martedì 29 aprile 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. Diciottesimo capitolo. Parte seconda



 L'addio con La visione dell’unità. Il sentimento della necessità di iniziare l'opera. 

Scendemmo in strada. Faceva caldo anche fuori. Ci augurammo buona fortuna a vicenda, ci stringemmo le mani. Poi Ifigenia salì sulla bicicletta e iniziò a pedalare. Vedevo i capelli neri neri e fluenti fino alle spalle semiscoperte. Dopo pochi metri, girò il volto abbronzato più che mai dall’eliotropismo.
Mi guardò e sollevò la sinistra agitandola in segno di saluto. Pensavo che non l'avrei vista più. Perciò cercai di osservarla con attenzione e intensità. Eppure alla mia vista si imposero altre immagini. Dietro la bella figura di lei c'erano alcune persone brutte, tetre, mezze morte che aspettavano l'autobus; alle loro spalle vedevo un orrendo prato della sventura[1] dall'erba già risecchita e cosparsa di carte, bottiglie, barattoli, aghi arrugginiti, sacchetti e siringhe di plastica.
Ifigenia continuava a sorridermi.
In questo contrasto di bello-brutto, radioso-opaco, vitale-morente, vidi l'immagine della mia vita. Tanti dolori c'erano stati: l'infanzia  povera di affetti, gli inverni gelidi, flagellati dalla bora che penetrava fin dentro il focolare della cucina tormentando la fiamma, le liti delle donne squilibrate di casa, il nonno maltrattato, il padre vacante, gli amori non contraccambiati, l'abortimento della creatura concepita da Päivi,  e da me, le morti di amici e parenti strappati alla vita, la loro e la mia, che ogni volta ne era stata diminuita. Poi c'erano immagini ancora più tristi, di rapporti sessuali affamati, nervosi, con donne che non mi piacevano, non stimavo, o addirittura disprezzavo: quelle che dopo l'orgasmo nemmeno potevo guardare in faccia; poi il raffreddore da fieno con l'asma che non lascia dormire tutte le notti dei maggi avvelenati; quindi l'immensa volgarità della gente ordinaria depravata e mortificata dal pervertimento del messaggio di Cristo e dall'avidità degli speculatori. Poi le stragi che hanno insanguinato via via, banche, piazze, treni, stazioni; le bombe dal ringhio metallico che hanno fatto macelli di uomini donne e bambini dilaniati e squartati al pari di pecore e buoi. Tali visioni dolorose pullulavano nell'aria infuocata.

Ma ecco che cominciarono ad apparire anche immagini belle. Vedevo le donne che mi avevano aiutato: quelle di casa innanzi tutto, la mamma, la nonna, le tre zie; grazie a loro ero sopravvissuto, avevo studiato, possedevo una casa a Bologna, due a Pesaro, e diversi ettari di terra in odore di fabbricabilità: dei soldi in sé non mi importava, ma erano serviti alla mia indipendenza. Quindi le finniche della mia vita, Helena, Kaisa, Päivi ed altre meno importanti; poi le amanti non tanto speciali ma dignitose; poi le alunne intelligenti come Luciana; le sante amicizie, dell'Antonia, di mia sorella, di Fulvio; i successi scolastici, da studente e da insegnante, l'arricchimento che mi stava a cuore, quello mentale, conseguito leggendo i classici per tutta la vita, poi l'amore per la natura, il  talento educativo, quello sportivo, la fioritura mentale e fisica degli allievi, ma sopra tutto, davanti a tutto, Ifigenia che mi aveva illuminato zone nuove del mondo, strane e  misteriose regioni
dell'anima.
"Nel suo profondo vidi che s'interna/ legato con amore in un volume/ciò che per l'universo si squaderna; sustanze e accidenti e lor costume, /quasi con flati insieme "[2]. Il rovescio del big bang.

