domenica 29 gennaio 2012

Umberto Eco e il trombone della polis - di Giovanni Ghiselli





Il 14 gennaio sul quotidiano la Repubblica è uscito un pezzo di Umberto Eco intitolato “Pericle il populista. Il suo discorso agli Ateniesi come esempio di malafede”. (pp. 56-57). L’ articolo contiene qualche imprecisione che vorrei segnalare  con questa mia modestissima critica.

Il professore emerito del Dams di Bologna esordisce vantandosi di avere suggerito che “Pericle era un figlio di puttana”  a un declamatore che si accingeva a leggere il logos epitafios in piazza del Duomo a Milano dopo l’elezione trionfale di Pisapia a sindaco della metropoli lombarda. L’attore, lì per lì, aveva riso, ma poi, leggendo il discorso di Pericle ricostruito da Tucidide, aveva capito che l’illustre semiologo aveva ragione. Questo famoso elogio della democrazia contenuto nel discorso funebre sui caduti durante il primo anno della guerra del Peloponneso dunque, secondo l’illustrissimo articolista era una presa in giro dei morti e una fregatura per i vivi. Ma rimaniamo un momento sulla madre di Pericle, infamata come “buona donna”, “puttana” e, più eufemisticamente e grecamente, quale “etera”. Con questi termini relativi alla madre di Pericle, il grande intellettuale ottantenne, intende affermare, che il capo degli Ateniesi era un gran farabutto, come “tanti altri politici”, dal momento che tutti costoro e tutte le loro madri si assomigliano, e, d’altra parte, per dirla con Platone, la natura intera è imparentata con se stessa. Tuttavia almeno una mamma di uomo politico, quella del grande statista ateniese appunto, va distinta dalla volgare schiera: era infatti Agariste “la nipote di quel Clistene che aveva cacciato i Pisistratidi e abbattuto valorosamente la tirannide, dato ad Atene nuove leggi e istituito un governo ottimamente equilibrato che garantì concordia e sicurezza” (Plutarco, Vita di Pericle, 3). Questa presunta “etera” apparteneva a una delle famiglie più nobili e antiche di Atene, gli Alcmeonidi, che si erano opposti alla tirannide, con loro pericolo e non senza loro danno, fin dal VII secolo a. C. Ma non è questa la trombonata massima dell’esimio scrittore.

La regina, la madre di tutte le trombonate di questo grandissimo, incredibilmente bravo docente dell’ateneo bolognese, è quella che assimila “al populismo di Mediaset e all’elogio del consumismo” gli spettacoli dell’Atene di Pericle, ossia le rappresentazioni delle tragedie di Sofocle, Euripide e altri, le commedie di Cratino, seguite da quelle di Eupoli e di Aristofane.

Questi drammi che fanno ancora parte della corrente sanguigna della cultura europea, vengono addirittura paragonati a quei mera homicidia, omicidi veri e propri, che furono gli spettacoli negli anfiteatri romani. Seneca, tornato dal Circo scriveva: "avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui "(Ep. 7, 3), torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? Anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini.

Ora sentiamo Umberto Eco: “ quello che egli voleva elogiare era la sua forma di democrazia, che altro non era che populismo-e non dimentichiamo che uno dei suoi primi provvedimenti per ingraziarsi il popolo era stato di permettere ai poveri di andare gratis agli spettacoli teatrali. Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremmo che si trattava di un populismo Mediaset”.

Populismo è “il rapporto carismatico tra il capo e la folla”, una di “quelle forme di governo basate unicamente sul consenso, sul plebiscito, sull’acclamazione, per le quali ancora Bobbio parlò nel 1984 di “democrazia dell’applauso”. La folla, anzi la plebe, applaude in maniera plebiscitaria appunto, siccome il capo carismatico la compiace, ma non era questo il caso di Pericle. Lo leggiamo in Tucidide. Lo stratego ateniese  poteva contrastare il dh'mo" fino a spingerlo all'ira (kai; pro;" ojrghvn, II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro. Pericle, per il fatto di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw'~ ajdwrovtato~  genovmeno~, II, 65, 8), teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"").

