CTU Cesare Questa, Aulularia foto di Alessandro Brugnettini |
Dopo l'intermezzo corale senza parole (Corou') comincia il Terzo Atto (427-619).
Cnemone esce di casa ordinando alla vecchia serva di chiudere la porta e di non aprire a nessuno finché non sia tornato:
"grau', th;n quvran kleivsa" j a[noige mhdeniv,
e{w" a]n e[lqw deu'r j ejgw; palin" (427-428).
Questi versi possono venire indicati quali modello indiretto di quanto dice Euclione, l'avaro protagonista dell'Aulularia di Plauto alla vecchia Stafila:
"Abi intro, occlude ianuam; iam ego hic ero .
Cave quemquam alienum in aedis intromiseris " (89-90), vai dentro, chiudi la porta; io sarò qui a momenti. Bada di non lasciar entrare nessun estraneo in casa.
Non bisogna dimenticare però che mentre Euclione è essenzialmente un tirchio, Cnemone è piuttosto un asociale.
Quindi il misantropo si imbatte nel corteo guidato dalla madre di Sostrato. Al vecchio naturalmente la visione della gente dà fastidio:
"Che cosa vuol dire questo malanno?
Una folla (o[clo" ti"). Vai in malora!"(431-432).
La madre di Sostrato e il servo Geta si scambiano battute sulla preparazione del sacrificio quindi entrano nel ninfeo, un sacrario delle ninfe che Cnemone aborrisce poiché attira processioni intere di seccatori:
"Maledetti, possiate morire male! Mi rendono
Inattivo- poiou'sivn me-ajrgovn: infatti non posso lasciare incustodita
la mia abitazione. Queste ninfe vicine di casa per me sono
una disgrazia"(442-445).
ajrgovn Quando una persona ha deciso che una certa occupazione, un determinato e[rgon qualifica la propria identità, se viene impedito di compiere quel lavoro, sente di perdere tempo e ne soffre.
Per questa ragione non ho fatto figli e non mi sono sposato con nessuna delle mie amanti: temevo che mi sottraessero tempo allo studio e allo sport.
Del resto quei molesti, secondo Cnemone, non sono veri devoti ma bigotti ghiotti
:"come sacrificano questi mascalzoni:
portano canestri, brocche, non per gli dèi
ma per sé. L'incenso è cosa pia
e la focaccia: questo prende il dio sul fuoco
messo tutto lì sopra. Costoro invece, mentre mettono lì
per gli dèi la punta dei lombi
e la bile, che sono immangiabili,
ingoiano il resto per loro"(447-453).
E' questo un attacco, probabilmente di Menandro stesso, contro gli sprechi cui portano la superstizione e la volontà di apparire. A questo proposito Teofrasto scrisse un trattato Peri; eujsebeiva" , Sulla devozione, dove diceva che gli uomini non devono astenersi dai sacrifici ma neanche fare sacrifici cattivi: non è pio sacrificare animali bensì offrire erbe, fiori, focacce. Anche questa prescrizione è in sintonia con le leggi suntuarie di Demetrio del Falero, l'abile finanziere che voleva limitare gli sprechi e le ostentazioni di ricchezza.
Poi Geta si accorge che è stato dimenticato il lebète, la caldaia per cuocere la carne, e bussa a casa di Cnemone per farselo prestare; ma il vecchio arriva di corsa gridando:
"perché tocchi la mia porta, disgraziatissimo? Dimmelo uomo!"(466). "Non mordere!" –mh; davkh/" prova a difendersi Geta, ma il vecchio iracondo ribatte:"io per Zeus ti mangio vivo!"( ejgwv se nh; Diva, kai; katevdomaiv ge zw'nta, 467).
Geta spiega che vuole solo un lebete, ma il nome di questo arnese per l'arrabbiato è quasi oltraggioso:
"mascalzone, pensi che io faccia come voi
che sacrificate bovi?"(473-474).
Lo schiavo gli risponde a tono:
"nemmeno una chiocciola, credo (oujde; koclivan e[gwgev se).
Buona fortuna, persona per bene. Di bussare alla porta
me lo hanno ordinato le donne perché te lo chiedessi.
L'ho fatto: non c'è; lo riferisco
tornato da quelle. O dèi venerati!
E' una vipera quest'uomo canuto!"( e[ci" polio;" a[nqrwpov" ejstin ouJtosiv, 475-480).
Poi si allontana mentre l’uomo canuto inveisce:
"Belve assassine! Bussano qui senza complimenti
come da un amico! Se prendo uno di voi che
si avvicina alla mia porta, e non ne farò
un esempio per tutti, pensate di vedere
in me uno dei tanti (nomivzeq j e{na tina; oJra'n me tw'n pollw'n)."(481-485).
Questo è uno dei peccati di Cnemone: volere essere uno straordinario. E' u{bri".
Nel prologo della Samìa il protagonista giovane, Moschione, si presenta come uno dei tanti ("tw'n pollw'n ti" w[n" v. 11).
Opportunamente: infatti per le creature di Menandro deve valere la preghiera delle Baccanti di Euripide:"
tenere lontana la mente e saggia l'anima
dagli uomini straordinari:
ciò che la folla più semplice
crede e pratica,
questo io vorrei accettare"(vv.427-432). Un altro che non vorrebbe essere uno dei tanti e finisce per cadere al di sotto della media è Oblomov di Goncarov: quando il servo Zachàr gli dice :"io pensavo che gli altri non sono peggio di noi e cambiano casa..", l'abulico padrone gli risponde irato:"Gli altri non sono peggio-ripetè con orrore-Ilià Ilìc'- . Ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un qualunque altro ! (p. 124).
