mercoledì 27 febbraio 2013

La poesia epica come antecedente della storia


Un breve tratto della II lezione del mio seminario. martedì 12 febbraio. Aula Guglielmi 17-19.
La poesia epica come antecedente della storia. L’Odissea di Omero e le varie riapparizioni di Ulisse. Lettura dei primi versi del poema omerico.
Il poema di Apollonio Rodio. Virgilio e Ovidio.

Aspetti dell'uomo Ulisse.
“Ulisse è uno di quei personaggi che dalle profondità del tempo giungono fino a noi, perché è un personaggio chiave… E’ un tipo incredibilmente furbo. Possiede una qualità che i Greci chiamano métis, astuzia. Un’astuzia che gli consente di cavarsela tutte le volte che sembra ormai perduto. Ulisse ha tutto contro, combatte con forze più grandi di lui, eppure trova il modo, con astuzia, scaltrezza, bugie - dissimulando il proprio pensiero - di inventarsi qualcosa e avere, infine, la meglio”[1].
Nel I canto dell'Iliade Odisseo è già l'uomo che, molto dotato di intelligenza[2] riceve l'incarico di ricondurre Criseide al padre per ristabilire la pace tra il sacerdote di Apollo e Agamennone. Nel secondo canto del poema più antico Odisseo, simile a Zeus per intelligenza[3], riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell'esercito acheo da Troia con blande parole[4].
La dea per rivolgersi all'eroe utilizza un altro epiteto formulare[5], il quale lo caratterizza come uomo intelligente e capace. Capace di che cosa? Intanto notiamo questa capacità di ristabilire una situazione compromessa; infatti nel II canto dell’Iliade Odisseo riesce a fermare l'esercito in fuga alternando le blande parole con le ingiurie e facendo cadere lo scettro-bastone sul petto e le spalle dell'uomo deforme[6], l’odiosissimo[7] Tersite dalla lingua confusa[8].
“Egli lo spoglierà completamente e lo scaccerà a forza di bastonate dal posto in cui è riunito l’esercito (ajgorh'qen[9]). Non vi viene subito in mente il pharmakos o capro espiatorio, l’uomo più brutto della comunità, che veniva trasformato in vittima espiatoria e scacciato dalla città?”[10].

Odisseo dunque è un uomo stabilizzante e ristabilizzante.
Quindi egli parla all'esercito, non senza essere stato adornato con altri epiteti[11]; infine l’Itacese viene designato con una qualificazione più specificamente odissiaca[12].
Agli epiteti esornativi non bisogna dare troppa importanza poiché spesso sono stereotipati, e la loro presenza è imposta dalla necessità metrica che "nella poesia omerica è fattore determinante anche per la scelta delle espressioni e degli epiteti"[13].
Invece sono caratterizzanti le parole che Odisseo rivolge all'assemblea dopo averla ricompattata. Egli accusa i soldati di essere come bambini piccoli o come donne vedove[14] mettendo in luce una distinzione tra l'uomo compiuto[15], egli stesso, capace di riflettere, parlare, agire, e l'uomo bambino o l'uomo-comare querula, creature dalla ragione meno sviluppata. La maturità riflessiva e intelligente, indipendente dall'istinto del gregge è un aspetto distintivo dell'uomo Odisseo. E' proprio questa sua indipendenza a renderlo ajnhvr,  latinamente vir , capace appunto di virtù la quale, afferma Nietzsche, “è il vero e proprio vetitum entro ogni legislatura di gregge”[16]. Di tale virtù fa parte la capacità di opporre resistenza ai mali e alle minacce di cui è piena la vita, di sopportale. Un'esortazione che Ulisse rivolge più volte a se stesso e ai suoi compagni di avventura a cominciare da questo discorso dell'Iliade dove esorta i soldati dicendo: “tenete duro cari e aspettate del tempo”[17].

Nell'Iliade si trova anche qualche indicazione sull'aspetto fisico di Odisseo. Nella lezione precedente avevo ricordato che Ulisse non era bello (non formosus erat), ma sapeva parlare (sed erat facundus Ulixes) e, pur non essendo un Adone, fece torcere d’amore le dee dell’acqua, Circe e Calipso (et tamen aequoreas torsit amore deas)[18] . Vediamo dunque se e quanto era poco bello.
Nel terzo canto dell’Iliade Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee;  uno gli parve più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi[19].
La maliarda rispose che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di fitti pensieri (v. 202). Quindi Antenore aggiunge che anche lui l’aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle[20].
Ulisse dunque, levatosi in piedi, se stava zitto, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d'inverno (v. 222),  e allora non si provava più meraviglia per l'aspetto.
Plinio il Giovane dà una spiegazione di questo stile oratorio affermando di preferire fra tutte “illam orationem similem nivibus hibernis, id est, crebram et assiduam, sed et largam, postremo divinam et caelestem” (Ep. I, 20), quell'eloquenza simile alle nevi invernali, cioè densa e serrata, ma anche copiosa, dopo tutto divina e scesa dal cielo.
Leopardi che era difettoso nel corpo, e lo sopravvalutava, non ammette la bruttezza nell’eroe epico: “La perfettibilità dell’uomo, come altrove ho detto, non ha che fare col corpo. E con tutto ciò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini, né è opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un eroe del poema ec. (o si dee supporre, perché ogni menoma imperfezione corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora perfetto nello spirito. Questa circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore; ma fare espressamente un protagonista brutto è lo stesso che rinunziare a qualsivoglia effetto”[21].

Ma, abbiamo ribadito, la bellezza di Odisseo sta nelle sue parole. Ulisse è un artista della parola.


Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368).
“Il mondo sopra il quale Ulisse regna come un sovrano onnipotente è quello del racconto… Nessuno conosce, quanto lui, l’arte di appropriarsi le più diverse esperienze: nessuno ha una memoria così incessante, e una mente equivoca come il destino, insolubile come i nodi di Circe, colorata come Ermes, multiforme come Proteo, menzognera come quella dei ciarlatani di strada. Sia Agamennone sia le Sirene lo chiamano “colui che conosce molte storie”[22]. Così Ulisse diventò il simbolo dell’arte di raccontare. Tutti i romanzieri sono andati alla sua scuola, cercando di possedere i suoi doni… Esiodo affermava che le Muse sanno “dire molte menzogne simili al vero”, ma sanno anche, quando vogliono, “cantare cose vere”… Nell’Odissea, la teoria del racconto, è, per questo aspetto, identica alla teoria proclamata da Esiodo. Ci sono racconti falsi, come le storie che, giunto a Itaca, Ulisse narra a Eumeo, ai Proci, a Penelope, per ingannare amici e nemici e divertire sé stesso. Ma ci sono anche quelli veri”[23].
Ulisse dunque non è bello ma è l'eroe e l'esteta della parola.
Sotto questo aspetto egli prefigura il capo della povli" democratica nella quale la forza della parola sarà decisiva per il successo dell'uomo politico. “Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio - di cui i Greci fecero una divinità: Peitho, la forza di persuasione - ricorda l'efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai “detti” del re quando egli pronuncia sovranamente la themis; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l'argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa la scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario... Tra la politica e il logos c'è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L'arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio"[24].
Sulla scorta di Esiodo aggiungerei che anche l'arte erotica e diverse altre consistono in buona parte nel maneggiare il linguaggio.   

La bellezza e la forza della parola costituiscono la potenza decisiva per un greco.
Il principe della retorica del IV secolo, Isocrate, celebrerà la facoltà di parlare con queste parole: “mevgiston ga;r ejn ejlacivstw/, nou'" ajgaqo;" ejn ajnqrwvpou swvmati” (A Demonico, 40), un'entità grandissima in una cosa piccolissima, è una buona mente in un corpo umano[25].
In effetti “il padroneggiamento della parola vale qual segno della sovranità della mente”[26].
Odisseo del resto non è solo intelligente ma  anche coraggioso.
Ne un elogio in questo senso Diomede quando vuole scegliersi un compagno per entrare nel campo dei nemici, e, tra quanti si offrono, sceglie appunto l'Itacese il cui cuore è pronto e l'animo coraggioso[27] e per giunta è molto bravo a pensare[28] .

Non  luminosa però è la fama della sua schiettezza.
Nell'Ippia minore di Platone il sofista eponimo del dialogo sostiene che mentre Achille è veritiero e semplice (“ajlhqhvv" te kai; aJplou'"”, 365b) Odisseo è  invece “poluvtropov" te kai; yeudhv"”, versatile e menzognero.
Sono i luoghi comuni della letterarura successiva a Omero la quale contrappone spesso lo schietto Pelide al subdolo Odisseo: Achille nell’Ifigenia in Aulide chiarisce a Clitennestra che lo educò Chirone: “perché non imparasse gli usi degli uomini malvagi”[29].
Più avanti il figlio di Peleo riconosce tale capacità paideutica all'uomo piissimo che l'ha allevato dal quale: “ha imparato ad avere semplici i costumi”[30]. L’antitesi del semplice, onesto Achille in questa tragedia, e non solo, è Odisseo del quale Agamennone dice: “è molteplice per natura e sempre dalla parte della massa[31]. Cioè un demagogo. Oggi si direbbe un “populista””.
Nel dialogo Platonico Ippia riceve una confutazione da Socrate.
Il sofista ricava la distinzione tra i due capi achei dal IX libro dell'Iliade dove Fenice Aiace e Odisseo vanno in ambasceria da Achille che irato non combatteva ma faceva l'aedo, ossia cantava glorie di eroi accompagnandosi con la cetra (“fovrmiggi..a[eide kleva ajndrw'n", vv.186 e189). Dopo l'accoglienza cordiale, il cibo e la bevanda, Odisseo parlò ("Aiace - nota Jaeger - personifica piuttosto l'azione, Odisseo la parola”[32]) scongiurando Achille di tornare in battaglia e promettendogli donne mari e monti da parte di Agamennone. Ebbene Achille risponde che gli è odioso come le porte dell'Ade chi una cosa tiene nascosta e un'altra ne dice[33].
L' Ippia di Platone sostiene che non a caso Omero fa indirizzare queste parole a Odisseo.
Socrate risponde opponendosi a  questa opinione comune della schiettezza di Achille e affermando che il Pelide mente non meno di Odisseo, poiché ha detto all’Itacese che sarebbe partito[34], e invece ad Aiace che non si sarebbe mosso fino all’arrivo di Ettore davanti alla sua tenda[35]. Ippia sostiene che Achille non mente di proposito. Socrate invece afferma che Achille ha mentito deliberatamente a Odisseo per superarlo anche nell’arte del raggiro e aggiunge che coloro i quali danneggiano, gli altri, e commettono ingiustizia e mentono e ingannano ed errano volontariamente (eJkovnte~) [36] sono migliori di quelli che lo fanno involontariamente (a[konte~)[37]. Infatti chi fa del male volontariamente, se vuole fa del bene, chi lo fa involontariamente non sa fare altro. E’ molto peggio zoppicare per necessità che per gioco.
Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai sofisti.
Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.
E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, “l'odiator de' calamistri[38] e de' fuchi[39] e d'ogni ornamento ascitizio[40] e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).

