domenica 16 gennaio 2022

Terenzio, Heautontimorumenos. 6

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Atto III scena prima ( parte prima 409-454)

Chremes Menedemus Senes duo
 
Luciscit iam (410) spunta il giorno dopo una notte nella quale Bacchide ha fatto baldoria fingendo di essere l’amante di Clinia.
Cremete sta andando da Menedemo  per informarlo sul bene e sul male: il figlio è tornato ma la sua amante, da ragazza seria e modesta quale era prima, durante l’assenza di Clinia è diventata una sgualdrina avida di tutto. Cremete ha buone intenzioni: “”quod potero adiutabo senem” 416, per quanto potrò, aiuterò il vecchio.
Di fatto i due ragazzi sono complici l’uno dell’altro e nos quoque senes est aequom senibus obsequi 419, è giusto che anche noi vecchi accondiscendiamo ai vecchi.
 
E’ la solidarietà generazionale che abbiamo provato e veduto noi tutti.
Purtroppo però abbiamo dovuto assistere anche alla volontà di rottamare i vecchi manifestata da alcuni giovani come Renzi e la Serracchiani che non sono più tanto giovani e per giunta sono falliti in tutto. Ora dovrebbero tacere, invece continuano a chiacchierare.
 
Medicine:  Menedemo in Terenzio, poi Cicerone. Infine i vaccini.
 
Entra in scena Menedemo dicendo che si sente predestinato all’infelicità, e non è vero quanto si dice- diem adĭmĕre aegritudinem hominibus (Heauton timorumenos, 422) - che il tempo toglie il dolore agli uomini.
Il tempo come medicina lenta ma grande viene indicato da Cicerone nelle Tusculanae: “Est enim tarda illa quidem medicina, sed tamen magna, quam adfert longiquitas et dies” (III, 16).
 
Pensiamo alla medicina costituita da questi vaccini anticovid: tarda lo è di sicuro, magna forse; per lo meno dopo tre iniezioni, lo spero.
 
Menedemo continua dicendo che la propria aegritudo de filio, cottidie augescit magis (423)  cresce di giorno in giorno e lui povero padre desolato sente sempre più la mancanza del suo ragazzo: “quanto diutius- abest, magis cupio et magis desidero (424- 425)
 
Menedemo sembra prossimo a morire come la madre di Odisseo, Anticlea. Il figlio domanda alla yuchv evocata della madre morta quale Chera letale l’abbia uccisa. E Anticlea risponde che nessuna malattia breve o lunga l’ha ammazzata –ajlla; me sov" te povqo" sav te mhvdea, faivdim j   jOdusseu',- shv t j ajganofrosuvnh melihdeva qumo;n ajphuvra” (Odissea, 11, 201-202)  ma il desiderio di te, gli affanni per la tua mancanza, splendido Odisseo, il rimpianto della tua dolcezza, mi hanno tolto l’amabile vita.
 
I due vecchi dunque si incontrano e salutano
Cremete informa Menedemo che suo figlio Clinia è vivo e in buona salute “valet  atque vivit”(430).
Notate la precedenza dello stare bene rispetto all’essere vivo.  Un u{steron provteron tutt’altro che irrazionale
Poi l’informazione data da Cremete procede con la notizia che Clinia non solo è tornato ma si trova in casa sua apud me domi.
Il padre vorrebbe vederlo subito,però l’amico gli dice della volontà di Clinia di rimanere latitante rispetto al padre perché ha fallato ancora e teme che quella antica durezza paterna diventi ancora più dura: “propter peccatum hoc timet, ne tua duritia antiqua illa etiam adaucta sit (434-435). Menedemo rivendica il fatto di avere mutato carattere e Cremete gli consiglia di non presentarsi tam leni et victo animo (438) tanto ammansito e remissivo.
Ma il padre pentito non se la sente subito di accogliere tale consiglio: “Non possum: satis iam, satis pater durus fui” (439).
A parer mio il satis ripetuto equivale a satis superque.  
Cremete rinfaccia all’amico la sua mancanza di misura: “vehemens in utramque partem, Menedeme, es nimis-aut largitate nimia aut parsimonia” (440-441).
Lo stesso abbiamo notato in Demea degli Adelphoe, prima troppo duro, poi lassista.
Prima, continua Cremete, hai fatto scappare di qui tuo figlio piuttosto che permettergli di andare ad mulierculam quae paululo- tum erat contenta quoique erant grata omnia (443-444)  da una donnetta che si accontentava di pochino e le era gradita ogni cosa.
La muliercula abbandonata, coacta ingratiis costretta contro voglia postilla coepit victum volgo quaerere,  (446-447) in seguito a cominciato a guadagnarsi da vivere prostituendosi quale pubblica moglie.
Questo mestiere turpe le ha cambiato il carattere: è diventata pretenziosa e Clinia non può averla sine magno intertrimento (448) senza grandi e dannose perdite.
  
