lunedì 17 gennaio 2022

Terenzio, Heautontimorumenos. 9

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Atto III scena seconda  (512-561)

 
Siro
Cremete
 
Siro uscendo di casa dice tra sé che si deve tendere una trappola al vecchio intentenda in senemst fallacia,  per trovare denaro.
 
Per la fallacia del servo ricordo Ovidio:
dum fallax servus, durus pater, improba lena
vivent et meretrix blanda, Menandros erit "
(Amores ,I, 15, 17-18), finché ci sarà lo schiavo ingannatore, il
padre severo, la ruffiana disonesta e la cortigiana
adulatrice, ci sarà Menandro. E pure il suo epigono ed emulo Terenzio.
 
Cremete scorge Siro e parlando tra sé e dice che vede la conferma dei propri sospetti. Aggiunge che i due amanti hanno affidato al  suo servo Siro, l’incarico dell’imbroglio perché Dromone il servo di Clinia tardiuculust  (515) è un po’ tardo di mente.
 
Syro vede a sua volta il padrone e teme di essere stato ascoltato.
 
Quindi fa un complimento al vecchio che la sera prima ha bevuto parecchio ma è in giro già così di buonora.
La sua gli pare aquilae senectus (521) la vecchiaia dell’aquila.
 
Poi il servo elogia Bacchide: mulier commoda et- faceta haec meretrix. (520-521) donna piacevole e pure spiritosa questa puttana
Cremete conferma e Syro aggiunge  che quella donna è di forma luculenta, di una bellezza luminosa, che dà luce.
 
La luce è spesso associata alla bellezza. A proposito di tale nesso nel fascino femminile l’espressione più efficace che mi viene in mente è questa di Svevo: “non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e non per sbalordire” (La coscienza di Zeno, capitolo 7, p 319 Dall’Oglio)
 
Cremete conferma ancora, attenuando di poco l’elogio sperticato
Sic, satis (523) sì abbastanza, non c’è male. Teme di suscitare sospetti esagerando con l’approvazione.
 
Anche Syro abbozza una critica: Ita non ut olim (524), certo non è come quelle di una volta, sed uti nunc, sane bona, ma per come stanno le cose ora, va abbastanza bene.
 
Questo confronto tra le femmine moderne come le “sfacciate donne fiorentine” (Purgatorio, XXIII, 101) e quelle del buon tempo antico come la donna di Bellincion Berti che veniva “dallo specchio- sanza il viso dipinto” (Paradiso, XV, 113-114) si trova pure nella Commedia di Dante.
 
Una topos nel quale cadono tutti i maschi almeno finché sono giovani. Anche io che ho fruito della benevolenza di tante “sfacciate”, prima di arrivare ad amarle e apprezzarle proprio per la loro disinvoltura ho diffidato di così  facile disponibilità. Ero stupido però mi sono lasciato educare, dalle sfacciatissime finniche in particolare. Queste ragazze nei primi anni Settanta erano già come sarebbero diventate le Italiane, quanto a “sfacciataggine “, solo diversi anni dopo.  
 
Ma toniamo a Terenzio
Syro dopo l’elogio della prostituta biasima il vecchio Menedemo  avaro, disperatamente innamorato del denaro ed essiccato aridum (526) nei sentimenti  al punto di fare fuggire il figlio a forza di lasciarlo privo di mezzi, nella inopia (528)
Cremete esclama: “Hominem pistrino dignum!” (530) uomo degno di girare la macina de mulino!
 
 Una pena inflitta agli schiavi colpevoli e pure un compito per asini, o  per uomini diventati asini, come si legge nell’Asino d’oro di Apuleio
 
Lucio-asino messo alla macina si ferma più volte stupore mentito (9, 9) fingendosi tonto.
Ma lo bastonano e allora si mette a girare rapidamente. Intanto osserva l’orribile condizione degli schiavi. Il sollievo di Lucio è la sua innata curiosità che lo apparenta a Ulisse. Ingenita mihi curiositate recreabar (9, 13). La curiositas è re-creatio, ridà vita.
 
Cremete chiarisce che quella pena da asini andrebbe inflitta a Dromone lo schiavo di clinia, servolus adulescentis , il servitorello che non ha inventato un imbroglio con cui procurare i soldi necessari al giovane padrone per fare regali all’amica. Sarebbe stato anche  per quel vecchio intrattabile un bene,  sia pure conto la sua volontà.
Siro dubita che il padrone parli sul serio, probabilmente teme che voglia metterlo alla prova. Lo schiavo fa l’ipotesi che il padrone stia cianciando a vanvera garris (536) ma Cremete ribadisce quanto ha detto. Allora Siro  pone la domanda diretta: “Eho quaeso, laudas qui eros fallunt?” (537), ma scusami, tu elogi gli schiavi che ingannano i padroni?
Il padrone risponde: in loco- ego vero laudo  (537-538)
 
Vi ricordo che negli Adelphoe è il servo Syro che usa l’espressione in loco
“Pecuniam in loco negligere maximum interdumst lucrum” 216, non tener conto del denaro al momento opportuno costituisce il profitto più grande.
Insomma: ogni cosa a suo tempo.
 
Siro risponde recte sane, benissimo, tuttavia gli rimane il dubbio che Cremete dica per scherzo queste parole che non si addicono a un padrone: “Iocone an sero dicat nescio  (541).
 
Chi è in balia del potere altrui non sa mai quali siano le vere intenzioni di chi lo comanda.
 
Cremete seguita con la sua finzione per rassicurare il servo.
Dromone non deve indugiare a inventare una trappola ma sbrigarsi per evitare che Clinia fugga di nuovo mandato via dalla inopia.
Cremete suggerisce a Siro di ammaestrare Dromone.
Siro promette di farlo, però poi avverte Cremete che suo figlio potrebbe fare le stesse cose ut sunt humana del ragazzo di Menedemo
Cremete spera di no. Siro dice che anche lui lo spera ma se accadesse servirebbe magnifice il vecchio.
Cremete dice videbimus  (556) poi spinge Siro ad agire come concordato.
 
Il servo  rimasto solo si compiace del fatto che il padrone abbia parlato commodius  (559) più opportunamente di quanto sia mai acaduto:  gli ha ordinato un’azione che gli era stata sempre proibita.
 
Ma Siro, pur con tutta la sua astuzia e malizia, non ha capito come stanno le cose.
Chi ha dei padroni non ha nemmeno la libertà di vedere la realtà effettuale, quindi di pensare e di essere se stesso.
 
"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[1].
 
Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[2].
 
Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[3]. 
 

Bologna 17 gennaio 2022 ore 18, 48
giovanni ghiselli
 
p. s.
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[1] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[2] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.
[3] L’imperatore Giuliano, Atto III, quadro primo.

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