitore di se stesso, al figlio Clinia:"Nulla adeo ex re istuc[18] fit nisi ex nimio otio " (Terenzio, Heautontomorumenos[19] , 109), da nessun altro motivo reale deriva questa tua smania se non dall'ozio eccessivo.
 
Mi sembrano cruciale anche quest' altro distico sull'otium da evitare se si vuole guarire dall'amore: "otia si tollas, periere Cupidinis arcus,/contemptaeque iacent et sine luce faces" (Remedia amoris, 139-140), se togli di mezzo il tempo libero, si rompono gli archi di Cupido, e le sue fiaccole rimangono a terra disprezzate e senza luce.
Invece dell'otium dunque viene consigliato un qualsiasi negotium[20] che tolga a Eros il terreno fertile della desidia
Un esempio da evitare è quello dato da Egisto la cui attività seduttiva nei confronti della moglie di Agamennone, Clitennestra, è descritta e biasimata da Omero nel III canto dell'Odissea : Nestore racconta che mentre gli eroi della guerra troiana erano laggiù a compiere molte imprese, quello se ne stava tranquillo nella parte più sicura (eu[khlo" mucw'/ , v. 263) di Argo che nutre cavalli e molto cercava di sedurre con le parole (qevlgesken e[pessin, v. 264 ) la moglie di Agamennone, la quale dapprima rifiutava l'indegno misfatto poiché aveva un'anima nobile ed era sorvegliata da un aedo di fiducia del suo sposo, ma alla fine cedeva (vv. 265-272).
L'interpretazione di Ovidio non è troppo diversa da quella di Omero:"Quaeritis Aegisthus quare sit factus adulter;/in promptu causa est; desidiosus erat " ( Remedia amoris, vv. 161-162), volete sapere perché Egisto divenne adultero? il motivo è a portata di mano: non aveva nulla da fare. Gli altri Greci infatti facevano la guerra e ad Argo non c'erano processi a impegnarlo. Dunque:"Quod potuit, ne nil illic ageretur, amavit " (v. 167), fece quello che poté, per non stare là senza far niente: fece l'amore.
Anche Madame Bovary divenne adultera poiché si annoiava:"per lei, ecco, l'esistenza era fredda come un solaio esposto a settentrione, il silenzioso ragno della noia tesseva e ritesseva la tela nell'ombra, in ogni cantuccio del suo animo" (p. 36).
Ecco che cosa pensa la vecchia Bovary dei grilli della nuora:"Ci vorrebbe un'occupazione, un bel lavoro manuale! Se come tante altre fosse costretta a guadagnarsi il pane, non avrebbe mica tanti fumi per la testa. Sai da dove vengono? Da quel mucchio di idee balorde, dal troppo ozio in cui vive"[21].
 
L'uxoricida della Sonata a Kreutzer di Tostoj mette l'ozio tra le esche ingannevoli della sua infausta passione amorosa:"Ma in realtà quel mio amore era prodotto, da una parte, dall'affaccendata madre e dalla sarta, dall'altra-dalla grande abbondanza di cibi che ingoiavo, e in più dalla vita oziosa che menavo" (p. 327).
 
Torniamo a Menandro
Gorgia pensa che Sostrato possa farsi male per questo innamoramento:
"a noi non fai torto, però stai male tu, e inutilmente"
( mavthn de; kakopaqei'" 348).
 Il giovane facoltoso però non ha altro in testa che la fanciulla nemmeno conosciuta e risponde:
" no, se posso avere la ragazza" (349).
I due futuri cognati concertano di avvicinare il vecchio, ma il ragazzo ricco riceve da Gorgia il consiglio di non presentarsi "con l'aria elegante di chi non ha nulla da fare"(357).
Anche il servo Davo avverte il padrone che il suo abbigliamento non è opportuno in questa circostanza
"ma tu starai vicino a noi che lavoriamo tenendo quella sopravveste ?"(364); poi, siccome l'elegantone risponde:
"perché no?", lo schiavo spiega:
"ti tirerà addosso le zolle
subito, ti chiamerà maledetto fannullone (o[leqron ajrgovn). Invece bisogna
che tu ti metta a zappare insieme a noi: se infatti ti vede
fare questo, forse sopporterà di ascoltare qualche
parola da te, pensando che tu sia un povero che lavora la terra con le sue mani"(365-369).
Lo stile della neglegentia suggerito da questo schiavo
Verrà assunto da buona parte degli aristocratici europei descritti da Tacito a proposito di Petronio e di Nerone, poi dal Castiglione, da Proust, da Musil.
 
Il modo di vivere di Cnemone del resto conserva alcune idee e precetti della tradizione poetica: in questa sua posizione infatti si trova il motto esiodeo che non il lavoro è vergogna, ma l'ozio: “e[rgon d j oujde;n o[neido", ajergivh t j o[neido" (Opere e giorni, 311)
 Il "lavoratore in proprio" dell'Oreste di Euripide è uno di quelli che soli salvano la terra (v. 920) . Oltretutto il vocabolo usato per indicare chi lavora con le proprie mani è il medesimo nei due testi drammatici (aujtourgov" v. 920 nell’Oreste , poi v. 369 nel Dyskolos
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Sesta parte con citazioni da Euripide e Proust.
 
Sostrato è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo: anche a travestirsi da contadino:
"procurami una zappa a due punte"(374) chiede a Davo, e quando questo gliela porge, lo ringrazia con un'espressione iperbolica:
"dammela, tu mi salvi la vita"(377).
Oramai tutti gli interessi del giovane scioperato sono concentrati sulla fanciulla:
"sono messo così: a questo punto devo morire

oppure vivere con la ragazza ( “parapoqanei'n h[dh h] me dei'- h] zh'n e[conta th;n kovrhn”- 378-379).
 
Attraverso queste parole vediamo quanto si sia chiuso nel privato l'uomo ateniese rispetto all'epoca classica quando l'interesse principale era la polis con le assemblee, i riti religiosi e tutte le manifestazioni pubbliche.
 