La figura di Ifigenia era la sintesi e il  sole della mia vita. Essa avrebbe gettato luce sulle immagini annidate nella memoria rendendole degne di ricordo e di memoria eterna. Il resto era compito mio: dovevo riscattare i nostri errori di misere creature mortali attraverso la bellezza delle parole e l'intelligenza dei fatti; dovevo scontare la morte eternando i trenta mesi della
nostra storia. Non c'era un minuto da perdere: bisognava iniziare prima che quel sentimento grandioso  mi spaventasse o mi schiacciasse con la paura della difficoltà dell'impresa  grande e necessaria.
Ifigenia intanto aveva girato di nuovo la bella faccia, aveva voltato l'angolo ed era scomparsa.

Giovanni ghiselli

P. S.
Il  blog è arrivato a 143607 lettori

Vi ricordo la mia prossima conferenza
30 aprile ore 17-18, 30. Aula  Guglielmi del Dipartimento di filologia classica e italianistica, via Zamboni, 32.

La presenza di autori greci e latini nella letteratura
dell’Europa moderna.
Argomenti della conferenza:
Indicherò la presenza  di loci di autori latini  in Dante, di nuovo in Shakespeare, poi in  Machiavelli, Manzoni, Alfieri, T. S. Eliot.


[1] Cfr. Empedocle, Poema lustrale, v. 109.
[2] Dante, Paradiso, XXXIII, vv. 85-879

domenica 27 aprile 2014

Diciassettesima antologia del mio Twitter





27 aprile

Chi non si accontenta di 240 mila euro l'anno non considera sangue umano quello che scorre nel corpo, pure umano, di quanti prendono cento volte di meno

"Forse vero non è; ma un giorno, è fama, che fur gli uomini uguali...l'uniforme degli uomini sembianza spiacque ai Celesti" (Parini)

A variare la terra fu spedito il denaro. Così la gente si divise in uomini “doc” e bovi al suol curvati, nati per vivere in servitù e miseria.
 
Mario Monti e i suoi intonavano laidi cantici davanti all'empio tabernacolo delle banche.

Si genuflettevano davanti all' obeso, impudente idolo sporco del mercato

Dovrebbe essere imposta la buona educazione ai buffoni.

La perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della democrazia" (Leopardi, Zibaldone, 569)

Il discorso della verità è semplice e non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Il discorso dell'ingiustizia invece necessita di artifici.

Ai servi manca la naturalezza noncurante, la sprezzatura . Si affannano per apparire meno meschini di quello che sono. E non ci riescono.
I buffoni della televisione vogliono fare credere inettamente di sapere quello che non sanno, praticando la pestifera affettazione.
La persona di valore dice parole profonde senza alcuno sforzo, con naturalezza. Da questo deriva la sua bellezza.
Gli snob, i maleducati cercano di imitare quelli che invidiano, e il loro pessimo gusto li porta a invidiare la cafoneria degli arricchiti male
Quando ero giovane io, l’ essere donnaiolo, fare l'amore con molte donne, era un atto politico rivoluzionario. Ora il sesso per i più non significa niente e non è niente.

L'astinenza o la perversione sessuale porta gli astinenti inibiti e i pervertiti a legami emotivi con chi comanda e inibisce.

La società ha avversione per l'amore, in quanto interferisce con lo scopo di fare quattrini. L'odio per il sesso è odio per la vita.
Amo la delicatezza.
 Sulla delicatezza di amore sentiamo Shakespeare:
love’s feeling is more soft and sensible-than are tender horns of cockled snails” (Love’s labour’s lost, IV, 3), il sentimento d’amore è più lieve e sensibile delle tenere antenne di chiocciole increspate.

La meritocrazia: Achille si rifiuta di combattere constando che l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore:" ejn de; ijh'/ timh'/ hjme;n kako;" hjde; kai; ejsqlov""[1].

Domando al presidente Napolitano se fanno onore alla polizia i celerini che in gruppo ammazzano di botte un ragazzo solo e indifeso.