La questione di Ulisse menzognero comunque esiste.
“Pindaro non amava il carattere di Ulisse. L'Aiace e il Filottete di Sofocle testimoniano che accanto all'ammirazione convenzionale per il grande eroe esisteva anche un'opinione meno favorevole. Anche l'Ippia minore di Platone esprime per bocca del sofista gli stessi dubbi sul carattere di Ulisse, ma Platone ci fa intendere che Ippia non fa che seguire, su questo punto, una tendenza generale... In ultima analisi questa disposizione verso Ulisse risale all'Iliade che lo mette a contrasto come poluvtropo" con lo schietto carattere di Achille. Anzi nell'Odissea (q 75[41]) si ritrova l'antica tradizione intorno a questo contrasto dei due grandi eroi nel canto di Demodoco sulla contesa di Ulisse e Achille"[42].
Vediamo alcune testimonianze decisamente contrarie a Odisseo
Nel Filottete di Sofocle, Neottolemo lamenta di essere stato espropriato dei suoi beni, ossia delle armi del padre dal peggiore di tutti, nato da malvagi[43], Odisseo .
Pindaro nell’Istmica IV denuncia l’oscurità del destino (v. 31), che fece cadere Aiace, puvrgo~[44] la torre, con gli artifici di chi valeva meno di lui, ma Omero gli ha reso onore tra gli uomini, all jOmhrov~ toi tetivmaken di j ajnqrwvpwn (v. 37).
Nella Nemea VIII il poeta tebano ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo. Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei”[45].
Nella parodo dell’Ecuba di Euripide, il coro delle prigioniere troiane presenta Odisseo come «lo scaltro (oJ poikilovfrwn) furfante dal dolce eloquio, adulatore del popolo» (vv. 131-132) che convince l'esercito a mettere a morte Polissena. In questa tragedia il figlio di Laerte è un freddo politico per cui vale solo la ragion di stato che calpesta tante vite innocenti. Nel primo episodio la vecchia regina esautorata, la madre dolente, scaglia un’invettiva contro la genìa dannata dei demagoghi: «Razza di ingrati è la vostra, di quanti cercate il favore popolare: non voglio che vi facciate conoscere da me: non vi curate di danneggiare gli amici, pur di dire qualche cosa per piacere alla folla. Ma quale trovata pensano di avere fatto con il votare la morte di questa ragazza? Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?» (Ecuba, vv. 254-261). Poco più avanti Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: “mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li"" (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti.
Nel dramma satiresco Ciclope, di Euripide, quando Odisseo entra in scena definendosi Itacese, signore dei Cefalleni, Sileno replica: “oi\d j a[ndra, krovtalon drimuv, Sisuvfou gevno~” (vv. 103-104), conosco quel tipo, un sonaglio petulante, razza di Sisifo[46].
Nell'Eneide Ulisse è malfamato: "sic notus Ulixes?" (II, 44) non conoscete Ulisse? domanda Laocoonte, e più avanti Sinone, per convincere i Troiani, ne denuncia la trama criminale contro Palamede morto "invidia pellacis Ulixi" (II, 90) per l'invidia del perfido Ulisse e lo definisce "scelerum inventor" (II, 164) ideatore di crimini. Durante il viaggio dei Troiani profughi verso l’Italia, racconta Enea: “Effugimus scopulos Itacae, Laërtia regna, et terram altricem saevi exsecramur Ulixi ”[47], evitiamo gli scogli di Itaca, regno di Laerte, e malediciamo la terra del crudele Ulisse. Nel VI canto Deifobo raccontando la sua fine definisce Ulisse, l’Eolide[48], hortator scelerum (v. 529), istigatore di scelleratezze.
Nelle Troiane di Seneca, Andromaca annuncia l'arrivo di Ulisse con queste parole: “Adest Ulixes, et quidem dubio gradu vultuque:/nectit pectore astus callidos" (vv. 521-522), ecco qua Ulisse e certamente con un incedere e un'espressione equivoca: intreccia nel petto astuzie scaltre. Più avanti la vedova di Ettore lo apostrofa in questo modo: "O machinator fraudis et scelerum artifex,/virtute cuius bellicā nemo occĭdit,/dolis et astu maleficae mentis iacent/etiam Pelasgi, vatem et insontes deos praetendis? Hoc est pectoris facinus tui" (vv. 750-754) o tessitore di frodi e artefice di inganni, per il cui valore in battaglia nessuno è morto, mentre per i tuoi inganni e l'astuzia della mente malefica giacciono morti anche i Pelasgi, ora metti avanti l'indovino e gli dèi incolpevoli? Questo è un delitto dell'animo tuo. Ulisse vuole la morte del piccolo Astianatte pensando ai lutti che il bambino se divenisse grande procurerebbe alle madri greche. Come quelli che nel 2004 approvavano i bombardamenti sui bambini iracheni.
Nella I delle Heroides  di Ovidio, Penelope scrive a Ulisse, qualificandolo come ferreus (v. 58), e immaginando che peregrino captus amore (76), sia preso dall’amore  per una straniera cui “Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx,/quae tantum lanas non sinat esse rudes” (77-78), forse racconti quanto sia rozza tua moglie, che sa soltanto cardare la lana.
“Al Dante che voleva narrare di Ulisse, si presentavano tre tradizioni mitiche e letterarie di grande autorevolezza. Nella prima, l’eroe greco è un imbroglione, un ingannatore, un inventore di storie false, un oratore illusionista. Tale appare a Virgilio nell’Eneide, a Ovidio nelle Metamorfosi, a Stazio nell’Achilleide, e a tutta una serie di scrittori posteriori come Ditti, Benoît de Sainte Maure, Guido delle Colonne e così via. E non c’è alcun dubbio sul fatto che Dante condanni Ulisse all’inferno per le sue frodi: come chiarisce Virgilio nella sua presentazione della fiamma cornuta, per “l’agguato del caval”, e per gli stratagemmi con cui riuscì, assieme a Diomede, a strappare Achille a Deidamia e a rubare il Palladio… D’altro canto, le ali della fazione avversa, come i remi di Ulisse, sorvolano la proibizione mitico-ontologica (antica e medievale) delle Colonne d’Ercole e, in spirito ultra-umanistico e romantico, usano una seconda tradizione. In essa, Ulisse rappresenta il modello della virtù e della saggezza, il vincitore del vizio, il nobile ricercatore della conoscenza: in una parola, l’ideale dell’uomo ‘classico’… Cicerone, Orazio, Seneca, ma anche Fulgenzio e, nel Medioevo stesso, Bernardo Silvestre e Giovanni del Virgilio, contemporaneo e amico di Dante, parlano di Ulisse in questi termini”[49].
Dante apre il Convivio con la memorabile frase aristotelica, “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, e Ulisse è il prototipo dell’uomo affamato di conoscenza. Egli rischia la vita molte volte per il desiderio di imparare. Le Sirene per attirarlo gli dicono che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose[50] Dante-personaggio della Commedia si sente  attratto verso Ulisse da un desiderio intensissimo (“vedi che del desio ver’ lei mi piego”, dice a Virgilio); eppure il poeta fiorentino avverte il pericolo estremo che Ulisse rappresenta per lui
“Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio:
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi”[51]
Infine, Dante-poeta fa affondare il suo eroe da Dio; Dante il giudice lo condanna all’Inferno; e perfino dal Paradiso il personaggio-autore ribadirà che il “varco” di Ulisse è stato “folle”.
Dante è uno di quei poeti che, come Sofocle tra i Greci, considerano limitata l’intelligenza umana e colpevole l’uomo che non tiene imbrigliata la propria. Il che non toglie che entrambi sappiano trarre bellezza dalle parole.

