Menedemo entra in scena parlando tra sé. Fa un confronto tra il proprio metodo mentale e quello dell’amico cui queste parole assegnano un poco anche il ruolo del rivale.
Il padre di Clinia riconosce di non essere tanto astuto e acuto - ego me non ita astutum neque ita persipicacem esse id scio (874)
Ma, continua, il mio consigliere e guida ha questo vantaggio su di me- hoc mihi praestat (876): a me si addicono tutti questi titoli che si dicono sugli stolti: caudex, stipes, asinus, plumbeus 877, ceppo, tronco, asino, ottuso e refrattario; a lui niente può adattarsi poiché la sua ingenuità stultitia eius supera tutti questi epiteti.
Dunque Menedemo dubita di quanto gli ha detto Cremete.
Non si capisce se questa stultitia è ritenuta ingenuità buona, sancta simplicitas, come quella del’Idiota di Dortoevskij o solo comune stupidità. Sembra più probabile la seconda ipotesi, ma non ne sono sicuro.
E Mattarella? E’ stato una consumata volpe nel fare il ritroso o l’hanno proprio messo con le spalle al muro? Credo di nuovo piuttosto nella seconda ipotesi
Comunque è andata bene così.
Entra in scena Cremete rivolto però verso casa sua: parlando a voce alta alla moglie. Le dice di smettere di importunare gli dei deos gratulando obtundere (879) continuando a ringraziarli per la figlia ritrovata. Li offende giudicandoli con il metro adatto alla sua mente che non capisce una cosa se non la sente ripetere cento volte.
Tolstoj suggerisce il contrario: di giudicare tutti con il metro che ci dà Dio: "A nessuno passa per la testa che ammettere una grandezza alla quale non sia applicabile la misura del bene e del male non vuol dire altro che confessare la propria nullità e la propria incommensurabile piccolezza. Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non esiste nulla di incommensurabile e non c'è grandezza là dove non c'è semplicità, bene, verità"[1].
Cremete poi domanda perché il loro figliolo non si faccia vedere da tanto tempo.
Menedemo ha sentito qualche parola e gli domanda chi sia in ritardo
Cremete invece di rispondere, scortesemente e nervosamente, gli pone una domanda: vuole sapere se ha riferito a Clinia quanto poco pima aveva saputo.
Menedemo risponde che suo figlio è felice di sposarsi
Cremete ride, e Menedemo gli fa: “quid risisti?” (885) che cosa cè da ridere?
La risposta è che gli sono venute in mente le astuzie - calliditates - 887 di quell’imbroglione di Siro. Itane? Davvero? Fa Menedemo, e Cremete lo assicura che quella canaglia di servo è capace di falsificare le espressioni delle persone - Voltus quoque hominum fingit scelus (886)
Sarebbe come un bravo regista che sa suggerire a ottimi attori in quale maniera atteggiarsi.
Menedemo domanda se Clinia allora avrebbe recitato la parte dello sposo felice senza esserlo. Cremete conferma.
Menedemo non contraddice l’amico perché continui a parlare
Cremete fa un’altra domanda: vuole sapere da Menedemo quanti soldi gli sono stati chiesti per le nozze del figlio: per la fidanzata ci vogliono vestiti, gioielli e ancelle, opportunamente - sponsae vestem aurum atque ancillas opus esse- avrà detto il servo Dromone argentum ut dares (893) perché tu dessi del denaro.
Tutt’altra cosa ancora alla fine del I secolo dopo Cristo erano i matrimoni dei Germani
Traduco qui il capitolo 18 della Germania (98 d. C.) di Tacito:
Tuttavia là i matrimoni sono una cosa molto seria Quamquam severa illic matrimonia, e non potresti approvare di più alcun aspetto dei loro costumi. Infatti quasi i soli tra i barbari si accontentarno di una moglie a testa, eccetto pochissimi che, non per libidine ma per la nobiltà, sono richiesti con moltissime offerte matrimoniali. La dote non è la moglie che la porta al marito ma il marito alla moglie. Partecipano i genitori e i parenti e apprezzano i doni, doni non scelti per i capricci delle donne, né tali che con essi la nuova sposa si acconci, ma dei buoi e un cavallo imbrigliato e uno scudo con lancia e spada. In cambio di questi doni si prende la moglie, ed ella stessa a sua volta porta qualche arma all'uomo: questo reputano il legame più saldo, questi i riti segreti, questi gli dei coniugali.
Perché la donna non si consideri esente dai pensieri di valore e dalle vicende della guerra, è avvisata, dalla stessa cerimonia augurale del primo momento del matrimonio, che viene quale compagna di fatiche e di pericoli e che accetterà le medesime condizioni in pace e correrà i medesimi rischi in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo le armi donate.
Così deve vivere, così morire; ella riceve una tradizione da trasmettere ai figli intatta e degna, che le nuore poi ricevano, e a loro volta consegnino alle nipoti.
Quamquam : qui è avverbio con valore coordinativo correttivo. Corregge l'ultima affermazione del capitolo precedente secondo la quale le donne restano "nudae bracchia ac lacertos; sed et proxima pars pectoris patet " (17, 2) con le braccia e gli avambracci scoperti, ma si vede anche la parte più alta del petto. Per un abbigliamento del genere si può osservare Il ratto delle Sabine[2] di David. Tra l'altro le Sabine sono reputate donne assolutamente serie da Livio e Virgilio[3].
Giovanni ghiselli
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[1] Guerra e Pace , p. 1607.
[2] 1799, Parigi, Louvre.
[3] Tito Livio che elogia l'educazione severa e rigida di quel popolo "quo genere nullum quondam incorruptius fuit" (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero. Anche Virgilio nella Georgica II elogia la vita laboriosa e casta degli antichi rustici Sabini: "Interea dulces pendent circum oscula nati,/casta pudicitiam servat domus, ubera vaccae/lactea demittunt, pinguesque in gramine laeto/inter se adversis luctantur cornibus haedi… Hanc olim veteres vitam coluere Sabini " (vv. 523-526 e 532), intanto i dolci figli tutti intorno gli pendono dalle labbra, la casta famiglia conserva la pudicizia, le poppe della vacca scendono piene di latte, e grassi sull'erba rigogliosa combattono con le corna puntate contro i capretti… Questa vita una volta praticarono i Sabini.
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