Mi morse come vipera nell’erba. Fortuna che ho sempre l’antidoto con me. Valebis! Tanti saluti e stammi bene!

L’estrema sofferenza libera una luce nascosta in quella caverna spesso cieca che è il nostro cuore.

Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[2]. Voi, miei lettori (143366 alle 16 del 27 aprile 2014), siete il popolo  cui mi rivolgo.

giovanni ghiselli


[1]Iliade , IX, 319
[2] Leopardi, Zibaldone, 145-146.

sabato 26 aprile 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. Diciottesimo capitolo



Il rosseggiare del cielo. Il pianto senza dolore. La fine dell'anno scolastico. Ifigenia in calzoni corti davanti al portone delliceo. Gli incoraggiamenti a scrivere questo romanzo. 

Mia sorella, che nulla sapeva della catastrofe, mi domandò perché non andassi anche io a scuola di recitazione. Risposi che la mia libido tirava allo scrivere. La sera, dopo la bicicletta faticosa e la povera cena, partii per Bologna. Il sole era tramontato da poco dietro la Panoramica del colle San Bartolo: là dove il suo pendio più scosceso si tuffa nell’Adriatico; da quella parte il cielo era infuocato. Una nuvola, colpita dai i raggi infiammati del dio declinante nel mare colore del vino,  era rossa come di sangue. Mi vennero in mente le mestruazioni di Ifigenia, e, ancora una volta, il meriggio d'estate nel quale facemmo l'amore in un'aia deserta, infuocata dalla canicola e insanguinata da lei.
"La ragazza allora culminò nel mio cielo. – pensai – Adesso tramonta. E' stata sì  l'incarnazione della carne, ma anche quella del sole, la fiamma che nutre la vita"[1].
Mentre la bianca Volkswagen attraversava il borgo di Cattabrighe, finalmente piansi, quasi senza dolore. Il nostro amore era finito quando doveva, né prima né dopo: infatti era arrivato il momento di cominciare il libro con il quale avrei reso migliore me stesso e quanti mi avrebbero letto. Mi consolava anche il pensiero che la storia era stata troncata da lei: così non avevo dovuto umiliarla o
farle del male per proseguire il mio cammino da solo, come era necessario oramai. L'iniziativa, se presa da me, poteva essere perniciosa per Ifigenia che non aveva i mezzi difensivi con i quali io mi stavo salvando.
"Tu dovrai essere sempre felice creatura" le dicevo, quando la vedevo contenta. Se lo sarebbe stata davvero, e glielo auguravo, non dipendeva più da me. Se era affare dell'attore famoso, povera creatura mia, stava fresca.