Nell’Odissea invece il protagonista eponimo è un uomo la cui intelligenza è favorevole alla vita. Magris lo considera l’archetipo dell’uomo occidentale: “L'io occidentale è simboleggiato da Odisseo, che costruisce faticosamente la propria identità ed il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando alle sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura"[52]. L'inversione di questo processo cui tende Nietzsche, continua Magris, è "lo scioglimento dionisiaco dell'io".
Tale tendenza alla “dispersione dionisiaca dell'io nel fluire sensibile” veramente è ben più antica di Nietzsche, però è condivisibile anzi è ineccepibile la collocazione dell'uomo Odisseo nella categoria dell'apollineo: egli è l'uomo che si individua nella conoscenza e nel dolore, quindi difende e mantiene il principium individuationis davanti a tutte le lusinghe e contro tutti gli assalti. L'Odissea  è dunque "hjqikhv", fatta di caratteri, come la definiva già Aristotele[53], oltre che complessa per via dei numerosi riconoscimenti, a partire dall'ajnagnwvrisi" che di se stesso compie Odisseo. E attraverso la sua lettura tutti noi possiamo riconoscere qualche cosa di quello che siamo, arrivando alla scienza suprema, quella prescritta dall'oracolo delfico. "Conosci te stesso" è tutta la scienza. Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l'uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell'uomo"[54].

Giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it

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[1] J.Pierre Vernant, C’era una volta Ulisse, p.5.
[2] poluvmhti", vv. 311 e 440
[3] Dii; mh'tin ajtavlanton, v. 169
[4] ajganoi'" ejpevessin", v. 180
[5] polumhvcano~,  v. 173 ricco di risorse
[6] ai[scisto" ajnhvr, Iliade II 216
[7] e[cqisto~, Iliade II, 220.
[8] Iliade II, 246.
[9] Iliade II, 264 ndr
[10] G. Murray, Le origini dell’Epica greca, p. 269.
[11] di'o", v. 244, splendido, molto generico invero: attribuito in XIV, 3 dell'Odissea anche al porcaro il quale del resto ha un comportamento nobile,; poi ptolivporqo", v 278 distruttore di rocche, anche questo generico e attribuito pure, a maggior ragione, ad Ares Achille e Oileo
[12] eϋfronevwn, Iliade II, v. 283, assennato
[13]Cantarella-Scarpat, Breve introduzione a Omero, p. 151.
[14] w{" te ga;r  h] pai'de" nearoi; ch'raiv te gunai'ke", Iliade  II, v. 289
[15] l'a[ndra del primo verso dell'Odissea
[16] Scelta di frammenti postumi 1887-1888 , p. 324.
[17] tlh'te, fivloi, kai; meivnat j ejpi; crovnon (II, v. 299)
[18] S. Kierkegaard, Diario del seduttore, p. 75. La citazione è tratta da Ovidio, Ars Amatoria, II, 123-124.
[19] meivwn me;n kefalh'/  jAgamevmnono"  jAtreΐdao,/ eujruvtero" d&w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai (vv. 193-194)
[20] stavntwn me;n Menevlao" uJpeivrecen eujreva" w{mou", v. 210.
[21] Zibaldone, 1692.
[22] Poluvain j (XII, 184). Nel Satyricon Circe offre amore a Encolpio dicendo: “nec sine causa Polyaenon Circe amat: semper inter haec nomina magna fax surgit. sume ergo amplexum, si placet” (127, 7), non senza motivo Circe ama Polieno: sempre tra questi nomi guizza una grande fiamma. Prendimi dunque tra le braccia, se ti va. La donna vuole facilitare l'unione con l'espediente scaramantico del nomen omen. “Quando, infatti, Encolpio a Crotone prenderà il nome di Polieno e s'imbatterà in una matrona di nome Circe, diverrà inevitabile l'incontro fra lui e Circe sul terreno amoroso proprio perché così è accaduto al polyvainos Odisseo” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 356.). Ndr.
[23] P. Citati, La mente colorata, p. 163.
[24] J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, pp. 47-48.
[25] mevgiston ga;r ejn ejlacivstw/, nou'" ajgaqo;" ejn ajnqrwvpou swvmati" (A Demonico, 40)
[26] W. Jaeger, Paideia 1, p. 38.
[27] ou| pevri me;n provfrwn kradivh kai; qumo;" ajghvnwr", Iliade  X, v. 244
[28] perivoide noh'sai", v. 247.
[29] i{n j h[qh mh; mavqoi kakw'n brotw'n” (v. 709),
[30] ejgw; d  j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926-927)
[31] Poikivlo~ ajei; pevfuke tou' t j o[clou mevta” (v. 526)
[32] Padeia 1, p. 69.
[33] o{" c j e{teron me;n keuvqh/ ejni; fresivn, a[llo de; ei[ph/", Iliade IX, v. 313.
[34] Iliade IX, 682-683
[35] Iliade, IX, 650-655.
[36] Si pensi alla rivendicazione di Prometeo nei confronti della propria tasgressione: “eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai, (Prometeo incatenato, 266) “di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò”. Queste parole del Titano ribelle forniscono una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia per nobilitare "la concezione ariana" del peccato attivo: “La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita  al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica” F. Nietzsche. La nascita della tragedia, p. 69.
[37] Ippia  minore, 372 d
[38] Da calamistrum, “ferro per arricciare i capelli” (ndr).
[39] Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
[40] Da ascisco, “annetto” (ndr).
[41] Nell'VIII dell'Odissea Demodoco canta tra l'altro: “nei'ko" jOdussh'o" kai; Phleïvdew jAcilh'o"”, la lite tra Odisseo e Achille Pelide.
[42] W. Jaeger, Paideia  1, p. 61 n. 16.
[43] pro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n jOdusseuv~ (384)
[44] Cfr. Odissea, XI, 556.
[45] Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 221-225.
[46] Secondo una leggenda Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe avuto una tresca con Sisifo, famoso per i suoi inganni,  e da questa relazione sarebbe nato Odisseo
[47] Eneide III, 272-273
[48] “Qui, come annota Servio, si segue la leggenda secondo cui Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe giaciuto con Sisifo, figlio di Eolo, e “vasel d’ogni froda”, dal quale avrebbe avuto Odisseo” (E Paratore (a cura di), Virgilio, Eneide, vol. III, libri V-VI, p. 292)
[49] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 54.
[50] kai; pleivona eijdwv", Odissea,  XII, 188.
[51] Inferno,  XXVI, 19-22
[52] L'anello di Clarisse, p. 6.
[53] Poetica, 1459b.
[54] Nietzsche, Aurora, p. 40.