Nell’articolo di Eco abbondano le citazioni tratte dalla Vita di Pericle, scritta da Plutarco, e pure altre, tratte dal discorso di Pericle sui caduti nel 431 a. C., ricostruito da Tucidide nel terzo libro della sua opera. Ebbene ogni frase, pur bella e nobile, viene presa in malam partem. Vediamo come.

Il Pericle di Tucidide elogia l’esemplare costituzione ateniese, l’anima della città, con queste parole

In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia… e se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale. (Tucidide, II, 37, 1).

Di certo gli autori della nostra Costituzione tennero presente questo passaggio del discorso di Pericle quando concordarono l’articolo 3 in questi termini: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Eppure il nostro impareggiabile ermeneuta commenta: “Come discorso populista non è male salvo che Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c’erano, accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi”,

Vero è che la Politeia dell’Atene di Pericle ricevette molte critiche da filosofi e storici ostili alla democrazia, e venne definita una costituzione anarchica e variopinta, o una prepotenza dei non abbienti sui ricchi, o addirittura vituperata quale un prevalere della canaglia, insomma una dittatura del proletariato ante litteram, come scrisse diversi anni fa un illustre giurista del nostro Ateneo, Guido Fassò. Ma queste sono tutte critiche partigiane di regimi sicuramente meno favorevoli alla libertà e al benessere del popolo, e, in particolare,  della povera gente. Vero è pure che c’erano gli schiavi e che Pericle perseguiva una politica imperialistica non senza vessazione degli alleati- sudditi, ma sicuramente questo grande personaggio storico non mirava ad alcun arricchimento personale come il padrone di Mediaset; infatti il figlio di Agariste, la nobildonna alcmeonidea, utilizzò il denaro per far costruire  quell’ acropoli monumentale che è ancora un patrimonio dell’umanità colta, pure se non appassiona “l’uomo del libro e di tutti i libri”, come quel grande intellettuale e statista di primissimo piano che è Sarkozy ha salutato il nostro articolista accogliendolo all’Eliseo.

Ognuna delle "opere di Pericle" scrive ancora Plutarco “era, per la bellezza già allora antica, mentre per la sua rifioritura appare, ancora oggi, recente e appena ultimata” (13, 5). Non certo come le opere del padrone di Mediaset.

Voglio segnalare al maestro di tanti Italiani altre analogie molto improbabili di questo “figlio di puttana” con il padrone di Mediaset: “la sua eloquenza era immune da qualsiasi ciarlataneria banale e plebea” (Plutarco, Vita, 5). “Davanti al popolo del resto, Pericle si presentava solo a intervalli, per non ingenerare abitudine e saturazione ed evitava di prendere la parola su ogni argomento” (7). Ma soprattutto questo aspetto, messo in luce da Tucidide, Isocrate e Plutarco, mostra come Pericle debba essere considerato l’antitesi di Berlusconi e di quasi tutti i nostri politici: “La fonte della sua autorità non stava soprattutto nell’efficacia del suo discorso, ma, come dice Tucidide, nella reputazione che godeva per l’integrità della vita, e nella fiducia che si riponeva in lui, uomo palesemente incorruttibile, e superiore al denaro. Infatti Pericle, che rese la sua città, da grande che era, grandissima e ricchissima… non accrebbe di una sola dracma il patrimonio che aveva ricevuto in eredità da suo padre (Plutarco, Vita, 15).

Per quanto riguarda gli schiavi della città, chi legge le commedie rappresentate a teatro, quindi probabilmente con qualche realismo, ne ricava l’impressione che non stessero peggio degli operai e dei piccoli impiegati di adesso. Certo è che i grandi maestri del pensiero europeo, stanno assai meglio. Il nostro professore emerito, semiologo illustre, grande signore della cultura, e romanziere planetario, quasi cosmico, dovrebbe meditare su queste mie modeste, umili e sommesse osservazioni da proletario della cultura, forse non immune da invidia di tanta inarrivabile grandezza.