Proust sostiene che ci si innamora di una persona pensando che questa potrà accrescere le nostre esperienze e potenziare la nostra identità
“Il fatto che noi crediamo che un essere partecipi a una vita sconosciuta in cui il suo amore ci farà penetrare” è quello che l’amore esige per nascere. Il resto ha scarso valore.
“Anche le donne che sostengono di non badare al fisico di un uomo, vedono in quel fisico l’emanazione di una certa vita. E’ la ragione per cui si innamorano di militari o di pompieri, credono di baciare sotto la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce, e un giovane sovrano o un principe ereditario per fare conquiste non ha bisogno del profilo regolare che sarebbe forse indispensabile a un agente di cambio (La strada di Swann, p. 108)
 
Segue un breve monologo di Sostrato che elogia l'educazione presumibilmente ricevuta da quella creatura innocente:
"Se questa ragazza non è stata educata tra
le donne e non conosce nessuno di questi mali
nella vita e non è stata terrorizzata da qualche
zia e balia ma è venuta su liberamente
con questo padre selvaggio che odia il male,
come potrebbe non essere la mia felicità unire la mia sorte alla sua"? (384-389).
 
Qui troviamo un ricordo euripideo (la donna non deve stare tra le donne poiché si insegnano le male arti a vicenda, cfr. Andromaca vv. 930 e sgg.) e anche un apprezzamento dello stile rustico, lontano dai formalismi e dalle falsità di quello cittadino.
Nell’Andromaca di Euripide, Ermione, la moglie legittima di Neottolemo diventato amante di Andromaca, parlando con Oreste e deplora la rovina subita dalle visite delle comari maligne:" kakw'n gunaikw'n ei[sodoi m ' ajjpwvlesan" ( v. 930). La sposa che permette a tale genìa di guastare la sua intesa coniugale, viene come trascinata da un vento di demenza. Sentiamo la figlia di Menelao pentita di essersi lasciata montare la testa da queste Sirene maligne che hanno provocato la rovina del suo matrimonio con il figlio di Achille: "Ed io ascoltando queste parole di Sirene[22],/ scaltre, maligne, variopinte, chiacchierone,/ fui trascinata da un vento di follia. Che bisogno c'era infatti che io/controllassi il mio sposo, io che avevo quanto mi occorreva?/grande era la mia prosperità, ero padrona della casa,/e avrei generato figli legittimi,/quella[23] invece dei mezzi schiavi e bastardi[24] servi dei miei./ Mai, mai, infatti non lo dirò una sola volta,/ bisogna che quelli che hanno senno, e hanno una moglie,/ lascino andare e venire dalla moglie che è in casa/ le donne: queste infatti sono maestre di mali:/ una per guadagnare qualcosa contribuisce a corrompere il letto,/ un'altra, siccome ha commesso una colpa vuole che diventi malata con lei,/ molte poi per dissolutezza; quindi sono malate/ le case degli uomini. Considerando questo, custodite bene/ con serrature e sbarre le porte delle case;/ infatti nulla di sano producono le visite/ dall'esterno delle donne ma molte brutture e anche dei mali (vv. 936-953).
 
Intanto i servi di Sostrato preparano il sacrificio ordinato dalla padrona dopo che ha fatto un brutto sogno: ha visto il figlio che, per volontà del dio Pan, zappava con dei ceppi ai piedi.
Fine del secondo atto
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Settima parte.
 
Dopo l'intermezzo corale senza parole (Corou') comincia il Terzo Atto (427-619).
 
Cnemone esce di casa ordinando alla vecchia serva di chiudere la porta e di non aprire a nessuno finché non sia tornato:
"grau', th;n quvran kleivsa" j a[noige mhdeniv,
e{w" a]n e[lqw deu'r j ejgw; palin"(427-428).
 
Questi versi possono venire indicati quali modello indiretto di quanto dice Euclione, l'avaro protagonista dell'Aulularia di Plauto alla vecchia Stafila:
"Abi intro, occlude ianuam; iam ego hic ero .
Cave quemquam alienum in aedis intromiseris "(89-90), vai dentro, chiudi la porta; io sarò qui a momenti. Bada di non lasciar entrare nessun estraneo in casa.
 Non bisogna dimenticare però che mentre Euclione è essenzialmente un tirchio, Cnemone è piuttosto un asociale.
 
 Quindi il misantropo si imbatte nel corteo guidato dalla madre di Sostrato. Al vecchio naturalmente la visione della gente dà fastidio:
"Che cosa vuol dire questo malanno?
Una folla (o[clo" ti"). Vai in malora!"(431-432).
 La madre di Sostrato e il servo Geta si scambiano battute sulla preparazione del sacrificio quindi entrano nel ninfeo, un sacrario delle ninfe che Cnemone aborrisce poiché attira processioni intere di seccatori:
"Maledetti, possiate morire male! Mi rendono
Inattivo- poiou'sivn me-ajrgovn: infatti non posso lasciare incustodita
la mia abitazione. Queste ninfe vicine di casa per me sono
una disgrazia"(442-445).
 
ajrgovn Quando una persona ha deciso che una certa occupazione, un determinato e[rgon qualifica la propria identità, se viene impedito di compiere quel lavoro, sente di perdere tempo e ne soffre.
Per questa ragione non ho fatto figli e non mi sono sposato con nessuna delle mie amanti: temevo che mi sottraessero tempo allo studio e allo sport.
 
Del resto quei molesti, secondo Cnemone, non sono veri devoti ma bigotti ghiotti: "come sacrificano questi mascalzoni:
portano canestri, brocche, non per gli dèi
ma per sé. L'incenso è cosa pia
e la focaccia: questo prende il dio sul fuoco
messo tutto lì sopra. Costoro invece, mentre mettono lì
per gli dèi la punta dei lombi
e la bile, che sono immangiabili,
ingoiano il resto per loro"(447-453).
 