martedì 26 febbraio 2013

Chi ha perso le elezioni e chi le ha vinte




Il politicante umbraticus[1] ha perso le elezioni. Il ripetitore di luoghi comuni del politichese le ha perse. Il professore esoso e pedante, seduto freddo nell’ombra fredda, il bocconiano ancora meno lucido dei suoi stupidi scribacchiatori che gli suggeriscono gesti canini di cui si vergognerebbe un adolescente non stupido.
Ancora: ha perso le elezioni l’imbecille ortodosso che parlava come un politico “deve” parlare, in quanto rappresenta senza essere sfiorato dal dubbio un partito che esige il pensiero unico e schiaccia le teste.

Quelli che dicono di averci salvati dal baratro hanno di fatto scavato una buca melmosa dove sono caduti loro. Ora vedo gente fangosa in quel pantano. Hanno perso per servilismo verso i poteri forti comportandosi come Eracle in Lidia, il quale asservito alla regina Onfale, cardava la lana avvolto in vesti color zafferano e ogni tanto veniva colpito dal sandalo della donna. Onfale era una matriarca lidia, ma mutatis mutandis, potremmo mettere al posto suo la bionda e callipigia Kanzler tedesca.

Hanno perso quelli che non hanno avuto rispetto per la nostra sovranità nazionale, ossia per i loro concittadini, facendosi collaborazionisti della prepotenza del mercato e della finanza internazionale. Cercavano di rendere sempre più poveri i poveri, più facilmente licenziabili gli operai, più indifesi i deboli, arrivando a criminalizzare il sindacato che li difendeva. Poi magari versavano una lacrimetta[2] pensando che gli Italiani, che noi Italiani, non fossimo logici[3]. Davanti a tanta scellerata ipocrisia “difficile est saturam non scrivere[4], è difficile non scrivere satire. Chi ha saputo scriverle e recitarle interpretando l’indignazione dei suoi connazionali, ha trionfato: “facit indignatio  verba[5], è l’indignazione a mettere insieme le parole. Lo sdegno dell’uomo satirico, o piuttosto silenico[6], ha incoraggiato e autorizzato l’ecce homo alla ribellione.
Quegli homines, con l’ecce e tutto[7], sono i tanti Italiani poveri.

Questa conversione dai partiti vetusti al nuovo rimarrà una rivolta pacifica se il voto cambierà qualche cosa e i giovani satiri allievi dell’opimo, gran nuotatore Sileno agiranno bene.
Lo dicono anche i bambini giocando: "at pueri ludentes 'Rex eris' aiunt/'si recte facies"[8].
Altri perdenti, dico Ingroia e i suoi tra i quali mi colloco poiché non intendo saltare sul carro del vincitore, hanno perso pur dicendo cose giuste. Abbiamo perso perché le abbiamo dette in modo poco perspicuo, con voce esile e pronuncia non chiara. C’era bisogno di uno scossone coribantico appunto, di un rullo di tamburi che spingesse alla carica.
Tympana tenta tonant et cymbala circum
Concava, raucisonoque minantur cornua cantu[9].
Dopo tanto frastuono, ora vediamo cosa sanno fare sileni, satiri, baccanti e coribanti. Se alla furia dionisiaca sapranno aggiungere il “nulla di troppo” delfico e apollineo.
Se faranno bene collaboreremo con loro, se non faranno bene finiranno come gli altri nella spazzatura della politica e della storia.
Lo sanno anche i bambini.

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it

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[1] Petronio contrappone l'umbraticus doctor deleterio ai grandi tragici: “cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat” (Satyricon, 2), quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni.
[2] Cfr. Dante, Purgatorio, V, 107
[3] Cfr. Dante, Inferno, XXVVI, 123.
[4] Giovenale (60-130 d. C.), Satire, I, 30)
[5] Cfr. Giovenale, Satire,  I, 79.
[6] Il Magnifico Lorenzo de' Medici nella Canzona di Bacco, celeberrimo “trionfo” del 1490, raffigura Sileno montato su un asino: “Questa soma, che vien drieto/sopra l'asino è Sileno/così vecchio è ebbro e lieto,/già di carne e d'anni pieno;/se non può star ritto almeno/ride e gode tuttavia./Chi vuol esser lieto, sia,/di doman non c'è certezza" (vv. 29-36).
[7] Cfr. Nietzsche, Lettera del 14 novembre 1888 all’amica Meta: “Questo homo sono cioè io stesso, compreso l’ecce
[8] Orazio, Epistulae I, 1, 59-60.
[9] Lucrezio, De rerum natura, II, 618-619: “I tamburelli tesi tuonano sotto i palmi e i cembali concavi intorno, e con il rauco suono minacciano i corni"

domenica 24 febbraio 2013

La costituzione dell'Atene di Pericle e la nostra



Nel secondo libro della sua Storia, Tucidide  racconta l'inizio delle ostilità, le operazioni del primo anno[1] della guerra del Peloponneso, quindi ricostruisce il famoso lovgo"  ejpitavfio", il secondo discorso di Pericle (II, 35-46), quello sui caduti. Lo statista ateniese presenta la sua città come il luogo politico esemplare e la costituzione della sua polis come paradigmatica.

Sentiamo come Tucidide ricorda le sue parole:
In effetti ci avvaliamo di una costituzione (crwvmevqa ga;r politeiva/) che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio (paravdeigma) a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia, però secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una condizione di uguaglianza per tutti (pa`si to; i[son), mentre secondo la reputazione, per come ciascuno ciascuno viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, né, d’altra parte secondo il criterio della povertà, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (II, 37, 1).
Politevia  è la parola chiave di questa orazione e non solo.
La Costituzione  influisce sulla vita dello Stato e dei suoi cittadini.
Isocrate scriverà che la costituzione è l’anima dello Stato: “infatti la costituzione non è altro che l’anima della città (yuch; povlewς), in quanto ha un potere tanto grande quanto la mente sul corpo. Essa infatti è decisiva su tutto e conserva i beni mentre evita i mali. (Areopagitico[2], 14).