18 gennaio 2012

Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it

Naufragium ubique est - articolo sull'affondamento della Nave Concordia della Costa Crociere sull'Isola del Giglio di Giovanni Ghiselli



Non mi stupisce che una nave colossale, con dentro migliaia di persone, venga spinta sugli scogli e fatta naufragare da un comandante a dir poco incapace, in una Italia dove uno degli intellettuali più noti e celebrati sostiene che Pericle offriva agli Ateniesi abbondanti circenses.





"Si bene calculum ponas, ubique naufragium est ", se si fanno bene i conti, il naufragio è dappertutto, scrive Petronio (Satyricon,115, 17). In effetti il disastro della nave Concordia è emblematico della condizione generale del nostro paese.

Leggiamo Hermann Hesse : “Ben presto si scoprì che erano bastate poche generazioni di una disciplina rilassata e senza scrupoli per danneggiare sensibilmente anche la vita pratica…Si sa, o si intuisce, che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell’ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di vigore e di autorità e si cade nel caos” (Il gioco delle perle di vetro, p. 32).

Il caos è un vuoto immenso: un vuoto di sapere ( tò sofón) e di sapienza (sofía), un vuoto dove volteggiano i mostri dell’ignoranza, dell’indifferenza, dell’egoismo, dell’rresponsabilità.

Un baratro scosceso dove stiamo precipitando a testa in giù. Se non porremo dei rimedi, se non cambieremo rotta, ci saranno altri naufragi, poi si scontreranno gli autobus, i treni, e cadranno gli aerei. Saranno sempre meno rischiose e più plausibili le vacanze in bicicletta, o, meglio ancora, a piedi.

Ma torniamo ai naufràgi. Nelle opere degli autori classici sono diffuse allegorie e  metafore nautiche che descrivono navi senza nocchiero, o con pessimi nocchieri, in mezzo a grandi tempeste. Si sa che  l'allegoria è costituita da metafore continuate e che indica una cosa con le parole, un'altra con il significato generale. La metafora semplice invece trasporta un significato da una parola a un’altra. Alceo dunque descrive una rissa di venti, un rotolare di onde  che flagellano una nera nave con dentro uomini tribolati, mentre l’acqua oramai supera la base dell'albero maestro, e la vela è già tutta trasparente, per i grandi  strappi prodotti dalla furia della tempesta. Un’ode di Orazio (I, 14) riprende questo carme allegorico di Alceo suggerendo al timoniere di raggiungere il porto senza esitare. Quintiliano  ne fa l’esegesi interpretando  come nave lo Stato, come flutti e tempeste le guerre civili, e come porto la pace. La bufera marina, più in generale è uno sconvolgimento morale e sociale. Nelle Rane  di Aristofane il Coro degli iniziati ingiunge di tacere e di allontanarsi ai profani. Tra questi ci sono coloro che, reggendo la città sconvolta dalla tempesta, si fanno corrompere dai doni (v. 361). Come non pochi dei nostri politici.

Un’analoga metafora nautica viene impiegata da Sofocle  nell'Edipo re:"la città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo già fluttua  e di sollevare il capo dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace" (vv. 22-24).

 La polis tra le onde è Tebe, tormentata dalla peste, dalla carestia, dall’infecondità della terra, che non produce frutti, e dalla sterilità delle donne le quali non partoriscono più .  Concludo le citazioni con l'invettiva all'Italia del Purgatorio  di Dante:"Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello! “(VI, 76-78).