E' questo un attacco, probabilmente di Menandro stesso, contro gli sprechi cui portano la superstizione e la volontà di apparire. A questo proposito Teofrasto scrisse un trattato Peri; eujsebeiva" , Sulla devozione, dove diceva che gli uomini non devono astenersi dai sacrifici ma neanche fare sacrifici cattivi: non è pio sacrificare animali bensì offrire erbe, fiori, focacce. Anche questa prescrizione è in sintonia con le leggi suntuarie di Demetrio del Falero, l'abile finanziere che voleva limitare gli sprechi e le ostentazioni di ricchezza.
 
Poi Geta si accorge che è stato dimenticato il lebète, la caldaia per cuocere la carne, e bussa a casa di Cnemone per farselo prestare; ma il vecchio arriva di corsa gridando:
"perché tocchi la mia porta, disgraziatissimo? Dimmelo uomo!"(466). "Non mordere!" –mh; davkh/" prova a difendersi Geta, ma il vecchio iracondo ribatte: "io per Zeus ti mangio vivo!" ( ejgwv se nh; Diva, kai; katevdomaiv ge zw'nta, 467).
 
 Geta spiega che vuole solo un lebete, ma il nome di questo arnese per l'arrabbiato è quasi oltraggioso:
"mascalzone, pensi che io faccia come voi
 che sacrificate bovi?"(473-474).
 
Lo schiavo gli risponde a tono:
"nemmeno una chiocciola, credo (oujde; koclivan e[gwgev se).
Buona fortuna, persona per bene-eujtuvcei bevltiste. Di bussare alla porta
me lo hanno ordinato le donne perché te lo chiedessi.
L'ho fatto: non c'è; lo riferisco
tornato da quelle. O dèi venerati!
E' una vipera quest'uomo canuto!" ( e[ci" polio;" a[nqrwpov" ejstin ouJtosiv, 475-480).
 
Poi si allontana mentre l’uomo canuto inveisce:
"Belve assassine! Bussano qui senza complimenti
come da un amico! Se prendo uno di voi che
si avvicina alla mia porta, e non ne farò
un esempio per tutti, -paravdeigma poihvsw- pensate di vedere
in me uno dei tanti (nomivzeq j e{na tina; oJra'n me tw'n pollw'n)." (481-485).
 
 Questo è uno dei peccati di Cnemone: volere essere uno straordinario. E' u{bri".
 
Nel prologo della Samìa il protagonista giovane, Moschione, si presenta come uno dei tanti ("tw'n pollw'n ti" w[n" v. 11).
Opportunamente: infatti per le creature di Menandro deve valere la preghiera delle Baccanti di Euripide:
tenere lontana la mente e saggia l'anima
dagli uomini straordinari:
ciò che la folla più semplice
crede e pratica,
questo io vorrei accettare"(vv.427-432). Un altro che non vorrebbe essere uno dei tanti e finisce per cadere al di sotto della media è Oblomov di Goncarov: quando il servo Zachàr gli dice: "io pensavo che gli altri non sono peggio di noi e cambiano casa..", l'abulico padrone gli risponde irato:"Gli altri non sono peggio-ripetè con orrore-Ilià Ilìc'- . Ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un qualunque altro ! (p. 124).
Si pensi anche a Delitto e castigo e all’articolo di Raskolnikov sugli uomini straordinari i quali possono permettersi tutto, anche il crimine
 
Poi entra in scena il cuoco Sicone per ritentare la prova con il vecchio: intanto espone la sua teoria secondo la quale per ottenere qualche cosa bisogna lusingare:
"deve essere adulatorio dei' ga;r ei\nai kolakikovn
quello che chiede qualche cosa to;n deovmenovn tou. Un vecchio risponde
 alla porta: subito dico padre e babbo.
Una vecchia, madre. Se è una donna di mezza età,
 la chiamo sacerdotessa. Se è un servo, carissimo bevltiston "(492-497).
 
E’ quello che fa Demea con Syro negli Adelphoe di Terenzio come vedremo
 
In quel momento entra Cnemone e il lusingatore gli fa:
"o babbino-patrivdion-, cercavo proprio te"(498).
 
“Per Menandro l’umanità sta nell’amicizia e nella simpatia; la comprensione per gli altri uomini è la virtù delle sue figure, la virtù che lo stesso poeta Menandro dimostra nei confronti dei suoi personaggi”[25]. Qui però la simpatia è una simulazione.
Adulare è la degenerazione di quella amicizia e simpatia che gli uomini dovrebbero avere tra loro, di quell'avvicinarsi psicologicamente al prossimo che, secondo Menandro, è la base della moralità.
Del resto la lusinga come mezzo di corruzione è teorizzata da quel "vecchio libertino incancrenito" (p. 545) di Svidrigàjlov in Delitto e castigo: "finalmente feci ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. E' un mezzo ben conosciuto: l'adulazione...Con l'adulazione si può sedurre perfino una vestale" (p. 538).
 
Non tutti gradiscono le lusinghe: “Ma se donna del ciel ti move e regge,/come tu di’, non c’è mestier lusinghe” dice Catone a Virgilio (Purgatorio, I, 92)
Ma Cnemone non è una vestale e non si lascia sedurre.
Anzi picchia Sicone e grida:
"Io non ho
pentola, né scure, né sale
né aceto né niente, ma l'ho detto in poche parole
a tutti quelli del luogo di non venire da me"(505-508).
Di solito queste parole di Cnemone sono messe in relazione con i versi 9O-93 dell'Aulularia di Plauto quando
"quod quispiam ignem quaerat, extingui volo,
ne causae quid sit quod te quisquam quaeritet.
Nam si ignis vivet, tu extinguēre extempulo ", quanto al fatto che qualcuno chieda il fuoco, voglio che sia spento, perché non ci sia ragione di venire a chiederlo. Infatti se il fuoco vivrà, tu ti spengerai subito.
E’ quanto dice l’avaro alla vecchia serva Stafila
 Euclione teme di essere derubato della pentola auri plena , Cnemone invece teme che gli venga sottratta la solitudine.
 