La notte dormii. La mattina seguente, e siamo tornati al punto di partenza del circolo formato da queste centinaia di pagine, non feci lezione: mancava mezza classe siccome sabato 13 il preside aveva annunciato la fine dell'anno scolastico. Ai ragazzini andava bene non concludere il lavoro su Demostene, a me anche. Infatti era necessario che cominciassi questo lavoro, di interesse più generale. Conversai con i pochi presenti: mi trovarono meno infelice di venerdì mattina. In effetti, sapevo con certezza ciò che volevo.
All'uscita la vidi: era davanti al portone del liceo. Aveva dei calzoni corti che lasciavano vedere le gambe fino a metà coscia. Mi venne incontro.
"Ciao – feci - come va?"
"Bene, e a te Gianni?"
“Non c'è male".
"Vuoi che parliamo?" domandò.
"Sì certo – risposi - ma non qui. Andiamo da me".
Eravamo entrambi con la bicicletta.
Arrivati a casa mia, disse che a Riccione si era inserita nell'ambiente che la interessava; in particolare aveva conosciuto un regista di Genova che le aveva offerto una parte in una commedia ambientata in Irlanda: le era tornato in mente quanto avevamo detto sull'Hibernia dell’Ulisse di Joyce .
"E tu che cosa hai fatto?" chiese.
"Ho pensato, ho annotato pensieri e fatti. Oggi comincio a raccontare la nostra storia, per capire e fare capire, per restare altro tempo con te, e per renderti eterna. Perché le azioni grandi e meravigliose compiute da noi due, citai Erodoto[2] non senza ironia, ma soprattutto da te, rimangano luminose e vive  nella memoria degli uomini. Va bene? Così, mentre tu avrai il tuo da fare per inserirti nello spettacolo, io avrò il mio per trovare lo stile dell'universale e per conquistare l'immortalità. Anzi, se i nostri propositi avranno successo, forse un giorno, quando che sia, per me ci vorranno anni, potremo rimetterci insieme. L'arte, la gloria, l'educazione di un popolo, giustificherebbero i dolori che ci siamo inflitti a vicenda, e smentirebbero il fallimento finale. Non credi?"
"Lo spero. Tu comunque fai bene a scrivere, Gianni. Hai talento. Adesso è arrivato il momento di  metterci tutte le forze; non puoi rimandare".
"Lo so. Adesso infatti ti accompagno di sotto, poi comincio".
Erano le due di lunedì 15 giugno 1981. Nel mio studio c'era un caldo pesante. Eravamo sudati.

Gianni Ghiselli


[1] Cfr. Sofocle, Edipo re, 1425 
[2] Cfr.  Proemio delle Storie

giovedì 24 aprile 2014

"Generazioni" di Remo Bodei, presentazione del libro


Presentazione del libro di Remo Bodei
Generazioni. Età della vita, età delle cose. Editori Laterza, Roma-Bari 2014.

Prima parte: Le tre età della vita.

La vita dell’uomo viene tradizionalmente divisa in tre fasi: giovinezza, maturità, vecchiaia. Tale tripartizione “deriva dalla ripetuta esperienza quotidiana del corso del sole: ascesa, zenit, declino. Al suo interno, la preferenza viene di norma assegnata alla maturità, simbolo di pienezza, di glorioso mezzogiorno (…) Secondo le parole di Shakespeare , essa “è tutto”1, anche se, a dare ascolto a Oscar Wilde, “essere immaturi significa essere perfetti”, non rinunciare mai a ulteriori cambiamenti” (pp. 5-6).

Orazio nell' Ars poetica2 distingue le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita: "aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), si deve badare bene ai costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie età: il puer il quale gestit paribus colludere (159), smania di giocare con i suoi pari, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi l' imberbus iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Poi, conversis studiis aetas animusque virilis/, quaerit opes et amicitias, inservit honori (vv. 166-167), cambiate le inclinazioni, l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Poi c'è il vecchio:"difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum" (vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi.

Secondo Shakespeare l’intera vita umana è una recita
:" All the world's a stage-And all the men and women merely players" (As you like it 3, II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti". Segue la descrizione di ciascun atto.
Mi interessa in particolare il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.
La “corta buffa”4 era giunta al termine.

Ma torniamo al libro di Bodei che ci dà tanti motivi di riflessione e spunti per la ricerca.
La giovinezza è, per lo più, acerba, inesperta, impetuosa, colma di desideri. La vecchiaia, invece, è spesso malinconica, risentita, irritabile, timorosa e debole (etimologicamente il vecchio è “imbecille”, in quanto ha bisogno di appoggiarsi a un bastone , in baculo) (…) i vecchi vivono sotto il segno dell’agostiniano metus amittendi, della paura di perdere tutto, di avanzare verso l’ignoto o, forse, verso il nulla” (p. 6).

Eppure J. Hillman da vecchio ha scritto: “I fatti dimostrano che, invecchiando, io rivelo più carattere, non più morte”5.