Quindi torniamo all’attualità. Intanto queste vacanze babeliche, o babiloniche, con il divertimento organizzato per orde di viaggiatori, sono già una scelta triste, fatta da persone che vanno a cacciarsi in un una confusione rumorosa la quale, anche quando non nega la vita, ottunde o cancella le identità delle persone. E’ la carenza di un impiego significativo del tempo che spinge in tali ammassi caotici. Se le città e i paesi offrissero attività e occasioni culturali, o per lo meno possibilità di incontri in luoghi e locali ameni, a nessuno verrebbe in mente di andare a chiudersi per giorni e giorni in  certi palazzoni precariamente galleggianti, sperando di vivere chissà quali avventure.

I passeggeri del viaggio successivo, partito il 18 gennaio su un altro casermone galleggiante, la Costa Serena, dicevano che stavano realizzando un sogno, e ridevano, tanto due volte di seguito la stessa sciagura non capita. Una strana consolazione, e un sogno davvero povero, di povera gente illusa.

Bruno Vespa poi ha annunciato con sorrisi  larghi che l’enorme nave Serena (nomen omen!) stava passando al largo dell’isola del Giglio, sfavillante di luci e giustamente piena di allegria. Per questi sorrisi infernali che calpestano il dolore di chi ha perso genitori o figli ancora sepolti nella Concordia, l’ineffabile personaggio viene pagato centinaia di volte più di un operaio e di un impiegato! Fatelo bestemmiare ancora!

Il naufragio è davvero dappertutto, è anche dentro di noi!

 La non amenità e l’insicurezza di certi grattacieli sull’acqua si è rivelata con piena evidenza nella fase critica: scarsa l’organizzazione del soccorso, insufficiente la solidarietà tra i naufragati, se una ventina di persone sono state lasciate morire a pochi metri dalla terraferma. Tra questi, bambini e perfino alcuni disabili. Francesco Schettino cui era affidata la Concordia non è stato all’altezza del compito, e viene indicato con esecrazione come l’unico colpevole, mentre l’altro comandante, Gregorio De Falco, quello buono, passa per eroe nazionale solo per il fatto di avere richiamato, da un ufficio del porto, quello cattivo, piuttosto bruscamente, al più ovvio e più naturale dei doveri di un comandante di nave. Additare il criminale unico, il codardo e cialtrone abominevole, e l’eroe perfetto, senza macchia e senza paura, sono entrambe semplificazioni acritiche di chi non vuole esaminare il tragico evento con mente lucida e aperta. Di sicuro Schettino ha sbagliato gravemente. Ma con altrettanta sicurezza bisogna aggiungere che a monte, e a fianco di Schettino ci sono altre responsabilità. E De Falco ha fatto il proprio dovere. Ma se fare il proprio dovere è un eroismo, pensiamo anche e  ai contadini che lavorano la terra, agli operai che faticano nelle fabbriche per poco più di 1000 euro al mese. E se le ingiustizie vanno eliminate, pensiamo alle smisurate, abormi differenze di stipendio tra persone che lavorano,  pensiamo a  gente come Fazio che prende milioni di euro per fare domande con l’inchino del servo e con il  sorriso ambiguo del prosseneta!

 La testimonianza di una donna incinta di cinque mesi dice che la gente faceva a pugni per salire sulle scialuppe. Ha provato a gridare che aspettava un bambino, ma nessuno la aiutava. Rimasta indietro e in bilico sul ponte molto inclinato, con altre donne, con bambini e anziani, ha visto ufficiali della nave già in salvo sulle scialuppe. La signora si è salvata scendendo con una scala di corda non abbastanza lunga e facendo un rischioso salto finale. Anche questo episodio è simbolico. La solidarietà, l’aiuto a chi ne ha bisogno, sono valori scaduti; con l’incapacità, l’approssimazione, l’indisciplina, trionfano l’egoismo e l’ homo homini lupus. Qualche atto di solidarietà, perfino di abnegazione c’è stato, per carità, ma si è trattato di gesti sporadici, mentre dovrebbero costituire la regola, la santa regola dell’homo homini deus.