Io propongo un altro accostamento: nei Buddenbrook di T. Mann si trova un personaggio del genere, rappresentante di un'aristocrazia incapace di adattarsi al mondo borghese dei commerci e per tanti versi vicina alla cultura dei contadini:"aveva esposto per parecchio tempo sull'umile porta di casa un cartello che diceva:'qui abita il conte Mölln. E' solo, non ha bisogno di nulla, non compera nulla e non ha niente da regalare.
Quando il cartello ebbe fatto il suo effetto e nessuno venne più a importunarlo, il conte l'aveva tolto"(p.331).
 
Il cuoco dunque, costretto a desistere, si allontana da Cnemone che non accetta nemmeno i saluti ( mh; cai're dhv, v.513). Escono dalla scena Sicone e Cnemone ed entra Sostrato.
 
Questo si lamenta di essere tutto indolenzito per avere passato ore"sollevando con forza la zappa, come un manovale- wJ" ejrgavth"- " (527) nella speranza di essere visto dal vecchio del quale vuole diventare genero. Ma "non veniva nessuno.
 
Posare a manovale da parte degli studenti magari con Mini Minor era una posa di noi studenti di sinistra nel 1968.
Ricordo che in marzo andai a sciare a Moena e tornai a Bologna molto abbronzanto. Quando entrai nell’aula delle assemblee del movimento studentesco alcuni compagni mi domandarono dove avessi preso così tanto sole. Erano pronti a fischiarmi se avessi detto che venivo da una vacanza sciistica. Sicché risposi che ero andato stato a Cuba a tagliare la canna da zucchero: applausi.
Molto peggio fanno quelli che si fingono ricchi.
 
 Il sole bruciava"(534-535) continua Sostrato. Il breve monologo si chiude con la constatazione dell'irrazionalità dell'amore che è, come la Sorte, tirannico e inspiegabile:"
 non posso dire per gli dèi perché sono giunto qui,
ma questa faccenda mi ha trascinato a questo punto spontaneamente (e{lkei dev m j aujtovmaton to; pra'gm j eij" to;n tovpon" 543-545).
 
 Poi entra Geta, il servo dei genitori di Sostrato, affaccendato nella preparazione del banchetto sacrificale, e il giovin signore pensa di invitare Gorgia con il suo servo per renderseli ancora più alleati. Quindi invoca Pan promettendogli:
"ti rivolgerò sempre una preghiera passandoti
vicino e ti tratterò sempre con amicizia" (filanqrwpeuvsomai, vv.571-572).
 L'uomo greco cerca un rapporto personale con il dio cui chiede aiuto come a un amico. Lo vediamo benissimo nell'Ode di Saffo ad Afrodite.
 
Quindi Sostrato esce ed entra Simiche, la serva di Cnemone, la quale si lamenta poiché le è caduta un'anfora nel pozzo e per giunta la zappa con la quale lei cercava di tirarla su. Cnemone se n'è accorto ed entra infuriato: vorrebbe legare la vecchia e calarla giù (590).
Geta che ha assistito alla scenata, appena il vecchio e la serva escono, ha parole di commiserazione:
"disgraziato! Che razza di vita conduce!
è il vero contadino attico:
combatte con le pietre-pevtrai" macovmeno"- le quali producono solo timo e salvia
e non ne tira fuori che tribolazioni" (602-606).
Il terzo atto si chiude con il rientro di Davo e Sostrato che trascina Gorgia, riluttante, al banchetto.
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Ottava parte
 
All'inizio del Quarto atto (620-783) scatta l'allarme: Simiche annuncia il fatto che porta al ravvedimento del vecchio:"il padrone è finito nel pozzo!"( oJ despovth" ejn tw'/ frevati, v.624).
Gli è successo "nel tentativo di tirare fuori la zappa e l'anfora"(626).
Il cuoco esulta per la caduta dell’ intrattabile vecchio" oJ calepo;" gevrwn (628), e anzi consiglia alla vecchia di tirargli sopra "una macina o una pietra o qualcosa del genere"(631).
La vecchia serva Simiche chiede aiuto a Gorgia e allo stesso cuoco il quale invece continua a manifestare soddisfazione per la disgrazia del Duvskoloς, al punto di riconoscere in essa un segno della giustizia divina:
"Gli dèi esistono per Dioniso. Tu non mi dai
il lebète per il sacrificio, razza di sacrilego,
ma lo trattieni: allora bevi l'acqua del pozzo dove sei caduto"(639-641).
 
“Così s’osserva in me lo contrappasso” (Dante, Inferno, XXVIII, 142. E’ Bertran De Born il poeta provenzale che parla. Aveva spinto il figlio di Enrico II contro il padre “e ’l capo tronco tenea per le chiome, présol con mano a guisa di lantena”
Cfr. san Tommaso S. theol., II, II, 61: “haec est forma divini iudicii ut secundum quod aliquis fecit, patiatur
In questo caso il contrappasso si osserva nella caduta di Cnemone
 
Sono state le Ninfe, aggiunge Sicone, a fare la mia vendetta.
Il cuoco conclude il suo tripudio augurando al misantropo di restare zoppo, così non potrà più ostacolare i sacrifici per i quali i devoti ghiottoni ingaggiano i cuochi.
 
Poi entra Sostrato e racconta come si è svolto il salvataggio di Cnemone: la figlia "si strappava i capelli, piangeva, si batteva il petto con forza"(673-674); lui, l'innamorato, poco si curava del vecchio, e mentre tirava malvolentieri la corda, guardava la ragazza e la pregava
"di non fare così, fissandola come se fosse una statua, e non una dozzinale"(677). ejmblevpwn ajgavlmati-ouj tw'/ tucovnti
 
La donna che ci colpisce incarna delle quintessenze per noi fondamentali, come l’opera d’arte che ci piace.
 
La contemplazione della sua bella anzi per poco non costava la vita al vecchio poiché Sostrato, incantato dalla splendidissima, stava per lasciare la corda, ma
 " quell' Atlante di Gorgia,
non era lì per caso e teneva duro e con molti sforzi e alla fine lo ha tirato su- ajnhvnoc j aujtovn " (683-685).
Insomma dalla scena descritta emergono la solidarietà e la generosità del figliastro verso il patrigno che non era mai stato prodigo di niente con lui. Quindi i due, il salvato e il salvatore, entrano. Seguono alcuni versi che contengono la morale del dramma. Gorgia sottolinea il male insito nella solitudine (694) e Cnemone, ammansito, chiede la presenza della moglie separata; quindi Gorgia ripropone la saggezza delfica del nesso sofferenza-comprensione:
"Solo le disgrazie possono educarci, a quanto sembra"( ta; kaka; paideuvein movna ejpivstaq j hJma'" wJ" e[oike, v. 699).
 