Il principio di uguaglianza (pa`si to; i[son), o almeno di partenza alla pari per tutti, viene attribuito, in termini più chiari, al personaggio di Aspasia da Platone il quale, attraverso Socrate, sostiene che il discorso di Pericle sarebbe stato in realtà ispirato o addirittura composto dalla sua amante. Leggiamone alcune parole: “Nessuno è stato escluso per debolezza né per povertà né per l’oscurità dei padri, né per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore, come nelle altre città, ma c’è un solo limite, chi ha la reputazione di essere saggio e onesto ottiene potere e cariche. Causa di questa forma di governo è il nascere uguali (hJ ejx i[sou gevnesi~) (Menesseno, 238d-e).

Dove voglio arrivare con questo articolo breve?
Alla Costituzione nostra, quella di noi Italiani.
 Art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

In conclusione io spero che chiunque vincerà le elezioni, rimuova davvero gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana e attui queste sante parole della Legge fondamentale del nostro Stato, parole che i padri costituenti hanno scritto sicuramente conoscendo il lovgo~ ejpitavfio~ di Tucidide.
Una volta infatti gli uomini politici leggevano, studiavano, conoscevano la storia, la letteratura, la filosofia, parlavano esprimendo idee. Adesso vige la chiacchiera insignificante che versa  suoni  vuoti nel nulla.
Spero che tali cialtroni e imbonitori da baraccone vengano smascherati, confutati e respinti per sempre.

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it

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[1] 431 a. C.
[2] Il principale scritto di politica interna di Isocrate,  del 356 a. C. Propone di restituire all’Areopago i poteri di tutela sulla vita politica che aveva prima della riforma di Efialte (461 a. C.). Ne abbiamo una traduzione di Leopardi

sabato 23 febbraio 2013

L’amore d’estate. E la putredine diventi vitale


 Mercoledì 6 giugno  la terra era ancora fiorita e odorosa come la mia bella compagna, sebbene la vegetale  materia dei fiori cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare, bianchiccia, e tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio estivo, tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e, nello stesso tempo, angoscioso.
Il grano maturo, muovendosi con fatica nell’afa dolciastra, sembrava aspettare la falce che gli avrebbe tagliato le spighe, e l’aratro che  avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come succede sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Cominciammo a scendere per la solitudine  di un pendio del tutto deserto di essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di uccelli, del gorgogliare di  rane lontane, nascoste nelle poche pozze rimaste a corto di acqua. Dagli alberi veniva il  grande frastuono  di grigie cicale che, pazze di sole [1], strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.   
L’erba alta ci rendeva difficile camminare abbracciati giù per la ripida china, sicché ci fermammo a metà del colle dove c’era una casa colonica abbandonata che ci offrì la spianata dell’aia deserta.
Ci fermammo a osservare il luogo dove volevamo restare, forse anche fare l’amore. Nel calore potente di quel meriggio in cui sembrava culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi canuto per l’afa, il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri erano stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra bruciando, clamorosi e invadenti come le voci degli animali che preannunciavano l’olocausto odoroso del mondo nell’ardore  della canicola.
“Ricordi?” domandò Ifigenia, “Ricordi quando in autunno la bruma scoloriva il sole, ammutoliva gli uccelli, uccideva o faceva fuggire gli insetti, e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci fidiamo a vicenda, e siamo quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo. Io ne sento la voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi inesrtricabili”.
Pensai a quello non risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato con un colpo di spada, poi guardai il sole che stava riducendo le ombre a piccole isole nel mare di luce.
“Dai facciamo l’amore” dissi “Ne ho tanta voglia anche io. Ti prego, ti prego, ti prego”, aggiunsi, parodiando le sue preghiere erotiche, infantili e maliziose.
“Sì, ma facciamolo in piedi, come non l’abbiamo  fatto mai ancora,  una vergogna !” propose tutta contenta la ragazza. La stuzzicava la novità della postura e la spaventava il pensiero di stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le scabrosità del terreno riarso, ché i nostri indumenti minuti potevano costituire un diaframma assai inefficace.
Oltretutto Ifigenia aveva le mestruazioni. Si levò i calzoncini, poi, come sempre quando aveva il flusso, mi chiese di non guardarla mentre si toglieva ogni altro impedimento a fare l’amore. Girai il viso in alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata dove eravamo lontani da umame presenze, da altre case, da strade. Doveva essere il tocco[3]: l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo, aspettando che Ifigenia mi permettesse di rivolgerle ancora lo sguardo, mi venne in mente il tramonto del 28 ottobre dell’anno prima, quando la splendidissima ventenne, conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si cambiava la maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente riflettersi nel pallido sole rosaceo, accrescendone luce e calore. Il 6 giugno invece, pensando a quel giorno lontano e alle sue mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la vita striarsi di gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di luce liquida, ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per rigenerarne la vita.
Ifigenia mi distolse dalla visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo l’amore”. Fu assai faticoso. Senza sdraiarci, non l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata. Ifigenia rimase in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai miei occhi: era seria, muta, e mi guardava con l’espressione del desiderio non appagato. Quindi disse: “alzati. Facciamolo ancora”.
“Aspetta un momento” risposi, “rimani così come stai ora. Voglio guardarti”. Mi interessava osservare quello stranissimo aspetto della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei visto mai più: l’immagine di una donna giovanissima, nuda, bella come un’opera d’arte, una statua viva, illuminata dal sole di giugno mentre il sangue mensile le scorreva giù per le cosce.
Guardavo ora i suoi occhi fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti al mio volto. Il sangue colava verso le ginocchia in rivoli ostacolati dal sole rovente che, disseccando una parte del liquido, dell’altra frenava la corsa in discesa lungo il pur ripido e liscio pendio. La coscia sinistra era percorsa da due rigagnoli rossi, la destra da uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece pensare: “Ifigenia nelle belle membra non si discosta troppo da mia mamma, da mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse un legame di sangue, saremmo incestuosi ma certi dell’eternità del legame”. Le volli comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le sarebbe piaciuto.
“Tesoro, ti piacerebbe se fossi davvero il padre tuo?” Di fatto era appena possibile, poiché Ifigenia aveva quindici meno di me, però a volte ci presentavamo, per gioco, come parenti di vario grado. Io potevo esserle quasi padre, o più plausibilmente zio, o cugino, o fratello maggiore e così via.
“S’, Gianni”. Rispose. “Sì tanto. Adesso facciamo l’amore però”.
Continuava a fissarmi immobile e muta, come se fosse davvero una statua immobile e senza pensiero. Le abbracciai la coscia sinistra. I due rivoli bagnarono la mia guancia destra senza contaminarla, anzi purificandola: sentivo di amare quella creatura mirabile come amo la giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della mia adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove entro di giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con i monti antropomorfi cui parlavo quando ero bambino ed essi, per loro umanità mi rispondevano, un’umanità che più avanti non ho trovato in tanti sedicenti esseri umani; come amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso quando li scalo con la bicicletta; come amo il grande bosco di Debrecen, quando nelle notti serene di luglio e di agosto, when the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura Elena Sarjantola, lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che appariva e spariva tra gli alberi antichi e  sorridevo di gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove avevo la buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella e fine che amavo. Elena, Kaisa, Päivi.
Mi scostai per guardare di nuovo Ifigenia, il dono più recente, più nuovo che la sorte benigna, generosa, mi aveva elargito.
I rivoletti sanguigni, ostruiti e schiacciati dalla mia faccia,  avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso, incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala tellus[4], artistica madre natura.
Si sentivano sempre stridere le cicale pazze, gorgogliare oziosamente le rane, trillare gli uccelli con voci e voli che sembravano di ottimo auspicio.
Non è che i volatili conoscano il futuro, ma i loro canti e  voli sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel cinguettare di un passero[5].
Mentre la contemplavo,  la ragazza, la figlia adottata, diventava la grande madre natura. I suoi capelli violacei erano foreste fitte, dense di ombre; gli occhi neri, due laghi montani cupi di  mai rivelati misteri nel centro profondo, circondati da rive bianche, orlati da alberi scuri; i seni erano colline  dalle cime appuntite; il crine pubico stillante quel liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì sulla pianta da mani pie e libati agli dèi, Lo stomaco teso della divina creatura era una distesa marina quando il calore meridiano senza vento spiana e addormenta la superficie lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti capelli era una valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di terra protesa verso di me per abbracciarmi.
Sentivo che se fossi riuscito ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei amato nello stesso modo la vita del mondo e la mia stessa vita.
“Ti amo” dissi dopo averla ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e che questo sangue di cui mi hai asperso benedicendomi, scorresse dentro di me”.
Non rispose. Facemmo ancora l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo con gli indumenti leggeri della stagione nuda e felice.
Mentre risalivamo la china per tornare alla nera Volkswagen, disse che voleva fuggire dalla casa del marito, un tanghero non più sopportabile, e che se non l’avessi aiutata io, avrebbe accettato l’offerta di un suo amico strambo, un ferroviere cuccettista che l’aveva invitata in Provenza.
La stolta minaccia mi diede l’angoscia. Io non sono incline a prendere alcuno in casa mia, poiché temo di perdere l’autonomia, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a quello degli eterosessuali. Anzi, credo addirittura che essendo le nozze un atto contro natura, si confacciano più agli omosessuali che a quelli come me.
Ma non dissi questo, forse all’epoca nemmeno lo credevo.
Invece risposi, con giusta durezza: “”Io mi sono impegnato ad aiutare i miei allievi di terza liceo che Mortimer non è in grado di preparare per l’esame di maturità. Tu fai come vuoi”.
E pensai: “Elena Sarjantola tradiva il marito dal quale aspettava un bambino, ma con me non è mai stata tanto importuna, sciocca, volgare”.
Intanto era già pomeriggio e, sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi tutte le ombre.

