Mercoledì 6 giugno la terra era ancora fiorita e odorosa come la
mia bella compagna, sebbene la vegetale
materia dei fiori cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare,
bianchiccia, e tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio
estivo, tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e,
nello stesso tempo, angoscioso.
Il grano maturo, muovendosi
con fatica nell’afa dolciastra, sembrava aspettare la falce che gli avrebbe
tagliato le spighe, e l’aratro che avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come
succede sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la
successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Cominciammo a scendere per la
solitudine di un pendio del tutto
deserto di essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di
uccelli, del gorgogliare di rane
lontane, nascoste nelle poche pozze rimaste a corto di acqua. Dagli alberi
veniva il grande frastuono di grigie cicale che, pazze di sole [1],
strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.
L’erba alta ci rendeva
difficile camminare abbracciati giù per la ripida china, sicché ci fermammo a
metà del colle dove c’era una casa colonica abbandonata che ci offrì la spianata
dell’aia deserta.
Ci fermammo a osservare il
luogo dove volevamo restare, forse anche fare l’amore. Nel calore potente di
quel meriggio in cui sembrava culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi
canuto per l’afa, il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri
erano stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I
profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra bruciando,
clamorosi e invadenti come le voci degli animali che preannunciavano l’olocausto
odoroso del mondo nell’ardore della
canicola.
“Ricordi?” domandò Ifigenia,
“Ricordi quando in autunno la bruma scoloriva il sole, ammutoliva gli uccelli,
uccideva o faceva fuggire gli insetti, e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci
fidiamo a vicenda, e siamo quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo.
Io ne sento la voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi
inesrtricabili”.
Pensai a quello non
risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato con un colpo di spada, poi
guardai il sole che stava riducendo le ombre a piccole isole nel mare di luce.
“Dai facciamo l’amore” dissi
“Ne ho tanta voglia anche io. Ti prego, ti prego, ti prego”, aggiunsi,
parodiando le sue preghiere erotiche, infantili e maliziose.
“Sì, ma facciamolo in piedi,
come non l’abbiamo fatto mai ancora, una vergogna !” propose tutta contenta la
ragazza. La stuzzicava la novità della postura e la spaventava il pensiero di
stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le scabrosità del
terreno riarso, ché i nostri indumenti minuti potevano costituire un diaframma
assai inefficace.
Oltretutto Ifigenia aveva le
mestruazioni. Si levò i calzoncini, poi, come sempre quando aveva il flusso, mi
chiese di non guardarla mentre si toglieva ogni altro impedimento a fare
l’amore. Girai il viso in alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che
era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata dove eravamo
lontani da umame presenze, da altre case, da strade. Doveva essere il tocco[3]:
l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo, aspettando che
Ifigenia mi permettesse di rivolgerle ancora lo sguardo, mi venne in mente il
tramonto del 28 ottobre dell’anno prima, quando la splendidissima ventenne,
conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si cambiava la
maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente riflettersi nel pallido
sole rosaceo, accrescendone luce e calore. Il 6 giugno invece, pensando a quel
giorno lontano e alle sue mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la
vita striarsi di gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano
intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di luce liquida,
ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per rigenerarne la vita.
Ifigenia mi distolse dalla
visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo l’amore”. Fu assai faticoso. Senza
sdraiarci, non l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che
soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata. Ifigenia rimase
in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai miei occhi: era seria, muta,
e mi guardava con l’espressione del desiderio non appagato. Quindi disse:
“alzati. Facciamolo ancora”.
“Aspetta un momento” risposi,
“rimani così come stai ora. Voglio guardarti”. Mi interessava osservare quello
stranissimo aspetto della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei
visto mai più: l’immagine di una donna giovanissima, nuda, bella come un’opera
d’arte, una statua viva, illuminata dal sole di giugno mentre il sangue mensile
le scorreva giù per le cosce.
Guardavo ora i suoi occhi
fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti al mio volto. Il sangue
colava verso le ginocchia in rivoli ostacolati dal sole rovente che,
disseccando una parte del liquido, dell’altra frenava la corsa in discesa lungo
il pur ripido e liscio pendio. La coscia sinistra era percorsa da due rigagnoli
rossi, la destra da uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece
pensare: “Ifigenia nelle belle membra non si discosta troppo da mia mamma, da
mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse un legame di
sangue, saremmo incestuosi ma certi dell’eternità del legame”. Le volli
comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le sarebbe piaciuto.