La formulazione più sintetica di questa legge pedagogica e morale si trova nell'Agamennone di Eschilo (tw/' pavqei mavqo" v. 177)
 Voglio fornirne un'espressione di Erodoto: Creso, re di Lidia, dopo essere caduto, riconosce che si era illuso di essere l'uomo più felice della terra, ma, sconfitto e catturato da Ciro re dei Persiani, comprende che c'è un ciclo delle vicende umane il quale non permette che siano sempre gli stessi uomini a essere fortunati:"ta; dev moi paqhvmata ejovnta ajcavrita maqhvmata gevgone", le mie sofferenze che sono state spiacevoli, sono diventate apprendimenti (I, 207).
 
 
Analisi del Dyskolos di Menandro. Nona parte
 
Quindi Cnemone stesso dichiara che cosa ha imparato dalla disgrazia (713-735):
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare- dei' ga;r ei\nai- kai; parei'nai-to;n ejpikourhvsont j ajeiv-
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il trarre profitto (pro;" to; kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino- tou'to dh; ejmpodw;n h\n moi. 722
 
Nell’Edipo re c’è la Sfinge dal canto variopinto (v.130), la cagna cantatrice(v.391) che ha impedito per anni la ricerca dell’assassino di Laio. Sarà Edipo a sconfiggerla di nuovo e a trovare il regicida e parricida in se stesso divenendo farmakov", medicina umana di Tebe con l’allontanarsi dalla città
Ai versi 130-131 Creonte dice:"La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi to; pro;" posi; skopei'n-, e a lasciare perdere quanto non si vedeva(tajfanh').
 
Ma torniamo al Dyskolos
Il solo Gorgia con fatica 723
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora-e lo credo tanto sto male-
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo pavnta sautou' novmison ei\nai.
Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io, anche se fossi del tutto sano,
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai ouj ga;r ajrevsei moiv pote- oujde; ei|"
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)". 735
 
“La debolezza umana deve ricorrere al soccorso: questo aveva detto Teseo a Eracle, in Euripide (nell’Eracle ndr). Ma il dyskolos non capisce ancora che occorre essere legati agli altri uomini. Non si parla dell’amicizia, come faceva Teseo. In parte rimedia la fine del quinto atto: con scherzi pesanti il cuoco e lo schiavo lo inducono a partecipare alle nozze del figliastro e alla festa campestre nel santuario di Pan”[26].
 
Il vecchio dunque ha compreso e concede e chiede quella tolleranza che negava quando era nell'errore: un percorso paradigmatico invero che, come quelli della tragedia, poteva costituire un esempio per gli spettatori affinché si liberassero da tale aJmartiva, e può insegnare ancora qualcosa a tutti noi.
 
Le ultime parole di Cnemone indicano l'esemplarità anche del suo tenore di vita modesto:
"se tutti fossero tali, non ci sarebbero tribunali
né la gente si trascinerebbe nelle prigioni,
né ci sarebbe la guerra, e ciascuno si accontenterebbe pur avendo poco-e[cwn d’ a]n metri j e{kasto" hjgavpa-
Ma se vi piace più questo modo di vivere, fate così.
Il vecchio duro, intrattabile (duvskolo") se ne starà fuori dai piedi (ejkpodw;n uJmi'n oJ calepo;" duvskolov" t j e[stai gevrwn)"(vv.743-747).
 
Ecco dunque il significato del Misantropo : un messaggio contro il rifiuto dell'umanità altrui, un invito alla riflessione e alla comprensione nei confronti del prossimo. Non ha torto Carlo Del Grande- era il preside della facoltà di Lettere antiche nel tempo del mio scolorato a Bologna e lo ricordo con simpatia- quando afferma (nel suo Tragw/diva ) che i poeti della Commedia nuova accolgono la linea euripidea non solo nell'attenuare la tradizione eroica, sostituendo o trasformando i grandi personaggi del mito in piccole persone qualsiasi, ma anche nel mantenere la sostanza esemplare del dramma. Infatti la commedia di Menandro continua ad essere, usando la definizione che dà Aristotele della tragedia (Poetica , 1449b):"mivmhsi" pravxew" spoudaiva"", imitazione di un'azione seria. Il poeta insomma, messi da parte gli eroi del mito, ne crea altri più umani in aderenza a ideali di umanità e giustizia concordemente affermati da cinici, stoici ed epicurei. L'arte allora, oltre essere imitazione della vita, ne è anche modello. Nel Duvskolo" dunque torna la vecchia traccia esiodea ripresa da Solone, dai tragici e da tutta la letteratura non soggetta a influenze sofistiche:"soffrendo anche lo stolto impara"(Esiodo, Opere , 218).
Leggiamo le parole di Carlo Del Grande
“Il fatto è che in Menandro il comico resta marginale; non più di quanto se ne può trovare anche in qualche tragedia (…) Non più gli eroi del mito, che qui non ci sono; compaiono gli umili. Dopo i primi sondaggi di Euripide, entrano in folla i cittadini del mondo già ritenuto minore. Si rivelano maggiori, in rapporto diretto con la loro umiltà. Chi è più umile, spesso è sentito migliore, più capace di sacrificio disinteressato (…) La comicità fu perseguita, se mai, da altri poeti della neva, non dal nostro. Trionfò in Roma con Plauto, vero creatore, come è stato sostenuto, dell’opera buffa.
Menandro, per suo conto, conserva tutti gli elementi essenziali della tragw/diva, anche se perfusi dal balsamo della soavità”. Tragw/diva, la commedia “tragica” di Menandro, p. 208.
Ricordo questo maestro con simpatia perché era uno dei pochissimi che presentava delle idèe oltre i tecnicismi. Idèe che possono anche essere non condivisibili però inducono a pensare.
Ci vogliono anche i tecnicismi, per carità, ma non ci si deve fermare a questi: costituiscono solo il primo gradino dell’angelica scala del sapere- to; sofovn che deve procedere fino alla sapienza- hJ sofiva-.Bologna 9 gennaio 2022 ore 17, 36
 

