venerdì 28 gennaio 2022

Plauto Aulularia Atto quarto scena nona.


 

 La grandezza dell’avaro nel dolore.

 

Euclione poi Liconide

 

Euclione entra in scena tragicamente: “Perii, interii, occĭdi. Quo curram? Quo non curram? Tene, tene! Quem? Quis?” (713), sono morto, sono andato in malora, sono spacciato. Dove correre, dove non correre? Prendilo, prendilo. Chi va preso e chi prende?

Il vecchio sembra avere perduto l’orientamento e addirittura la sensazione di essere vivo.

Lo dichiara subito dopo: “Nescio, nihil video, caecus eo atque equidem quo eam, aut ubi sim, aut qui sim” (714) non so, non vedo niente,  vado alla cieca senza sapere dove, o dove mi trovi o chi io sia.

 

Evidentemente ricavava la propria identità dalla pentola e dall’oro che conteneva.

Ora sono tali quasi tutti, a partire dai borghesi

Pensate a Liliana Segre una signora che da bambina si salvò da una situazione tra le più orribili e ora ha più  91 anni e ne dimostra 15 di meno con una salute di ferro. E’ anche senatrice a vita. Quindi  ha molti motivi per sentirsi una donna di forza straordinaria.

Una forza che ammiro molto.

Eppure questa signora  ha sentito il bisogno di ricordare che proviene da una buona famiglia borghese e di negare che dai criminali aguzzini nazisti  l’hanno liberata i Russi con  altri Sovietici.

Non so se l’abbiano fatto direttamente con lei.

Mi sento però in dovere di dire che la Germania nazista di Hitler è stata sconfitta prima di tutti dall’Unione Sovietica che ha pagato questa vittoria con decine di milioni di morti.

Sia chiaro che non ho niente contro questa gagliarda e bella signora che anzi apprezzo assai per la sua vitalità che, certo, ha contribuito in gran parte a salvarla, però non posso non ricordarle che le squadracce fasciste erano costituite dalla piccola borghesia ed erano supportate da molte  famiglie della grande borghesia.

  

 

Torniamo a Plauto

 Euclione si rivolge al pubblico e gli chiede aiuto pregando e ripregando con abbondanza di ripetizioni. Quindi indica uno spettatore e lo interpella non senza una captatio benevolentiae.

 

Quid ais tu?  Tibi credere certum est; nam esse bonum ex voltu conosco” (717),  che cosa dici tu? Credere a te è cosa sicura; infatti capisco dallo sguardo che sei buono.

 

Ho tadotto voltus con “sguardo” perché voltus è la parte del viso che guarda. Os invece è quella che parla.

 

Sentiamo Maurizio Bettini

Le due parti più significative del viso  sono la bocca, os, e gli occhi oculi. Nel voltus determinanti sono gli occhi. "Possiamo quindi ritenere che, quando dicono vultus, i Romani concentrino il senso della faccia non nella parte bassa del viso, come nel caso di os, ma in quella alta. Alla faccia/bocca, sembra dunque contrapporsi una faccia/occhi"[1]. Quindi Bettini cita " il celebre passo in cui Plinio descrive le virtù degli occhi negli animali, e soprattutto nell'uomo". Ne riporto solo le parole essenziali:"Profecto in oculis animus habitat"[2], certamente l'animo abita negli occhi.

"Che siano proprio gli occhi che, nel vultus, svolgono questa funzione di finestra dell'animo, ci è del resto confermato esplicitamente anche da Quintiliano:"In ipso vultu plurimum valent oculi, per quos maxime animus emanat"[3] (nel vultus hanno particolare importanza gli occhi, attraverso i quali l'animo soprattutto si esprime)"[4].

 

 

Poi Euclione cambia tono e canzona gli honestiores i cittadini più ragguardevoli vestiti di bianco e seduti nelle prime file, davanti al palcoscenico.

Quid est? Quid ridetis? Novi omnis scio fures esse hic complures- qui vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi” (718-719)  Che c’è? Perché ridete? Vi  conosco tutti: so che qui ci sono parecchi ladri che si nascondono sotto una toga imbiancata a gesso e stanno seduti come fossero dei galantuomini.

 

Sono gli optimates  che Cicerone identifica con gli abbienti :" Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti ", (Pro Sestio, 45) sono ottimati tutti quelli che non fanno del male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà domestiche. 

 

Ora gli ottimati sono quelli “di buona famiglia” e borghesia medio alta, come se le famiglie di braccianti precari, operai malpagati e altri indigenti fossero tutte cattive.

 

Euclione riprende a lamentarsi con toni tragici dopo l’intermezzo scherzoso: heu me misere miserum, perii! Male perditus, pessime ornatus eo- tantum gemiti et mali mestitiaeque  hic dies mi optulit, famem et pauperiem!  (721-722) , ahimé disgraziatamente disgraziato, sono andato malamente in malora, sono conciato malissimo, questo giorno mi ha portato così tanto pianto e male e afflizione, fame e miseria!

Perditissimus ego sum omnium in terra” (723), sono il più disperato di tutti sulla terra.

 

Euclione arriva alla automitizzazione: anche lui è un magnus, anzi un maximus, sia pure nella disgrazia.

 

L’unica ragione della sua vita era custodire l’oro- era un guardiano, un fuvlax- e ha fallito e ora che l’oro non ha più bisogno di lui, egli non ha più bisogno di vivere- “nam quid mi opust vita?” (723).

Anche questo vecchio considera degna di essere vissuta la vita solo se è un’occupazione che serve a qualche cosa.

 

La mia è servita all’educazione prima di me stesso poi dei miei allievi. E serve ancora.

Sono anche io, come Federigo Borromeo di Manzoni, fin da fanciullo  “persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto” (I promessi sposi, capitolo XXII)

La formulazione latina di tale principio si trova in un'epistola di Seneca:" Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur " (Epist. 60, 4.) vive chi si rende utile a molti, vive chi  impiega se stesso.

 

Egomet me defraudavi -724- ho truffato me stesso, continua Euclione, animunque meum genium meum- il mio animo il mio spirito (725).

E’ quello che si pensa quando si fallisce uno scopo prefissato, piccolo o grande.

Ora altri godono della mia rovina. Pati nequeo (726), non ce la faccio a sopportarlo.

Questo avaro che prima era meschino sta diventando grande nel dolore: tw'/ pavqei mavqo".

 

Liconide esce dalla casa dello zio e sente Euclione che piange e si dispera. Teme che abbia scoperto il segreto della figlia che sta partorendo il loro figlio e si sente perduto. Non sa cosa fare: se andare via o affrontarlo Quid agam edepol nescio 731.

 Così si chiude questa nona scena del quarto atto dell’Aulularia.

Bologna 28 gennaio 2022-01-28  ore 11, 54

giovanni ghiselli

p. s

Statistiche del blog

Sempre1206544

Oggi144

Ieri589

Questo mese10364

Il mese scorso8985

 

    



[1] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 328.

[2] Plinio, Naturalis historia, 11, 145.

[3] Quintiliano, Insitutio oratoria, 11, 3, 75.

[4] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 329.

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLX. L’ospedale di Debrecen. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

  Nei giorni seguenti, intorno al ferragosto,   vissi alcune ore di buona speranza: una serie intermittente di minuti nei quali immagi...