“Tesoro, ti piacerebbe se
fossi davvero il padre tuo?” Di fatto era appena possibile, poiché Ifigenia
aveva quindici meno di me, però a volte ci presentavamo, per gioco, come
parenti di vario grado. Io potevo esserle quasi padre, o più plausibilmente
zio, o cugino, o fratello maggiore e così via.
“S’, Gianni”. Rispose. “Sì
tanto. Adesso facciamo l’amore però”.
Continuava a fissarmi
immobile e muta, come se fosse davvero una statua immobile e senza pensiero. Le
abbracciai la coscia sinistra. I due rivoli bagnarono la mia guancia destra
senza contaminarla, anzi purificandola: sentivo di amare quella creatura
mirabile come amo la giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della
mia adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove entro di
giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con i monti
antropomorfi cui parlavo quando ero bambino ed essi, per loro umanità mi
rispondevano, un’umanità che più avanti non ho trovato in tanti sedicenti
esseri umani; come amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso
quando li scalo con la bicicletta; come amo il grande bosco di Debrecen, quando
nelle notti serene di luglio e di agosto, when
the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura Elena Sarjantola,
lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che appariva e spariva
tra gli alberi antichi e sorridevo di
gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove avevo la
buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella e fine che amavo.
Elena, Kaisa, Päivi.
Mi scostai per guardare di
nuovo Ifigenia, il dono più recente, più nuovo che la sorte benigna, generosa,
mi aveva elargito.
I rivoletti sanguigni,
ostruiti e schiacciati dalla mia faccia,
avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso,
incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala tellus[4], artistica madre
natura.
Si sentivano sempre stridere
le cicale pazze, gorgogliare oziosamente le rane, trillare gli uccelli con voci
e voli che sembravano di ottimo auspicio.
Non è che i volatili
conoscano il futuro, ma i loro canti e
voli sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel
cinguettare di un passero[5].
Mentre la contemplavo, la ragazza, la figlia adottata, diventava la
grande madre natura. I suoi capelli violacei erano foreste fitte, dense di
ombre; gli occhi neri, due laghi montani cupi di mai rivelati misteri nel centro profondo,
circondati da rive bianche, orlati da alberi scuri; i seni erano colline dalle cime appuntite; il crine pubico
stillante quel liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì
sulla pianta da mani pie e libati agli dèi, Lo stomaco teso della divina creatura
era una distesa marina quando il calore meridiano senza vento spiana e
addormenta la superficie lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti
capelli era una valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di
terra protesa verso di me per abbracciarmi.
Sentivo che se fossi riuscito
ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei amato nello stesso modo la vita del
mondo e la mia stessa vita.
“Ti amo” dissi dopo averla
ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e che questo sangue di cui mi hai
asperso benedicendomi, scorresse dentro di me”.
Non rispose. Facemmo ancora
l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo con gli indumenti leggeri della
stagione nuda e felice.
Mentre risalivamo la china
per tornare alla nera Volkswagen, disse che voleva fuggire dalla casa del
marito, un tanghero non più sopportabile, e che se non l’avessi aiutata io,
avrebbe accettato l’offerta di un suo amico strambo, un ferroviere cuccettista
che l’aveva invitata in Provenza.
La stolta minaccia mi diede
l’angoscia. Io non sono incline a prendere alcuno in casa mia, poiché temo di
perdere l’autonomia, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a quello
degli eterosessuali. Anzi, credo addirittura che essendo le nozze un atto
contro natura, si confacciano più agli omosessuali che a quelli come me.
Ma non dissi questo, forse
all’epoca nemmeno lo credevo.
Invece risposi, con giusta
durezza: “”Io mi sono impegnato ad aiutare i miei allievi di terza liceo che
Mortimer non è in grado di preparare per l’esame di maturità. Tu fai come
vuoi”.
E pensai: “Elena Sarjantola
tradiva il marito dal quale aspettava un bambino, ma con me non è mai stata
tanto importuna, sciocca, volgare”.
Intanto era già pomeriggio e,
sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi tutte le ombre.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[1] Cfr. Aristofane, Uccelli,
1096.
[2] Nell'Edipo re di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660), il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la
fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può pensare che il Sole non
sia un dio, o, per lo meno, l’immagine visibile dell’Idea del Bene, ovvero di
Dio, come insegna Platone. Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa
dell’idea religiosa del faraone “eretico” Amenophi IV.
[3] E’ un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto
verso mia madre Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo
Martelli di Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia
della mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi.
C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove si viveva
negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle donne di casa mia, e
al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche l’amore per il sole e per la
bicicletta.
[4] Lucrezio, De rerum natura, I, 7
[5] Cfr. Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special
providence in the fall of a sparrow.
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