 
Menander with masks depicting New Comedy characters:
youth, false maiden, and the old man, Princeton University Art Museum
Analisi del
Dyskolos di Menandro. Decima parte
Conclusione della commedia
 
 Gorgia chiede a Cnemone se può presentargli un pretendente della figliola; il vecchio acconsente e, come vede Sostrato esclama e domanda:
" Com’è bruciato dal sole! E' un contadino?" (ejpikevkautai mevn. gewrgov" ejsti; 754).
Sostrato dunque si è trasformato in un colono adusto dal sole
Mi viene in mente il Cristo di Piero della Francesca della Resurrezione del Borgo come viene commentato da Roberto Longhi: “sorse il Cristo orrendamente silvano e quasi bovino (…) vedesi essere involontariamente assorto a simbolo di salvazione questo accigliato colono imbalsamato dal sole” (Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, p. 426)
 
 Gorgia asseconda il desiderio del patrigno:
"Certo, padre.
Non è uno da lussi né un tipo da andare a spasso senza fare niente tutto il giorno"(755).
Insomma un altro aujtourgov"-
 A questo punto Cnemone lascia i pieni poteri al figliastro, il quale dice a Sostrato che è necessario anche il consenso del padre suo. Il giovane ricco assicura:
"mio padre non avrà nulla in contrario"(762).
Allora Gorgia dà il suo benestare: il carattere di Sostrato è approvato poiché la ricchezza non gli ha fatto perdere il senso della misura e dei limiti umani:
"pur essendo abituato al lusso, hai preso la zappa, hai scavato, ha voluto faticare"(766-767). Sostrato dunque non ha avuto bisogno di un rovescio di fortuna, come Creso, per mettersi nei panni di un povero e prepararsi ad affrontare eventuali cadute.
Quindi entra Callippide, il facoltoso padre di Sostrato, noto a Gorgia come:
"un uomo ricco e giusto; un coltivatore impareggiabile"( gewrgo;" a[maco" 775).
 
Il Quinto atto (vv.783-969 comincia con un agone tra il figlio e il padre: Sostrato si lamenta del fatto che Callippide gli consente sì di sposare la ragazza povera, ma non concede a Gorgia la mano della figlia. Callippide ribatte così:
"non voglio prendere insieme una nuora e un genero
Pezzenti- ptwcou;" labei'n-: per noi è sufficiente uno dei due"(795-796). Questa cruda battuta dà luogo ad una risposta di Sostrato, che si fa portavoce dell’autore, sulla labilità delle ricchezze e dei possessi umani:
"Tu parli dei beni materiali, cosa malsicura- ajbebaivou pavgmato" 797.
Se infatti sai che queste ti rimarranno
per tutto il tempo, guardati dal darne parte
ad alcuno; ma se di esse tu non sei
il padrone, e le hai non come cose tue ma della sorte th'" tuvch" de; pavnt j e[cei" ,
non devi esserne geloso nei confronti di uno di questi.
La sorte infatti dopo avere tolto tutto a te
potrebbe arricchire un altro a caso, magari indegno.
Perciò dico che tu devi, finché possiedi dei mezzi,
usarli con nobiltà( crh'sqaiv se gennaivw"), padre, aiutare tutti (ejpikourei'n pa'sin), fare del bene
a quante più persone puoi. Questo infatti è un capitale
che non muore, e se tu ti trovi nella perdita,
di lì ti verrà un contraccambio.
Vale molto più un amico palese (ejmfanh;" fivlo")
che una ricchezza latente (plou'to" ajfanhv") che tu hai sotterrato"(797-812).
 
In questo discorso di Gorgia troviamo la stessa idea, di origine delfica, manifestata da Solone a Creso nelle Storie di Erodoto (I, 29- 32). Il pacchiano re barbaro, considerato l'uomo più ricco del mondo, aveva domandato al saggio legislatore ateniese "se avesse già visto l'uomo più felice i tutti, sperando di essere il più felice degli uomini". Invece Solone rispose:"O Creso, io so che il divino è tutto invidioso e turbolento, e tu mi interroghi sulle vicende umane... A 70 anni io pongo il limite della vita per l'uomo... Di tutti questi giorni compresi in 70 anni che sono 26250 non ce n'è uno che porti un fatto del tutto simile a un altro. Così dunque, Creso, l'uomo è una cosa completamente in balìa degli eventi (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I, 32, 4). A me sembra che tu sia davvero ricco e re di molti uomini; ma la risposta a quello che mi domandavi non te la posso dare prima di avere saputo che hai finito bene la vita". Questa interpretazione poi è divenuta topos ideologico presente in diversi autori, da Euripide a Seneca per nominarne solo alcuni. Restringendo l'ottica al dramma di Menandro e al matrimonio tra un povero e una ricca vediamo che tali nozze costituiscono un correttivo non rivoluzionario alle sperequazioni economiche e sociali.
 
Callippide dunque accetta il suggerimento del figlio:
"dai, distribuisci (divdou, metadivdou): io mi sono completamente lasciato persuadere da te"(818). Poi aggiunge anche "volentieri (eJkwvn)"(819) poiché una persuasione estorta non avrebbe valore. A questo punto è Gorgia che oppone resistenza al proprio matrimonio con un'ereditiera:
"mi considero degno di lei,
ma non mi sembra giusto prendere molto dal momento che ho poco"(833-834). Tuttavia bastano un paio di battute (del resto arrivate mutile) di Callippide a convincerlo:
"con questo mi hai convinto: due volte
povero e stupido.."(838-839). Ma il passo è disastrato. Comunque le doppie nozze verranno celebrate.
Sostrato esprime la sua soddisfazione con un ottimistico elogio della ragione e della volontà che risente delle due principali filosofie ellenistiche: l'epicureismo e lo stoicismo:
"Chi è davvero intelligente (to;n eu\ fronou'nq j)
 non deve mai rinunciare a nessuna impresa.
Tutto diventa espugnabile con l'attenzione e la fatica- aJlwta; givnet j ejpimeleiva/ kai; povnw/- a[pant j .
Io ora porto un esempio di questo:
in un solo giorno ho fatto un matrimonio
cui nessuno avrebbe creduto del tutto "(860-865).
 
