martedì 1 aprile 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Diciassettesimo capitolo



La notte di Riccione. La televisione nel bar Italia. La tragedia di Vermicino. Gli orribili segni. 

Arrivai a Riccione verso le undici e quaranta: ero dunque in anticipo di venti minuti. Per non farmi trovare tra i piedi prima dell'ora convenuta, entrai nel locale situato di fronte al cancello d'ingresso del vecchio albergo. Bar Italia  si chiama. Ordinai un caffé. Davanti al televisore c'erano tante persone, sedute e in piedi; tutte in silenzio. Mi avvicinai, per vedere e sentire: si trattava ancora del bambino caduto nel pozzo. Non l'avevano tirato fuori; anzi era scivolato  più giù, e la situazione era diventata, critica assai, quasi disperata, sebbene la creatura fosse ancora presente e viva: piangeva e parlava[1]. Chiedeva aiuto alla mamma. Si chiamava Alfredo. La madre, pur piangendo anche lei, cercava di incoraggiarlo: "Stanno arrivando; non addormentarti, altrimenti non possono tirarti su!"
Il giornalista diceva che il bambino si trovava incastrato a trentasei metri sotto terra. Mi chiedevo come potesse accadere che intere squadre di uomini attrezzati e specializzati in opere di salvataggio, non riuscissero a estrarre da un cunicolo, pur stretto e profondo, una creatura razionale che vi era caduta senza perdere coscienza. C'era una folla intorno al pozzo e alla televisione; c'era il Presidente della Repubblica, il vecchio, ottimista Pertini che cercava di incoraggiare i pompieri; c'erano i genitori di Alfredo, impotenti; c'erano alcuni volontari che si offrivano di scendere nella cisterna; e c'erano tanti curiosi che probabilmente creavano impiccio e causavano ritardi.
Fatto sta che a mezzanotte meno un quarto non l'avevano tratto in salvo, che il piccolo stava perdendo le forze, e che poteva morire.
Pregai Dio perché lo facesse vivere. Ma non c'erano segni favorevoli alla sopravvivenza. Seguivo tale collisione tragica: lo scontro fra il destino e la volontà umana per la vita di un bimbo. Qualche ora prima sembrava che avrebbero vinto gli uomini, ma alla fine della giornata si capiva che la sopravvivenza di Alfredo non era nei disegni misteriosi del Fato. Forse l'armonia del mondo richiedeva quella morte.

Rimasi là fino a mezzanotte meno cinque, in attesa di affrontare una lotta dolorosa e disperata, un'altra morte che mi riguardava più da vicino, poiché significava la fine di un'era della mia vita. Necessaria anche questa. A mezzanotte meno tre minuti entrai nel giardino del Grand Hotel. Sedetti su una sedia di ferro bucherellata e verniciata di bianco, situata sulla terrazza dell'albergo, tre gradini sopra la ghiaia. Andavano e venivano alcune persone tra cui diversi conoscenti di Ifigenia. Mi guardavo attorno, aspettando la mezzanotte: mancava pochissimo. Quando batté l'ora, la mia inquietudine diventò dolorosa. Lei doveva già essere lì nei paraggi. Mi aspettavo che uno dei suoi compagni di corso venisse a portarmi notizie, o un messaggio; ma quelli giravano al largo e sembravano voler evitare il mio sguardo interrogativo.
"Orribile segno" pensai. Segno orrendo ma chiaro, annuncio di un destino deciso, inesorabile. Mi sentivo, e mi sentivo considerato, in una situazione pietosa: tragica e ridicola nello stesso tempo.
A mezzanotte e dieci mi alzai e andai alla ricezione del piccolo albergo dove la sera prima Ifigenia aveva preso una camera. Era situato di fianco al bar Italia. Il portiere disse che la signorina aveva già lasciato la stanza. Uscii e rientrai nel bar. Bevvi un altro caffè. Era mezzanotte e un quarto. Alfredo continuava a scivolare nel pozzo: sgusciava inesorabilmente da tutte le mani tese in un gesto di aiuto o di preghiera. Dio non voleva, o non poteva farlo vivere qui sulla terra.
"La sua morte terrena forse serve all'ordine dell'Universo".
In seguito a tale pensiero mi venne in mente che anche la caduta della mia disgraziata ragazza e del nostro rapporto, poteva essere utile a qualche cosa di buono.
"Dove sta precipitando la mia compagna, in quale caos, affinché il cosmo si salvi? - mi domandavo - Perché a mezzanotte e diciotto minuti non si è fatta ancora vedere?"
Notai che in mezzo alla folla accalcata davanti allo spettacolo di quell'agonia, c'era la moglie del regista di Ifigenia, mentre lui stesso non si vedeva.
"Che sia steso nudo e sudato in un letto sfatto accanto alla donna mia dentro una camera di quel mastodontico hotel, mentre la sua donna  e io osserviamo la morte di questo bambino?" mi chiesi.
Oramai ero quasi sicuro che stava accadendo qualche cosa di grave, di irrimediabile: anche la mia compagna doveva essere caduta in qualche orribile trabocchetto dal quale non si sarebbe sollevata mai più.
"Dio non permetterlo! - pregavo - Trattieni quelle due creature dal baratro".
Ancora non era impossibile che si salvassero. Già altre volte avevo avuto una sensazione, un presentimento del genere; poi avevo constatato che si trattava di un falso allarme fatto suonare dalla mia apprensività eccessiva, dal dolore smisurato che provo quando una persona che mi preme ritarda, anche non gravemente.
In fondo la mezz'ora dopo la mezzanotte ancora non era suonata.
"Vedremo - pensai - torniamo sulla terrazza del Grand Hotel.
Terrazza del Grand Hotel, terrazza dell'Aranybika. Anche là, nel grand hotel di Debrecen c'erano sedie bianche, bucherellate. La Sarjantola, Kaisa e Katina hanno tradito i mariti con me. Päivi l'ho messa in cinta di una bambina che non abbiamo lasciato nascere. Nemesi dunque, nemesi e anche catarsi, speriamo".

Giovanni Ghiselli


[1] Cfr. S. Beckett, Finale di partita: “ piange./Dunque è vivo”.

1 commento:

  1. Bravissimo Gianni,sei veramente un maestro della parola..in questo capitolo hai saputo creare una tela di ragno che avvince e fa trattenere il fiato. Il lettore è veramente sospeso e trascinato nella storia. Anche la conclusione (che in realtà è un inizio) è avvincente. Con ammirazione (e anche un poco di sana invidia ) ,con affetto Gio

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