Il denaro dunque può cambiare in peggio i costumi.
Nell'Agamennone  di Eschilo troviamo l'idea che dalla ricchezza rifugge la giustizia la quale"brilla nelle case dal povero fumo"(Divka de; lavmpei me;n ejn- duskavpnoi" Dwvmasin 773- 774).
 
Il rifiuto della  ricchezza e potenza terrena separata dalla giustizia si trova  anche nella filosofia: nel Gorgia di  Platone  si contrappone al luogo comune secondo il quale un uomo molto ricco e potente è necessariamente una persona invidiabile: a Polo che, credendo di fare una domanda retorica, gli ha domandato se  si possa dire del gran  re di Persia che non è felice, il maestro dell’autore del dialogo risponde di non saperlo:" ouj ga;r oi\da paideiva"  o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh""(470e),  poiché non so come stia a cultura e giustizia.
 
Sentiamo cosa dice il personaggio Ateniese nelle Leggi di Platone  racconta che dopo il diluvio universale gli uomini sopravvissuti non erano ricchi né poveri "Poveri per questo motivo non erano, né, costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e nemmeno ricchi divennero mai in quanto privi di oro e di argento…nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” (679b-c). 
 
Nella Repubblica  di Platone l'oro reale è quello che si trova nell'anima di guerrieri e filosofi i quali perciò non hanno bisogno di proprietà ma possono vivere liberi dalla maledizione del denaro siccome l'oro dell'anima non deve essere contaminato da quello mortale: infatti molte ed empie cose sono avvenute per il denaro corrente nel volgo:"polla; kai; ajnovsia peri; to; tw'n pollw'n novmisma gevgonen"(417). 
 
Anche Seneca scaglia anatemi contro la ricchezza e contro il potere: "Quod contemptissimo cuique contingere ac turpissimo potest bonum non est; opes autem et lenoni et lanistae contingunt; ergo non sunt bona " (Epistole , 87,  15), quello che può toccare agli uomini più spregevoli e infami non è un bene; ora le ricchezze toccano a un lenone e a un maestro di gladiatori; dunque non sono un bene. E, poco più avanti (16):"pecunia...sic in quosdam homines quomodo denarius in cloacam ", il denaro va a finire nella tasca di certi uomini come una moneta in una fogna. Infine, utilizzando Posidonio:"quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem non sunt bona; divitiae autem...nihil horum faciunt; ergo non sunt bona " (35), le cose che non procurano all'animo né grandezza né coraggio né sicurezza non sono beni; ora le ricchezze non producono niente di questo; dunque non sono beni.
La distruzione delle città è vista come un atto scellerato e ispirato dalla bramosia di denaro.
Nel De ira  il maestro di Nerone ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine, e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33, 1).
  
Questi autori classici insomma non hanno la caratteristica  u{bri" dell'uomo economico che considera  virtù massima la capacità di fare denaro.
 
 Un elogio della povertà, e del santo che la amò con fedeltà assoluta imitando il Cristo, si trova nel Paradiso  di Dante:"Francesco e Povertà per questi amanti/prendi oramai nel mio parlar diffuso"(XI, 74-75).

Insomma Menedemo deve stare attento a non farsi portare via tutto da quella donna traviata,  avida e rapace. Sta sguazzando nel lusso grazie al denaro succhiato agli amanti.
E’ arrivata a casa sua  e primum iam ancillas secum adduxit plus decem,- oneratas veste atque auro” (451-452) prima di tutto ha portato con sé più di dieci ancelle coperte di vesti e di oro; satrapes si siet-amator, numquam sufferre eius sumptus queat. Nedum tu possis”(452-454), se il suo amante fosse un satrapo, non potrebbe mai sostenerne le spese. Tanto meno potresti tu


Bologna 16 gennaio 2022 ore 11, 57
Giovanni ghiselli


p. s.
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