Gli esempi pessimi vengono dall’alto: la guerra è una delle rare attività per le quali non sono previsti tagli di spesa. L’opera malvagia, deleteria della guerra ha la precedenza rispetto ai servizi sociali, alla scuola, alla cultura e ad ogni  opera buona, costruttiva di bene.

  Lo fa notare don Luigi Ciotti in un suo bellissimo libro presentato poche sere fa allo Stabat Mater di Bologna: “E’ insopportabile l’ipocrisia di chi continua a dire che  non ci sono i soldi per i servizi sociali, che non ci sono i soldi per la lotta alla povertà, che non ci sono i soldi per chi non ha lavoro. Non è vero! I soldi ci sono, ma vengono spesi per acquistare missili e aerei da combattimento, per costruire navi da guerra e carri armati, per disegnare un mondo sempre sull’orlo dell’ennesima guerra, mentre abbiamo tutti bisogno di un mondo di pace” (La speranza non è in vendita, p. 44).  Nietzsche nella quarta e ultima parte di Così parlò Zarathustra scrive: “Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più grande di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso, obliquo mostruoso, quando ciò avviene”.

La mia speranza è che i prìncipi della terra, o almeno i personaggi esemplari, siano persone della levatura etica di Don Ciotti, dei veri professionisti dell’etica, della solidarietà, dell’umanesimo che è amore per l’umanità.

21 gennaio 2012

Giovanni Ghiselli

g.ghiselli@tin.it

Il giorno della Memoria e l'antisemitismo - di Giovanni Ghiselli




A Polina

Ho trovato una interessante spiegazione dell’antisemitismo in un bel libro di George Steiner, Nel castello di Barbablù Note per la riedifinizione della cultura. E’ una raccolta di conferenze in memoria di T. S. Eliot, tenute nel 1970, pubblicate in inglese nel 1971, e ripubblicate da Garzanti, tradotte in italiano, nel 2011. La seconda conferenza, Una stagione all’inferno, tratta dell’Olocausto e di altri orrori del Novecento.

Prima di occuparcene però diamo un’occhiata ad alcune espressioni antiche dell’antipatia  e dell’odio contro gli ebrei.

La Giudea viene descritta da Tacito, in un celebre excursus delle Historiae, come una regione corrotta abitata da gente corrotta: “Moyses quo sibi in posterum gentem firmaret, novos ritus contrariosque ceteris mortalibus indidit. Profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum concessa apud illos quae nobis incesta” (Historiae, V, 4), Mosè, per tenere legato a sé il popolo nell’avvenire, introdusse riti inauditi e contrastanti con quelli degli altri mortali. Empio è là tutto quanto da noi è sacro e, viceversa, lecito tutto quanto da noi è impuro.

Tacito ricorda alcune usanze e riti giudaici giustificati dalla loro antica tradizione, come il panis Iudaicus nullo fermento, il pane azzimo, il riposo del settimo giorno e del settimo anno, dedicato alla pigrizia (ignaviae datum). Già questa parte non è priva di malevolenza.

  Quindi lo storiografo rincara la dose e aggiunge: “cetera instituta, sinistra, foeda, pravitate valuere” (V, 5), altre costumanze, sinistre, ripugnanti, si affermarono per la depravazione. I Giudei sarebbero solidali tra loro, sed adversus omnis alios ostile odium, ma nutrirebbero un odio da popolo nemico nei confronti di tutti gli altri. Per distinguersi da gli altri popoli e riconoscersi tra loro, si circoncidono.

Nel testo non mancano le contraddizioni, come sempre quando si hanno pregiudizi e si fa propaganda. Questo popolo, oltre disprezzare gli dèi, non ama la patria, né i genitori, né i figli, né i fratelli. Tuttavia, per accrescere il proprio numero non sopprimono la prole. In conclusione di capitolo, Tacito respinge l’analogia che si è voluta trovare tra Libero, latore della religione dionisiaca  e  alcuni aspetti della cultura giudaica: “Quippe Liber festos laetosque ritus posuit, Iudaerom mos absurdus sordidusque” (Historiae, V, 5), Libero infatti ha istituito riti festosi e lieti, mentre il costume dei Giudei è assurdo e squallido.