Leggere i libri di Remo Bodei significa imparare idèe nuove e ricordare quelle che avevamo dimenticato. Impariamo e ripassiamo ancora dunque.
Bodei cita, tra altri autori (p. 7), Aristotele che, nella Retorica, divide la vita in tre età: “hJlikivai dev eisi neovth~ kai; ajkmh; kai; gh`ra~” (1388b), le età sono la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. Si vede che la seconda è considerata il culmine (ajkmhv) della vita.

I giovani secondo Aristotele
Nei giovani prevale la speranza e vivono per lo più in essa (kai; zw`si ta; plei`sta elpivdi, 1389a), infatti la speranza riguarda il futuro, il ricordo invece il passato.
Aristotele mette in luce diversi aspetti caratteristici, prima della giovinezza, poi della vecchiaia: i giovani sono inclini ai desideri (ejpiqumhtikoi6v, Retorica, 1389a), a partire da quello sessuale che non sanno dominare. Sono incostanti, passionali, impulsivi e facili alla collera. Amano inoltre gi onori e le vittorie ( la gioventù infatti desidera la supremazia e la vittoria è una forma di supremazia “uJperoch`~ ga;r ejpiqumei` hJ neovth~, hJ de; nivkh uJperochv ti~”). I giovani sono di indole buona (ejuhvqei~) poiché non hanno ancora assistito a molte malvagità. Sono fiduciosi (eu[pistoi) per non essere ancora stati ingannati molte volte e sono pieni di speranze (eujevlpide~) poiché, come gli ubriachi, sono di temperamento caldo e non hanno ancora subito molti insuccessi.
Farei una critica all’antico saggio obiettando che nella vita non tutti accumulano solo insuccessi, e che raggiungendo questi si acquista la sicurezza che i giovani non possono avere proprio in quanto ancora digiuni di quelle mete raggiunte che garantiscono un’identità contenta di sé.
Poi, continua Aristotele, i giovani sono facili da ingannare, sono più coraggiosi, sono portati a vergognarsi, sono magnanimi (megalovyucoi) poiché non sono ancora stati umiliati dalla vita, e sono inesperti delle necessità. Magnanimità è ritenere se stesso degno di cose grandi (kai; to; ajxiou`n auJto;n mevgavlwn megaloyucivva), ed è una caratteristica di chi ha buone speranze
Poi i giovani sono socievoli, sono portati all’eccesso: “pavnta ga;r a[gan pravttousin” (1389b) fanno tutto in eccesso: “filou`si ga;r a[gan kai; misou`sin a[gan kai; ta\lla pavnta oJmoivw~” amano infatti troppo e odiano troppo e tutto il resto nello stesso modo.

Si ricorderà che il precetto Mhde;n a[gan, nulla di troppo7, era inciso sul tempio di Delfi con Gnw`qi sautovn, conosci te stesso (cfr. Platone, Protagora, 343b).

I giovani inoltre compiono ingiustizie per dismisura non per cattiveria, sono portati alla compassione e alla facezia che è una forma educata di dismisura (hj ga;r eujtrapeliva pepaideumevnh u[bri~ ejstivn, 1389b).

Vediamo ora i vecchi secondo Aristotele.
Il quadro è del tutto negativo. Il declino nel quale vivono i vecchi li rende caratterialmente cattivi (kakohvqei~).
Segue una bella definizione del cattivo carattere: “e[sti ga;r kakohvqeia to; ejpi; to; cei`ron uJpolambavnein pavnta”, sta nel prendere tutto nel senso peggiore. Sono infatti sospettosi (kacuvpoptoi), e diffidenti (a[pistoi). Non sono capaci di amare né di odiare senza riserve. Abbiamo visto che i giovani invece sono magnanimi (megalovyucoi), e lo sono perché non hanno subito umiliazioni. I vecchi, viceversa sono mikrovyucoi dia; to; tetapeinw`sqai uJpo; tou` bivou, meschini, piccini d’animo, per essere stati umiliati dalla vita. Non desiderano niente di grande e di straordinario, ma solo quello che basta a vivere. Sono spilorci, sono vili (deiloiv) e hanno timore in anticipo poiché al contrario dei giovani che sono caldi (qermoiv), i vecchi sono raggelati (kateyugmevnoi) e la paura è un raggelamento (kai; ga;r oJ fovbo~ katavyuxiv~ tiv~ ejstin). Sono attaccati alla vita che sta fuggendo via da loro. Gli uomini infatti desiderano soprattutto ciò che manca. Succede anche nell’amore8.