Questo elogio dell'intelligenza ha dei precedenti nell'Agamennone di Eschilo:"to; mh; kakw'" fronei'n-qeou' mevgiston dw'ron", il non capire male è il dono più grande di dio (vv.927-928), e nell' Antigone di Sofocle:"pollw'/ to; fronei'n eujdaimoniva"-prw'ton uJpavrcei"( 1347-1348), il primo punto della felicità di gran lunga è il capire.
 
Intanto sta cominciando la festa nuziale e Cnemone non si vede; anzi ha pregato Gorgia di portare via la vecchia serva Simiche in modo da restare completamente solo(868).
"Che carattere irriducibile!"- w] trovpou ajmavcou (869) commenta Sostrato.
Dalla casa del solitario esce Simiche imprecando contro di lui:
"Sì me ne vado anch'io per Artemide. Tu
rimarrai steso là dentro da solo. Disgraziato te per il tuo carattere! (tavla" su; tou' trovpou.)"
Questi ti volevano portare dal dio
e tu hai detto di no! Ti capiterà un grande male di nuovo
per gli dèi, e ancora peggiore! (874-878).
Poi la vecchia esce per andare ad assistere la vergine nubenda e sulla scena rimane il servo Geta cui si aggiunge il cuoco Sicone: insieme concertano uno scherzo a Cnemone: il momento è propizio, infatti mentre gli altri fanno baldoria
"il vecchio misantropo dorme ed è solo (oJ duvskolo" gevrwn kaqeuvdei movno")"(892). Decidono di sollevarlo di peso e portarlo fuori. Il vecchio se ne lamenta con un'esclamazione da tragedia:
"ohimé, sono perduto!"(911) , ma Sicone per burla gli chiede in prestito"lebèti e tazze"(914). Cnemone è come stordito e grida:
"o povero me! In che modo sono stato portato qui?
chi mi ha depositato davanti alla porta? Vattene!"(918-919). La burla continua con altre richieste di Geta e di Sicone che poi vanno avanti descrivendo il banchetto, quindi lo invitano a prendervi parte. Il vecchio prova a resistere con il solito stile:
"Che cosa volete ancora, maledetti?"
ma Geta non si lascia intimorire:
" piuttosto tu vieni con noi! Sei un villano!"(955).
Il misantropo tenta un ultima resistenza:
"no per gli dèi!"
senza però scoraggiare Geta:
"Allora ti portiamo con noi?"(957), la cui insistenza fa dubitare Cnemone:
"Che cosa devo fare?". L'esitazione dà spazio a un invito più risibile:
("balla anche tu"covreue dhv suv) che spinge il vecchio a scegliere il male minore:
"Portatemi. Probabilmente è meglio
sopportare le seccature di là"(957).
Le ultime parole sono di Geta che ordina a Sicone e a un altro di sollevare Cnemone e portarlo dentro. Quindi si rivolge al vecchio consigliandolo di non brontolare più se vuole evitare guai e, insieme con il poeta, prende congedo dagli spettatori:
"Bene. Voi, dopo avere goduto con noi del trionfo
su quel difficile vecchio, applauditeci (ejpikrothvsate)
con simpatia ragazzi, fanciulli e uomini.
E la vergine Vittoria , dal nobile padre
amante del riso filovgelwv" te parqevno"- Nivkh , ci segua e ci sia sempre propizia"(965-969).
 
 
Breve appendice a Menandro
 
Tra le filosofie ellenistiche, secondo Del Grande, la più influente è quella peripatetica che considera l'uomo "animale politico"(politiko;n zw'on , Politica , 1253a), non quella epicurea che suggeriva il vivi nascosto (lavqe biwvsa", fr.551U).
 
Non la pensa così Bruno Snell che mette in rilievo il privatatizzarsi degli interessi dei personaggi di Menandro.
“i personaggi di Menandro sono limitati alla loro cerchia privata. Se Alessandro conquista il mondo e dopo la sua morte i diadochi si disputano la sua eredità, la Commedia Nuova riecheggia tutto ciò, al massimo, presentando un soldato che si dà importanza con la sua borsa piena e grandi discorsi. Atene è diventata una città di provincia e non ha più nulla da dire in politica. Gli interessi sono semplificati all’estremo: i vecchi curano la proprietà, i giovani si dedicano a piaceri assai terreni; i caratteri si sono moderati al punto che nessuno persegue uno scopo con grande passione. I vecchi non sono grossi speculatori, ma avari; i giovani hanno bisogno del vino per infiammarsi in modo che un’azione possa prendere l’avvio. Se un giovane è nei guai, di regola soltanto gli schiavi sono così attivi da trovare un rimedio. Gli schiavi hanno il diritto di diventare solenni, solo loro filosofeggiano o citano versi tragici. Gli uomini nobili e “umani” di Menandro, che non inseguono più interessi superiori, che non credono affatto che esista più un modo di agire grande e ragionevole, si limitano molto consapevolmente ad aver riguardo per il prossimo e ad aiutarlo; essi educano se stessi secondo il principio che per loro “niente di umano è estraneo”. Se in Euripide Teseo si presenta a Eracle con umana comprensione, questo era il gesto di un singolo amico provato. Ora questo avvicinamento psicologico al prossimo diventa il fondamento morale della società; ed è il contrario di un rigorismo morale”[27].
 