La stessa terra di questa gente presenta aspetti sinistri: il Mar Morto e il territorio circostante sembra corrispondere al carattere malsano e alla cultura degenerata di questo popolo. Tacito descrive un lago grande quanto un mare ma sapore corruptior ( Historiae, V, 6), molto guasto al sapore, e portatore di peste agli abitanti con la pesantezza del cattivo odore. Non c’è vita in quel sudiciume quasi solido dove le cose gettate non vanno a fondo, e nemmeno gli uomini, anche se non sanno nuotare: periti imperitique nandi perinde attolluntur. Vicino  a quest’acqua orrenda ci sono campi ora desolati, ma una volta popolosi con grandi città che si dice, fulminum ictu arsisse (V, 7), bruciarono colpite dal fulmine

Nella Genesi (19, 24) si legge di due città bruciate dall’ira divina poiché nemmeno dieci giusti vi si trovavano: “ Il signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco”. Gli abitanti di Sodoma volevano abusare dei due angeli ospiti di Lot. Una storia che ha avuto larga risonanza nella letteratura europea.

Proust premette queste parole al IV volume della sua Ricerca: “ Prima apparizione degli uomini-donne, discendenti da quegli abitanti di Sodoma che furono risparmiati dal fuoco celeste” .

Di queste città distrutte ictu fulminum  resta qualche traccia ma la terra stessa, dall’aspetto bruciato, ha perduto la forza di produrre frutti: “terramque ipsam, specie torridam, vim frugiferam perdidisse” (V, 7).

Tutto quello che viene alla luce spontaneamente ( cuncta sponte edita) o è seminato ( manu sata), atra et inania velut in cinerem vanescunt, divenuto nero e vuoto, svanisce come in cenere. Il fuoco celeste (ignis calestis), commenta Tacito, può esserci anche stato, ma è a causa del cielo e del suolo ugualmente guasti che imputridiscono i frutti delle messi e dell’autunno: “eoque fetus segetum et autumni putrescere reor, solo caeloque iuxta gravi”.

Il determinismo geografico presente nella letteratura antica trova delle corrispondenze tra il clima, il suolo e le forme dell’esperienza umana.

Il nesso tra l’ empietà della gente e la sterilità della terra si trova accennato anche nel Satyricon che “dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita" .

Ganimede, chiacchierando con altri liberti ospiti di Trimalchione afferma, dando voce a una credenza popolare:" quia nos religiosi non sumus, agri iacent"  (44, 18), poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati.

Tacito procede facendo la storia dei Giudei e aggiungendo altre maledizioni: sotto gli Assiri, i Medi e i Persiani furono despectissima pars servientium (V, 8), i più disprezzati tra gli assoggettati; quindi,  dopo Alessandro Magno, il re Antioco   tentò di sradicarne  il  fanatismo et mores Graecorum dare, e dare loro dei costumi greci. Ma quella taeterrima gens, quella razza davvero ripugnante, non poté essere emendata a causa della guerra dei Parti. In seguito i Giudei si diedero dei re che si dedicarono a distruzioni di città, stragi di fratelli, spose, genitori mentre favorivano la superstizione. Le Storie di Tacito proseguono con la sottomissione dei Giudei da parte di Pompeo (63 a. C.). Segue la rivolta sotto Vespasiano e la repressione dei Flavi.

Il racconto si interrompe con l’assedio di Tito a Gerusalemme che poi si concluse con centinaia di migliaia di Ebrei uccisi. Tacito però fa in tempo a ricordare che il popolo giudaico, gens superstitioni obnoxia, religionibus adversa (V, 13), soggetta alla superstizione, contraria alla religione, considera empio scongiurare i prodigi con sacrifici e preghiere (neque hostiis neque votis piare fas habet).

