sabato 19 aprile 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Diciassettesimo capitolo. Quinta parte



Il ritorno a Bologna. Il laccio tagliato. L’armonia invisibile è più forte della visibile. La morte del bambino. Il giro ciclistico a Monghidoro. 

L'auto aveva il muso rivolto a Pesaro dove mi aspettavano la mamma, la sorella, le zie, ma non mi sentivo di andare là; anche Bologna però, la casa afosa,  piena zeppa di libri, il letto sfatto, la cucina sconvolta, mi attiravano poco; d'altra parte che potevo fare? Rimanere lì tutta la notte? Andare a Moena, o a Debrecen?
Sentivo il fremito cupo del mare.
"Ma sì, torno a Bologna – pensai - dove, almeno, per due giorni non devo vedere nessuno. Sabato e Domenica posso rimanere steso nel grande letto e accarezzare i ricordi delle sante libidini antiche. No, meglio di no. Sarebbe una posa, nemmeno priva di pericoli. Questa notte dormo, se ci riesco, e domani mattina andrò a sfogare l'angoscia con la bicicletta su una grande salita".
Appena arrivato, entrai in cucina, e, con un coltello ben affilato tagliai il laccio di cuoio, simbolo della nostra unione, del patto di fedeltà, del vincolo amoroso che Ifigenia mi aveva legato intorno al collo, esattamente due anni prima, all'inizio dell'estate del 1979, facendomi promettere che non l'avrei sciolto mai. L'avevo giurato.
Da chiaro, pulito, leggero, era diventato scuro, sporco, pesante per gli umori cattivi della mia pelle, per il contagio del mare e dell'aria che diventavano sempre più sporchi. Lurido era, come il nostro rapporto che poco prima aveva avuto il suo esito predestinato, ossia naturale e presofferto fin da quando Ifigenia, già impegnata con me, dava il suo indirizzo a chiunque la fermasse per strada. Perciò il dolore mio, pur immenso, non era insopportabile, né immedicabile, e nemmeno per un momento pensai di ammazzarmi. Era avvenuto soltanto il necessario e il naturale.
Potevo essere più buono e generoso, ma non più acuto e chiaroveggente. Non avevo voluto né avrei potuto cambiare quella donna, predestinata dal suo carattere a finire così. C'è una logica ferrea nelle cose, c'è una giustizia che si impara a conoscere con gli anni rivelatori. C'è un'armonia invisibile più forte della disarmonia apparente[1] . Sono fiero e felice di avere imparato a vedere tale ordine; scrivo anche per aiutare chi mi legge a interpretare bene i geroglifici, la sacra scrittura del Fato che poi è la Mente dell'universo.
Nel mio caso, infinitesimale ma tipico, quando i fatti mi si volgono contro e spunta l'angoscia, capisco che c'è una causa, che questa dipende da  un  difetto, un errore o un delitto mio; allora ci penso, trovo lo sbaglio, lo correggo, lo espio: ossia lo capisco e me ne libero; solo quando ho compiuto questi atti, intellettuali e morali, mi sento bene, e i fatti mi diventano amici. O piuttosto sono io che simpatizzo con la ragione e la realtà delle cose e procedo nella direzione retta e voluta da Dio cui obbedisco sentendomi libero.
Ad temporum  ordinem redeo[2] .

Dopo avere tagliato il laccio, accesi il televisore. Per Alfredo non c'erano più speranze. "Muore-  pensai - come noi due" poi andai a letto.
Erano circa le tre. Non potevo dormire. Goccia, invece del sonno, davanti al cuore la pena che ricorda il male[3]. Quello inflitto e quello subito. Ogni tanto mi alzavo, accendevo il televisore, vedevo che non c'era nulla di nuovo, lo spegnevo e tornavo a letto. Il bambino moriva proprio.
Alle sei rinunciai a dormire e mi vestii da ciclista. Pensai che da ragazzo sognavo di afferrare la gloria con la bicicletta. Prima di uscire, diedi un'ultima occhiata alla televisione: Alfredo non dava più segni di vita, ma lo spettacolo offerto dalla morte sua, continuava.
Scesi nel garage a prendere la bicicletta da corsa: Ifigenia o no, non dovevo smettere di fare lo sport. Cominciai a pedalare in direzione del Monte delle Formiche. Questo però mi ricordava
troppo il tempo  passato con lei. Non volevo sdilinquirmi con i rimpianti. Sicché cambiai strada: dalla valle di Zena passai sulla Futa e procedetti fino a Monghidoro. Mi fermai davanti alla chiesa e pregai per la mia disgraziata creatura: che tutto le andasse come desiderava e fosse felice. Per me auspicai che il dolore non mi togliesse il senno e la volontà di vivere con forza, ma li facesse crescere attraverso la comprensione.

giovanni ghiselli


[1] Cfr. Eraclito: "aJrmonivh ajfanh;" fanerh'" kreivsswn", l'armonia invisibile è più forte della visibile.
[2] Torno alla sequenza cronologica.
[3] Cfr. Eschilo, Agamennone 179-180: “stavzei dj ajnq j u{pnou pro; kardiva~-mnhsiphvmwn povno~.

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