I vecchi sono egoisti di quell’egoismo che è una forma di meschinità.
Vivono per l’utile (pro;~ to; sumfevron zw`sin) e non per il bello (ajll j ouj pro;~ kalovn) in quanto egoisti: infatti l’utile è un bene per la singola persona, il bello invece è un bene assoluto (to; de; kalo;n ajplw`~).

Il pragmatismo di Giasone nella Medea di Euripide.
Ricavo dalla Medea di Euripide un’altra obiezione allo Stagirita: Giasone è un giovane che prepone il sumfevron, l’utile ad ogni altro valore. E’ portatore di una cultura pragmatica, ossia priva di carità, scrisse Pasolini.
Sentiamo cosa dice a Medea il figlio di Esone
Riguardo poi a quello che mi hai rinfacciato per le nozze regali,
in questo ti mostrerò in primo luogo di essere sapiente,
poi assennato, e pure un grande amico tuo
e dei figlioli miei; ma stai calma. 550
Dopo che mi trasferii qui dalla terra di Iolco
tirandomi dietro molte disgrazie senza rimedio,
quale trovata avrei potuto escogitare più fortunata di questa
che sposare la figlia del re, una volta diventato esule?
Non è, come tu ti rodi, che odiando il tuo letto 555
io sia colpito dal desiderio di una nuova sposa,
né che senta smania per una gara sul numero dei figli;
bastano infatti quelli nati e non mi lamento; 558
ma perché, la cosa che conta di più, vivessimo bene,
e non nell'indigenza, sapendo che
il povero ciascuno lo sfugge, e ne sta fuori dai piedi pure l'amico;
e per allevare i figli in maniera degna della mia casata,
e, avendo generato fratelli ai figli nati da te,
li ponessi nella medesima condizione, e avendo stretto insieme la stirpe,
fossi felice: tu infatti che bisogno hai di figli?
Mi giova dare vantaggi con i figli futuri
a quelli viventi. Ho forse fatto calcoli sbagliati? (vv. 547-567).

In maniera analoga a Giasone si comporta un altro giovane Carlo Grandet quando scrive a sua cugina Eugenia che lo aveva atteso per sette anni, amandolo, dopo che si erano giurati amore eterno:"L'amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo…Oggi io posseggo ottantamila lire di rendita. Questo denaro mi consente di unirmi alla famiglia d'Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia cara cugina, ch'io non amo affatto la signorina d'Aubrion; ma, unendomi a lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in avvenire incalcolabili"9.

Ma torniamo ai vecchi mal vissuti di Aristotele: sono impudichi in quanto incuranti del bello, ( Retorica, 1390 a); sono loquaci in quanto immersi nei ricordi dei quali vogliono parlare. Vivono più secondo il calcolo che secondo il carattere (kai; ma`llon zw`si kata; logismo;n h] kata; to; h\qo~). Il calcolo, naturalmente dell’utile (oJ me;n ga;r logismo;~ tou` sumfevronto~).
Al contrario dei giovani, questi vecchiacci compiono ingiustizia per cattiveria.
Provano compassione non per filantropia, come i giovani, ma per debolezza (di j ajsqevneian). Insomma le stesse persone, passando dalla giovinezza alla vecchiaia rovesciano il loro carattere, o forse non ne hanno mai avuto uno proprio. Al filosofo non viene in mente che i vecchi, come i giovani non sono tutti uguali. Aristotele sta elencando dei luoghi comuni suggeriti del senso comune, spesso più reazionario che buono.
Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”10.
I vecchi, al contrario dei giovani non sono spiritosi e non amano il riso (oujk eujtravpeloi oujde; filogevloioi ). La loro natura infatti è incline a lamentarsi.