C’è un rovesciamento  fazioso, malevolo nei confronti degli Ebrei, dei termini religio e superstitio. E’ la forte cultura di questo popolo che suscita tanta incomprensione e tanto odio.  Si tratta infatti di una gens restia a farsi assimilare, incapace di di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di sopra del  capo", come consiglia Plutarco ai Greci .

Va corretto il luogo comune tuttora vigente secondo il quale gli Ebrei sono stati odiati in quanto usurai e accumulatori di ricchezza.

D’altra parte il biografo greco, il sacerdote delfico, utilizzato da Shakespeare a piene mani,  adorato da Alfieri, celebrato da Foscolo, da Nietzsche e da chissà quanti altri come maestro di vita eroica,  Plutarco insomma, aggiunge che quello che conta è il benessere economico e “ai popoli tocca tanta libertà quanta ne concedono i dominatori" .

I Romani della prima età imperiale tendono ad assimilare i Cristiani agli Ebrei. Il cristianesimo viene considerato una religione depravata dagli autori tradizionalisti

 Tacito nella sua opera più matura, gli Annales, nel raccontare i fatti dell’anno 64 d. C. con l’incendio di Roma,  definisce il cristianesimo una exitiabilis superstitio (rovinosa superstizione) la quale, dopo essere stata repressa, “ rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undĭque atrocia aut pudenda confluunt celebranturque” (Annales, XV, 44), di nuovo dilagava, non solo per la Giudea, terra d’origine di quel male, ma anche a Roma dove tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e si divulgano.

 I Cristiani quindi vennero accusati di avere appiccato il fuoco e processati. Correva voce che l’incendio fosse stato ordinato da Nerone. Allora l’imperatore, per troncare quelle voci (abolendo rumori), fece passare per colpevoli e torturare quelli che il volgo chiamava Cristiani, per flagitia invisos, odiati per le loro nefandezze.

 “ Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat ”, Il fondatore della setta Cristo, sotto il regno di Tiberio era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato.Gli accusati in parte confessarono, quindi  denunziarono altri i quali vennero dimostrati colpevoli “haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis” , non tanto del crimine dell’incendio quanto di odio del genere umano.

Infine ricordo Svetonio, che fu segretario dell’imperatore Adriano e scrisse le biografie dei Cesari, da Giulio Cesare a Domiziano. Nella Vita di Claudio  il biografo confonde i  Cristiani, sobillati da Cristo,  con i Giudei, e racconta che già Claudio  li aveva cacciati da Roma dove tirbavano l’ordine istigati da “Cresto” : “Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Romā expŭlit ( 25).

Tralascio gli antisemitismo recenti per riassumere e commentare l’interpretazione di Steiner. Gli Ebrei sono visti come gli inventori e i propagatori di ideali troppo duri e scomodi per i popoli dell’Europa occidentale, insomma per noi. Il primo vulnus inferto all’Europa pagana fu quello del monoteismo. Steiner cita Nietzsche: “ Nel politeismo consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità…è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”)” .

Sappiamo che Nietzsche non si limitò a questo. Egli vide negli Gli Ebrei un popolo sacerdotale, il “popolo della più latente sete di vendetta sacerdotale”. E ancora: “Con gli Ebrei si inizia la rivolta degli schiavi nella morale”.

C’è una ostilità culturale piuttosto che razziale-biologica, come fa notare T. Mann: “Quando Socrate e Platone cominciarono a parlare di verità e di giustizia egli dice una volta ‘non furono più greci, ma ebrei, o che so altro’. Orbene, gli ebrei, grazie alla loro moralità, si sono dimostrati buoni e tenaci figli della vita. Con la loro fede in un Dio giusto, essi sono sopravvissuti ai millenni, mentre il piccolo, dissoluto popolo greco di esteti e di artisti è presto scomparso dalla scena della storia. Ma Nietzsche, pur lontano da ogni odio razziale antisemitico, vede nel giudaismo la culla del cristianesimo e in questo, a ragione ma con aborrimento, il germe della democrazia, della rivoluzione francese e delle odiate “idee moderne” che la sua parola squillante marchia con il nome di ‘morale del gregge’…ciò che egli disprezza e maledice in queste idee è ‘utilitarismo e l’eudemonismo, il loro far della pace e della felicità terrena i beni più desiderabili ed alti, mentre l’uomo nobile, tragico, eroico, calpesta questi valori molli e volgari”  . Certamente non è l’eudemonismo la quintessenza della cultura ebraica. Piuttosto essa è contrassegnata dal monoteismo.