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it 




[1] Cfr. Aristofane, Uccelli, 1096.
[2] Nell'Edipo re  di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può pensare che il Sole non sia un dio, o, per lo meno, l’immagine visibile dell’Idea del Bene, ovvero di Dio, come insegna Platone. Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa dell’idea religiosa del faraone “eretico” Amenophi IV.

[3] E’ un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto verso mia madre Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo Martelli di Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia della mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi. C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove si viveva negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle donne di casa mia, e al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche l’amore per il sole e per la bicicletta.
[4] Lucrezio, De rerum natura, I, 7
[5] Cfr.  Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.

giovedì 21 febbraio 2013

Feles et Vulpes Il Gatto e la Volpe della televisione


 Feles et  Vulpes Il Gatto e la Volpe della televisione
 “Molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell’uomo” è lo squillo iniziale del primo stasimo dell’Antigone  di Sofocle[1].

 Ebbene l’inquietudine per l’uomo deinov~ (terribile e meraviglioso) sparisce miracolosamente, la dura luce sofoclea si spegne  come per  incanto, se uno guarda la faccia maliziosa  di Fazio atteggiato del resto a finto tonto, e se nota le  parole che dice, le mosse, i sorrisetti  che fa.  Allude sempre a quello che è bene, che è giusto, che è bello avere in testa, poiché tutti i buoni, quelli come lui, la devono pensare nella stessa maniera. Se si diventa come è lui, rinunciando a se stessi, non c’è più niente di problematico. Poi si diventa pure ricchi e famosi.
Chi ci casca, chi lo trova onesto e simpatico,  subisce una grossa presa in giro, per usare un eufemismo, poiché quell’uomo dal sorriso ambiguo, nemmeno fosse la Gioconda, è valutato e pagato milioni dalla logica del mercato. Infatti lui ne raccomanda i decreti e ne promuove i profitti facendosi vedere tanto, ma tanto  buono: onesto, genuino e buono come un maritozzo del Mulino Bianco. Così atteggiandosi, insegna a non pensare, a non criticare, a essere prosseneti melensi, insomma a imitarlo per avere successo e diventare come lui è, ossia finge di essere.