Si pensi anche a Delitto e castigo e all’articolo di Raskolnikov sugli uomini straordinari i quali possono permettersi tutto, anche il crimine
Poi entra in scena il cuoco Sicone per ritentare la prova con il vecchio: intanto espone la sua teoria secondo la quale per ottenere qualche cosa bisogna lusingare:
"deve essere adulatorio
quello che chiede qualche cosa. Un vecchio risponde
alla porta: subito dico padre e babbo.
Una vecchia, madre. Se è una donna di mezza età,
la chiamo sacerdotessa. Se è un servo, carissimo"(492-497).
E’ quello che fa Demea con Syro negli Adelphoe di Terenzio come vedremo
In quel momento entra Cnemone e il lusingatore gli fa:
"o babbino - patrivdion - cercavo proprio te"(498).
“Per Menandro l’umanità sta nell’amicizia e nella simpatia; la comprensione per gli altri uomini è la virtù delle sue figure, la virtù che lo stesso poeta Menandro dimostra nei confronti dei suoi personaggi”[1]. Qui però la simpatia è una simulazione.
Adulare è la degenerazione di quella amicizia e simpatia che gli uomini dovrebbero avere tra loro, di quell'avvicinarsi psicologicamente al prossimo che, secondo Menandro, è la base della moralità.
Del resto la lusinga come mezzo di corruzione è teorizzata da quel "vecchio libertino incancrenito" (p. 545) di Svidrigàjlov in Delitto e castigo :"finalmente feci ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. E' un mezzo ben conosciuto: l'adulazione... Con l'adulazione si può sedurre perfino una vestale" (p. 538).
Ma Cnemone non è una vestale e non si lascia sedurre. Anzi picchia Sicone e grida:
"Io non ho
pentola, né scure, né sale
né aceto né niente, ma l'ho detto in poche parole
a tutti quelli del luogo di non venire da me"(505-508).
Di solito queste parole di Cnemone sono messe in relazione con i versi 9O-93 dell'Aulularia di Plauto quando
"quod quispiam ignem quaerat, extingui volo,
ne causae quid sit quod te quisquam quaeritet.
Nam si ignis vivet, tu extinguēre extempulo ", quanto al fatto che qualcuno chieda il fuoco, voglio che sia spento, perché non ci sia ragione di venire a chiederlo. Infatti se il fuoco vivrà, tu ti spengerai subito.
E’ quanto dice l’avaro alla vecchia serva Stafila
Euclione teme di essere derubato della pentola auri plena , Anemone ivece della sua solitudine.
Io propongo un altro accostamento: nei Buddenbrook di T. Mann si trova un personaggio del genere, rappresentante di un'aristocrazia incapace di adattarsi al mondo borghese dei commerci e per tanti versi vicina alla cultura dei contadini:"aveva esposto per parecchio tempo sull'umile porta di casa un cartello che diceva:'qui abita il conte Mölln. E' solo, non ha bisogno di nulla, non compera nulla e non ha niente da regalare.
Quando il cartello ebbe fatto il suo effetto e nessuno venne più a importunarlo, il conte l'aveva tolto"(p.331).
Il cuoco dunque, costretto a desistere, si allontana da Cnemone che non accetta nemmeno i saluti ( mh; cai're dhv, v.513). Escono dalla scena Sicone e Cnemone ed entra Sostrato.
Questo si lamenta di essere tutto indolenzito per avere passato ore"sollevando con forza la zappa, come un manovale- wJ" ejrgavth"- " (527) nella speranza di essere visto dal vecchio del quale vuole diventare genero. Ma "non veniva nessuno.
Posare a manovale da parte degli studenti magari con mini minor era una posa di noi studenti di sinistra nel 1968.
Ricordo che in marzo andai a sciare a Moena e tornai a Bologna molto abbronzanto. Quando entrai nell’aula delle assemblèe del movimento studentesco alcuni compagni mi domandarono dove avessi preso così tanto sole. Erano pronti a fischiarmi se avessi detto che venivo da una vacanza sciistica. Sicché risposi che ero andato stato a Cuba a tagliare la canna da zucchero: applausi.
Molto peggio fanno quelli che si fingono ricchi.
Il sole bruciava"(534-535) continua Sostrato. Il breve monologo si chiude con la constatazione dell'irrazionalità dell'amore che è, come la Sorte, tirannico e inspiegabile: "non posso dire per gli dèi perché sono giunto qui,
ma questa faccenda mi ha trascinato a questo punto spontaneamente (e{lkei dev m j aujtovmaton to; pra'gm j eij" to;n tovpon"543-545).
Poi entra Geta, il servo dei genitori di Sostrato, affaccendato nella preparazione del banchetto sacrificale, e il giovin signore pensa di invitare Gorgia con il suo servo per renderseli ancora più alleati. Quindi invoca Pan promettendogli:
"ti rivolgerò sempre una preghiera passandoti
vicino e ti tratterò sempre con amicizia" (filanqrwpeuvsomai, vv.571-572).
L'uomo greco cerca un rapporto personale con il dio cui chiede aiuto come a un amico. Lo vediamo benissimo nell'Ode di Saffo ad Afrodite.
Quindi Sostrato esce ed entra Simiche, la serva di Cnemone, la quale si lamenta poiché le è caduta un'anfora nel pozzo e per giunta la zappa con la quale cercava di tirarla su. Cnemone se n'è accorto ed entra infuriato: vorrebbe legare la vecchia e calarla giù (590).
Geta che ha assistito alla scenata, appena il vecchio e la serva escono, ha parole di commiserazione:
"disgraziato! Che razza di vita conduce!
è il vero contadino attico:
combatte con le pietre le quali producono solo timo e salvia
e non ne tira fuori che tribolazioni" (602-606).
Il terzo atto si chiude con il rientro di Davo e Sostrato che trascina Gorgia, riluttante, al banchetto.
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