Ebbene, il rifiuto del monoteismo importato in Europa dagli Ebrei si trova in diversi autori. Sentiamo, per esempio, Vittorio Alfieri: “Nel trattato Della tirannide (del 1777) l’Astigiano distingue la religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato , e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).

Anche qui l’obiettivo polemico è il popolo ebraico, origine della malattia monoteistica, come si vede.

Steiner mette anche in rilievo il fatto che Freud cercò di scagionare gli Ebrei dalla “colpa” del monoteismo : “In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria… Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio-ma chi aveva scelto chi?-era troppo visibile su di loro” .

Freud pensa che la religione monoteistica fu portata agli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace  della  riforma religiosa voluta  da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C.”  e  adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”  solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dalla propria persona  e da tutte le iscrizioni.

“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta…Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn” . Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn il quale “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti  Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto” . Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia”  .

Freud però non riuscì a deviare la malevolenza antiebraica dovuta al loro rigoroso monoteismo. Del resto anche la sua psicanalisi ha trovato una forte resistenza nella mentalità perbenistica borghese.

 Ma sentiamo ancora Steiner: “Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio…L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici” . Al rigido monoteismo di Mosè si è poi aggiunto il cristianesimo che nella sua fase nascente proponeva ideali e prescriveva regole sostanzialmente impraticabili dai più, deboli e tutt’altro che buoni. Vero è che poi il cristianesimo, e il cattolicesimo in particolare, ha recuperato non pochi aspetti del politeismo e di quel grande apparato di potere che fu l’impero romano. “Le chiese cristiane sono sempre state, tranne rarissime eccezioni, un ibrido di ideali monoteistici e di pratiche politeistiche…Il Dio unico e inimmaginabile-a rigore, “inconcepibile”-del Decalogo non ha nulla a che fare con il pantheon triplice delle chiese, ampiamente tradotto in immagini” .

Ma i Vangeli rimangono, e questi raccomandano la povertà e l’amore del nemico. In quale modo possono accettare questo gli uomini, fragili e corrotti come per lo più sono ?  Gli imitatori di Cristo, quale Francesco di Assisi, sono sempre stati pochi.

La maggior parte dei sedicenti cristiani sono tartufi, falsi devoti i quali vivono una vita che è l’antitesi di quella predicata da Cristo. Si pensi a tanti dei nostri politici che si professano cristiani.

Ultimo schiaffo all’Europa occidentale: l’ideale marxista. “ Il terzo confronto tra l’esigente utopia e i ritmi ordinari della vita occidentale coincide con l’avvento del socialismo messianico. Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti, più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura…Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quello che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale”…Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi…Il gemocidio…fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto”  . Ebbene, per fortuna, il genocidio, quello fisico dei nazisti e quello culturale di tempi più recenti, non ha annientato del tutto gli uomini evoluti, colti e morali che capiscono l’altezza degli ideali proposti dagli Ebrei e ammirano la spiritualità ebraica. Vivere nel peccato della barbarie significa vivere contro lo spirito. Gli antisemiti sono ottusi refrattari alla ricettività nei confronti dello spirito, umano e divino. La religiosità  e l’umanesimo degli Ebrei sono aspetti dell’intelligenza: l’ intelligenza dell’uomo e l’intelligenza di Dio.

Gianni Ghiselli

email g.ghiselli@tin.it

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