Nella commedia L'arbitrato (Epivtreponte") troviamo un vero momento di mavqo" (comprensione) tragico quando Carisio, il protagonista, definisce se stesso, ironicamente, l'uomo senza peccato attento alla reputazione ( ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn, v. 588) e comprende che l'errore sessuale della moglie è stato un "infortunio involontario"( ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594).
Qui la tradizione è presente e, nello stesso tempo, rinnovata: la reputazione (dovxa) infatti è quella tradizionale: Solone nella Elegia alle Muse chiede loro benessere (o[lbo", v. 3) e, appunto, una reputazione buona (dovxa ajgaqhv, v. 4). per essere degno di rispetto (aijdoi'o", v. 6). Pindaro agli atleti augura benessere e buona reputazione.
Carisio allora ripropone la formula antica, ma poi la supera con quell"io l'uomo senza peccato, ti" ajnamavrthto", che anticipa il Vangelo di Giovanni:"chi di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp& aujth;n balevtw livqon, qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat (VIII, 7). Questa non è una posizione realistica, conclude Del Grande, poiché i mariti borghesi non erano, né sono, come Carisio; Menandro dunque, messi da parte gli eroi del mito, ne crea altri più umani i quali comunque arrivano alla comprensione attraverso la sofferenza, come suggerisce l'Agamennone (v. 177) di Eschilo.
 
“Carisio, ad udire le parole tanto umane di una sposa offesa, cede alla commozione. Guarda a sé stesso, al modo come ha agito, e si confessa colpevole: un vero momento di mavqoς tragico»[28].
Sempre per quanto riguarda la comprensione, è interessante quello che dice la giovane sposa Panfile al padre Smicrine:
"se non riesci a persuadermi mentre mi vuoi salvare
puoi essere giudicato un padrone invece che un padre (oukevti path;r krivnoi j ajlla; despovth")" (510-511).
 Un'affermazione moderna che ha avuto un seguito fino ai nostri giorni (penso al libro di G. Ledda, e al film derivatone, Padre padrone) ed ha un riscontro puntuale in Terenzio che negli Adelphoe fa dire al buon educatore Micione:
"Hoc patriumst, potiu' consuefacere filium
sua sponte recte facere quam alieno metu:
hoc pater ac dominus interest. Hoc qui nequit
fateatur nescire imperare liberis "(74-77), questo è dovere del padre, abituare il figlio a comportarsi bene per volontà sua piuttosto che per paura degli altri: in questo il padre differisce dal padrone. Chi non sa fare questo, ammetta di non saper guidare i figlioli.
 
“Si richiede tatto psicologico non solo nei confronti del prossimo, ma anche nei confronti di se stessi. Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, e anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (…) i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc (…) Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi… E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[29].
 
p. s.
Ho concluso con Menandro che nel corso sulla commedia latina deve essere solo propedeutico.
Mi direte se aveva ragione Cesare a chiamare Terenzio “o dimidiate Menander”.
 
Ora andrò a correre sulla strada “per guadagnarmi onestamente il pan” come cantavamo nel tempo, che non rimpiango, della goliardia.





[1] Cfr. Eschilo, Agamennone 160. E’ il canto del pavqei mavqo~ (v. 177)
[2]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , p. 13.
[3] Composto tra il 49 e il 52 : “Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est”, 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[4] Così dice Shakespeare, Timon of Athens, I, 1: “He’ s opposite to humanity”.
[5] B. Snell, Poesia e società, pp. 151-152.
[6] B. Snell, Poesia e società,, p. 153
[7] Nel terzo libro troviamo un episodio che afferma il valore della tolleranza e lo riferisco poiché mi sembra uno dei più alti insegnamenti della storiografia antica. Contro "la tolleranza zero" tanto sbandierata oggi dai razzisti e dagli ignoranti. Il re Dario aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oiJ; tou;" goneva" katesqivousi"( III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli gridando forte lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che giustamente Pindaro abbia fatto, affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai"). Vedi a questo proposito il volumetto novmo~ basileuv~ a cura di Ivano Dionigi.
[8] Purriva", Rosso. cfr. il rufus schiavo Pseudolo della commedia latina tanto geniale quanto volgare:"ore rubicundo" (v. 1219 
[9] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10
[10] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 26.
[11] J. K. Huysmans, Controcorrente (del 1884) p. 218.
[12] Fenomenologia dello spirito (del 1807) . Capitolo 4 (A)3. 
[13] ll problema del calo demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel II secolo a. C., per il mondo ellenico, da Ocello lucano e da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene ricordata la crisi demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di popolazione ("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie! 
[14] Peppe ‘Mmerda’.
[15] Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 81.
[16] T. Mann, I Buddenbrook, p. 35.
[17] E. Rohde, Psiche, p. 631.
[18] Pronome neutro derivato da istud+ il deittico -ce.
[19] Il punitore di se stesso , commedia di Terenzio del 163 a. C
[20] Composto dalla negazione nec + otium .
[21] Madame Bovary, p. 104.
[22] Sono mostri che adescano i naviganti con la malìa del loro canto per poi ucciderli. Per attirare Odisseo gli dicono che chi fa sosta da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", Odissea, XII, 188). Ma il figlio di Laerte, unico tra gli uomini, riesce a udire il canto delle Sirene senza esserne sedotto. Come nel caso di Circe, come in quello dell'accesso all'Ade, egli sa che cosa deve fare, e di fronte alle Sirene escogita uno stratagemma: tappa gli orecchi dei suoi marinai e si fa legare all'albero della nave.
[23] Andromaca.
[24] Si può pensare all'elogio dei bastardi pronunciato da Edmondo, il figlio illegittimo (di Gloster) che nel Re Lear si presenta come devoto adoratore della dea natura."Thou, Nature, art my goddess". Bastardo dunque, secondo la natura, è un titolo onorifico:" noi nel gagliardo furto di natura prendiamo una tempra più solida maggior fierezza di carattere rispetto ai gonzi generati tra il sonno e la veglia in un letto freddo, frollo e fiacco (I, 2).
[25] B. Snell, Poesia e società, p. 154.
[26] B. Snell, Poesia e società, p. 153.
[27] B. Snell, Poesia e società, pp. 154-155.
[28] C. Del Grande, Tragw/diva, p. 209.
[29] B. Snell, Poesia e società, pp. 156-157.

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