Bodei e Machiavelli
Torniamo a Bodei che procede (pp.8-9) citando il proemio del secondo libro dei Discorsi di Machiavelli.
Il Fiorentino si domanda quando sia ragionevole celebrare il passato e biasimare il presente.
Per quanto riguarda le epoche storiche, l’autore ritiene che “chi nasce in Italia e in Grecia (…) ha ragione di biasimare i tempi suoi e laudare gli altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno meravigliosi, in questi non è alcuna cosa che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio, dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia, ma sono maculati d’ogni genere di bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono pro tribunali, comandano a ciascuno e vogliono essere adorati”
Ma per quanto concerne le età della vita il giudizio è diverso.
Come ha acutamente osservato Machiavelli nei Discorsi, il giudizio sul passato si modifica assieme a noi, varia con il variare dei nostri appetiti e con il dipanarsi della nostra esperienza. Lo dimostra l’esempio dei vecchi e di tutti i “ partigiani” delle cose passate, abituati a “laudare” il tempo che fu e a “biasimare” il presente”. Il loro atteggiamento, aggiunge Machiavelli, sarebbe giustificabile solo se i vecchi conservassero le medesime passioni e i medesimi interessi della loro giovinezza” (Generazioni, p. 10)
Bodei procede citando alcune righe di questo proemio, poi ricorda Il principe: “”In epoche normali e pacifiche, l’”uomo rispettivo”, ossia prudente e maturo di giudizio e di età, può riuscire felicemente a governare le sue differenti situazioni. Ma, in periodi travagliati o di veloce mutamento, ha invece più successo l’ “impetuoso”, il giovane, che è per natura aperto al nuovo, provvisto di maggiore ardimento e di minore rispetto per il passato e per l’esistente. Di qui la celebre conclusione di Machiavelli: “Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarlaE si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano”11 (Generazioni, p. 11). Per oggi mi fermo qui ma proseguirò perché, mentre invecchio non male, leggo Remo Bodei imparando molte cose.

giovanni ghiselli 

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1 A Lear tentato dalla morte Gloucester dice: “gli uomini devono sopportare/l’uscita di qui come la loro entrata./L’esser maturi è tutto (ripeness is all)” W. Shakespeare, King Lear, V, II, vv. 9-11).
2 Composta tra il 18 e il 13 a. C.
3 1599-1600.
4 Dante, Inferno, VII, 61.
5 La forza del carattere, p. 27.
6 Secondo Platone l’ejpiqumhtikovn è l' elemento appetitivo, la parte dell’anima più grossa e la più insaziabile di ricchezze. Lo qumoeidev" l'elemento irascibile deve essere alleato con il logistikovn, la componente razionale, nel dirigere ejpiqumhtikovn (Repubblica, 441e).
7 Aristotelo lo attribuisce a Chilone spartano, uno dei Sette Sapienti vissuti nel sesto secolo a. C. Chilone fu eforo a Sparta intorno al 560 a. C.
8 Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor . (Ovidio, Amores, 2, 20, 36)
E' questo il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue. Tale locus ha un' ampia presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di noi. Teocrito nel VI idillio paragona Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
9 H. d. Balzac, Eugenia Grandet (del 1833), pp. 158-159.
10 G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.
11 Il principe, XXV.

“il Buon Esempio”. Conferenza a Pesaro

https://fb.me/e/3Gq8ncOTM Venerdì 26 aprile alle ore 19:00 nella Galleria degli Specchi dell’ALEXANDER MUSEUM PALACE HOTEL di Pesaro seconda...