Se fosse una persona per bene, si vergognerebbe assai della discrepanza immorale tra la sua spropositata mercede e il sudato salario-sudario di un operaio. Si vergognerebbe, la denuncerebbe, la rifiuterebbe. Qualcuno può pensare che queste parole siano suggerite da invidia. Può darsi, ma non ne ho coscienza. Nel latente tutto può essere. Che io sappia, ammiro e cerco di emulare quelli più capaci di me, nel mio campo che è l’educazione dei giovani, e anche dei non giovani, attraverso la parola.
Cosa sa fare colui? Accresce culturalmente e moralmente chi lo guarda? Non credo.
Infatti non fa che sorridere, dire mezze parole  con una maschera fissa da probo e moderato che copre una feroce ingordigia di fondo. Questa però traspare dalla pancetta del sedentario ghiotto.

Quell’altra, la petulante e grossolana scatologica[2] che   gli fa da spalla,  costituisce la falsa antitesi di una tesi falsa: quei due adulatori sono il Gatto e la Volpe di Pinocchio e fanno il loro esclusivo interesse[3]. La sfacciata, quando non dice parolacce ride, direbbe Ovidio, ut rudit a scabra turpis asella mola[4], come la brutta asinella raglia dalla ruvida macina.
Il fatto è che la coppia è sostanzialmente organica ai partiti del mercato il cui spirito, anzi l’assenza di spirito, richiede volgarità, ignoranza e stupidità.

Senofonte nella Ciropedia racconta che in Persia, probabilmente nell'antica capitale Pasargade, c'è un luogo chiamato Piazza Libera ( jEleuqevra   jAgorav) dove sorge il palazzo reale con gli altri edifici governativi e da questa sono bandite le mercanzie (ta; me;n w[nia) e i trafficanti del mercato (oiJ  jagorai'oi) e i loro schiamazzi e la loro volgarità (kai; aiJ touvtwn fwnai; kai; ajpeirokalivai). Costoro vengono spinti in altro luogo: "wJ" mh; mignuvhtai hJ touvtwn tuvrbh th'/ tw'n pepaideumevnwn eujkosmiva/" (I, 2, 3), affinché il loro disordine non si mescoli alla compostezza delle persone educate. Ecco dunque che uno degli aspetti dell'ordine mentale e della compostezza consiste nel non confondersi con le contese e le resse del mercato, come ebbe a scrivere Rohde a proposito di Sofocle[5]. Ho citato Sofocle e Senofonte, e posso aggiungere il Vangelo cristiano[6], poiché questa ostilità al mercato è la presa di distanza di un mondo non solo aristocratico, ma pure religioso, da questo mondo attuale nel quale gli unici valori sono "vendere e comprare".

Sentiamo anche la “matematica ispirata” di Pound: “We see to; kalovn decreed in the market place[7], vediamo il bello che subisce decreti sulla piazza del mercato.
“Per quanto parli di economia, il nostro tempo è un dissipatore: sperpera la cosa più preziosa, lo spirito”[8].
Sento già qualche cretino accusarmi di fascismo poiché ho citato Pound e Nietzsche. Io non mi vergogno delle mie letture, anche di autori fuori moda e mal strumentalizzati da chi nemmeno li conosce, anzi ne sono fiero, e replico con una citazione da il Manifesto del partito comunista di Marx-Engels: “Dove è giunta al potere la borghesia non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti”[9]. Questo darà noia ad altri cretini dogmatici, ma quello che scrivo ora, superati gli editori-strozzini e i giornali non letti, ha una prospettiva culturale sicura: i duecento visitatori al giorno che mi leggono in questo blog.

Ebbene di tale borghesia spietata, la stessa che ha perseguitato gli Ebrei poiché hanno inventato le filosofie antitetiche alla loro visione del mondo, il monoteismo[10] poi il cristianesimo con Gesù, quindi il comunismo con Marx, di certa borghesia, dico, Fazio è un’icona. Davanti all’ignoranza e alla povertà della gente cui piace, pur troppa gente, la coppia in questione, Feles et Vulpes celebrano i loro saturnali e incitano a perseverare nell’incoscienza, nella miseria culturale e materiale.
L’Italia deve essere liberata da tali imbonitori da baraccone.

Concludo con un’ultima citazione che raccomando ai miei lettori e a tutti quanti cercano bellezza e moralità negli autori classici, antichi e non antichi “Anch’io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte, e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con i morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue… Vogliano i vivi perdonarmi se essi talvolta mi sembrano delle ombre… Ma è l’eterna vitalità che conta”[11].

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it



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[1] Polla; ta; deina; koujde;n ajnqrwvpou deinovteron pevlei (vv. 331-332).

[2] Da skw`r-skatov~, “escremento” e lovgo~ “discorso”.

[3] “Noi - riprese la Volpe - non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri”

“Gli altri!” ripetè il Gatto.

“Che brave persone!” pensò dentro di sé Pinocchio”

 (Collodi, Pinocchio, XII capitolo)

[4] Ars, III, 290

[5] "Egli passa, non tocco, in mezzo alla ressa e alle contese del mercato", in Psiche , p.576.

[6]Matteo, 21, 12: "Et intravit Iesus in templum et eiecebat omnes vendentes et ementes in templo, et mensas nummulariorum evertit et cathedras vendentium columbas, et dicit eis: "Scriptum est Domus mea domus orationis vocabitur". Vos autem facitis eam speluncam latronum", e Gesù entrò nel tempio e cacciava fuori tutti quelli che vendevano e compravano nel tempio, e rovesciò le tavole dei cambiamonete e le sedie di quelli che vendevano colombe e disse loro: "È scritto: “la mia casa sarà chiamata casa di orazione”. Voi invece ne fate una spelonca di ladri.

[7] Ode per la scelta del suo sepolcro (III).

[8] Nietzsche, Aurora, p. 130.

[9] Manifesto del partito comunista, borghesi e padroni.

[10] Freud sostiene Mosè era un egiziano della corte del faraone eretico Amenophi IV e che il monoteismo dunque viene  dall’Egitto. Steiner sostiene che l’inventore della psicoanalisi  lo fa per allontanare dagli Ebrei l’odiosità conseguita a tale religione.

[11]  Nietzsche, Umano, troppo umano II, 408

Allegoria e simbolo. Umanesimo e anti umanesimo. La deterrenza umana

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