venerdì 4 aprile 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Diciassettesimo capitolo. Seconda parte

Ifigenia  si precipita nella sala buia. L'uscita dal cancello di ferro del Grand Hotel. La seduta sulla panchina di ferro.

Appena saliti i gradini, la vidi di spalle: stava correndo verso una porta-finestra che si apre in una grande sala da dove usciva una luce fioca, appena visibile sul pavimento al quale aderiva come vi fosse stata verniciata sopra. 
"Adhaesit pavimento anima mea"[1] pensai.
La seguii senza chiamarla poiché non era  vicina e andava di fretta. Era evidente che aveva qualcosa da fare. Entrai nella sala semibuia, gremita di persone che osservavano delle diapositive commentate da un tale, non uno famoso.
Nella mezza oscurità e nel fumo di quello stanzone pieno di gente sudata, riuscii a scorgere la maglia arancione di Ifigenia che, con la schiena piegata, bisbigliava qualcosa nell'orecchio di una ragazza seduta; mi avvicinai e la guardai aspettando che mi notasse e dicesse qualcosa. Si voltò, mi rivolse uno sguardo poco cordiale, quasi indispettito, poi si rigirò e riprese a parlare nell'orecchio dell'altra.
"Aspettiamo" pensai.
Quando ebbe finito, raddrizzò la schiena, mi si accostò con volto cupo e bisbigliò: "Usciamo di qui".
L'aria notturna era umida e calda. Ifigenia aveva un'espressione torva nel volto scuro semicoperto dalle chiome nere, nere come nere al mondo sono soltanto le bare. Ripensai a quando mi correva incontro nei tetri corridoi del Binghetti, le mattine dell'autunno nevoso del '78, con il volto raggiante di gioia, illuminando tutto l'ambiente. E mi si strinse il cuore.
Comunque dissi: "Ciao" le feci un sorriso e le presi una mano. Volevo significarle che non le avrei rinfacciato il ritardo; che, se aveva avuto da fare fino a mezzanotte e mezzo, capivo, e non ce l'avevo con lei. La paura di perderla mi aveva reso conciliante. Aspettavo, una volta fuori dalla sala oscura e affollata, che mi baciasse con effusione di affetto, come faceva sempre quando ci incontravamo anche dopo una separazione brevissima. Invece lei, senza cambiare l'espressione dura che aveva là dentro, come fummo sotto il cielo stellato, disse: "Gianni, ti devo parlare" e fece sgusciare la mano sua dalla mia. Poi soggiunse: "Ma non qui: usciamo da quest'albergo". Allora non potei più sperare che non fosse successo qualcosa di grave. Ma non feci ipotesi, poiché volevo sentirla raccontare. Scendemmo dalla terrazza, camminammo sulla ghiaia del giardino semibuio e uscimmo dal cancello ferrigno senza dire parola. Ifigenia si teneva alquanto discosta, immagino per non farsi toccare. Subito fuori, sulla destra, appoggiata al muro di cinta, c'è una panchina di ferro: ci sedemmo lì. Mi guardava in faccia: dovevo essere pallido, nonostante l'abbronzatura estiva.

Cominciò a parlare adagio, con calma apparente. "Gianni, oggi pomeriggio ho conosciuto l'attore famoso. Mi ha invitata a cena, in un night e in camera sua".
A questo punto fece una pausa. Doveva assaporarsi la scena. Non avrebbe avuto tante altre occasioni di lasciare, per un uomo famoso, un altro uomo che l'aveva amata con tutte le forze di un'anima appassionata assai e coltivata ad un tempo.
Mi difendevo come sono solito fare: con il ricordo delle letture più pertinenti allo strazio presente, e con la memoria delle mie donne migliori, più vive. Mi venne in mente una delle ultime frasi del misogino e suicida Pavese che mi aveva fornito una citazione ottima e funzionale per piacere alla Sarjantola una notte remota, di dieci anni prima[2]. Oltretutto anche lui fu lasciato una sera, in un albergo, da un'aspirante attrice, e per un attore oltretutto, famoso in quel tempo, all'inizio degli anni Cinquanta. Un tale che adesso nessuno ricorda più: "La cosa più segretamente temuta, accade sempre"[3].
"Sì, ma io non mi ammazzo. Cercherò una donna vera. Tu sei un essere indefinibile. Io non sono misogino, anzi. Delle femmine umane ho molta stima e rispetto. Non c'è altro più atroce e più cane di te[4] . Tu sai commettere azioni oltremodo dolorose,  ma io per averti perso, non perderò la vita" pensai. Poi, a bassa voce, dissi: "Raccontami com'è andata, se vuoi".
Volevo trarre il massimo di conoscenza da quel dolore.
"Non ho fatto l'amore; non l'ho nemmeno baciato, ma vengo da camera sua. Se vuoi, ti racconto come ci sono arrivata".
"Sì, però[5] ora muoviamoci: qui siamo troppo vicini all'albergo: passa gente che ti conosce, che dovresti salutare interrompendoti".
La storia attesa e presofferta da due anni e mezzo mi interessava parecchio. Sapevo che ne avrei tratto non solo un grande, eterno dolore, ma anche un'occasione rara per conoscere meglio me stesso, e del materiale prezioso per questo romanzo. Andammo nella via principale. Era deserta. Ci sedemmo sul gradino di un'aiuola, quasi per terra. Poi Ifigenia cominciò a raccontare.

giovanni ghiselli

P. S.
Questo blog è arrivato a 140701 lettori


[1] L'anima mia è rimasta attaccata alla terra. Cfr Dante, Purgatorio, XIX, v. 73.
[2] Cfr. La storia di Elena, in questo blog. E’ molto bella.
[3] Cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere, 18 agosto, 1950.
[4] Cfr. Omero, Odissea, XI, v. 427.
[5] Mi si perdoni lo iato.

1 commento:

  1. Il tradimento è un tema affascinante, a tutti è capitato ,ma solo pochi hanno il coraggio di raccontare.Credo che si tradisca per troncare le storie finite o per chiudere periodi della propria vita.Comunque sia ,questa ragazza ha del patos ,ha il coraggio della sincerità in una cosa tanto delicata.A presto Gio

    RispondiElimina

Ifigenia CLX. L’ospedale di Debrecen. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

  Nei giorni seguenti, intorno al ferragosto,   vissi alcune ore di buona speranza: una serie intermittente di minuti nei quali immagi...